Io tengo un archivio cartaceo. Una pazzia, in epoca digitale. Tanto più che io non raccolgo ovviamente solo i miei articoli (e già questo basterebbe perché ho pubblicato per un centinaio di giornali circa, tra cui Penthouse) ma ritagli di ogni genere disseminati in più di cinquant’anni per il mio mestiere di osservatore, come giornalista, della vita pubblica e privata italiana. Ciò che starebbe in un semplice smartphone occupa tutta la casa, stipato in armadi, in ripostigli, in cumuli accatastati sui pavimenti e persino nel sinistro sgabuzzino dove la mia madre zarista costringeva a vivere la domestica. Però questo sistema, perenne motivo di litigio con le donne che hanno vissuto con me, ha anche qualche vantaggio. Può succedere che, in un pomeriggio di noia, tu ti metta a sfogliare quei vecchi ritagli trovando una notizia dimenticata non solo da te ma dal contesto pubblico. È quello che mi è capitato l’altro pomeriggio. La fidanzata era andata al cinema con la Franca (ma sarà poi vero, chi va più al cine, le sale sono semideserte, il cinema si fruisce ormai in casa con Netflix) e, quel che è peggio, non c’era nemmeno una partita da vedere in Tv, cosa quasi impossibile perché fra anticipi, anticipi di anticipi, posticipi, Campionato, Champions League, Europa League, Conference League, Coppa Italia, Supercoppa, non c’è giorno senza “frubal” (Gianni Brera), cosa che non fa bene al calcio che finirà per morire di overdose.
Ho trovato quindi questa notizia, dimenticata, che risale al 2005. In quegli anni gli scienziati, indefessi, avevano trovato il gene responsabile della timidezza, chiamato in gergo 5-HTTLPR. La notizia l’aveva data la prestigiosa rivista “Archives of General Psychiatry” e la scoperta era dovuta ai ricercatori dell’università “Vita-Salute” del San Raffaele di Milano (dove è morto Silvio Berlusconi) in combutta coi loro colleghi dell’Istituto Eugenio Medea – Nostra Famiglia di Bosisio. Lavorando su una quarantina di bambini di età compresa tra i sette e i nove anni gli scienziati avevano scoperto – detto in estrema sintesi – che i possessori del 5-HTTLPR (che è una variante di un altro gene) sono timidi, introversi, stanno in disparte, preferiscono il silenzio al chiasso, “non socializzano, hanno difficoltà a giocare coi coetanei”. Embè, che male c’è? Che male c’è se un bambino invece di essere petulante, appiccicoso, rompicoglioni è timido, educato e preferisce starsene per i fatti suoi? Eh no, replicano gli scienziati indefessi, questi soggetti, secondo loro, sono bambini “a rischio” (termine quantomai sinistro). Perché sono predisposti, una volta adulti, a diventare delle persone ansiose e in seguito degli alcolisti “dal momento che l’alcol è uno dei più potenti ansiolitici che si conoscano” e magari anche degli aspiranti suicidi o dei suicidi tout-court. Vanno curati con una opportuna terapia psico-clinica fin da subito, quando sono ancora a balia, è quello che ho chiamato “terrorismo diagnostico”.
In realtà c’è qui la tendenza, peculiarmente moderna, a standardizzare e a omologare tutto: i nostri stili di vita, attraverso un unico modello di sviluppo economico e istituzioni e codici etici validi da New York a Ulan Bator, e adesso, risolvendo così il problema alla radice, anche direttamente le persone. Si va verso l’idealtipo, il normotipo, un individuo che non deve essere né troppo timido né troppo ansioso né troppo introverso, ma nemmeno eccessivamente aggressivo, non troppo geloso o possessivo, non sessuomane ma nemmeno asessuato, e così via, una specie di Alfa Minus del “Mondo nuovo” di Aldous Huxley che rumini tranquillamente il suo betel, la sua droga quotidiana – il consumo in sostanza – senza porre problemi a sé ma soprattutto alla società. Un uomo senza personalità, senza identità, “senza qualità” per dirla con Musil. Un automa.
Per quanto poi riguarda, in particolare, la timidezza, la ritrosia, la riservatezza, che cosa c’è di più attraente? Chi non ha nostalgia dei rossori e dei pudori delle ragazze d’antan, essendo attorniato dalla sfacciata aggressività di quelle di oggi, ombelichi di fuori e sederi al vento, una cosa che farebbe passar la voglia anche a un mandrillo (ma le ragazze, dico, si sono dimenticate dell’elettrizzante gioco del “ti vedo, non ti vedo”)?
Eppoi tutti i geni (quelli veri, non quelli del Dna) sono stati, quasi senza eccezione, dei timidi, degli introversi, degli individui che avevano difficoltà a relazionarsi con gli altri. Diversamente non sarebbero geni. Se Nietzsche non fosse stato un introverso forse avrebbe vissuto meglio ma non avrebbe mai scritto “Così parlò Zarathustra”, se Leopardi non fosse stato quello che era non avremmo mai avuto “L’infinito”, se Schopenhauer non fosse stato così nevrastenico da non sopportare nemmeno il rumore delle frustate dei cocchieri delle carrozze che passavano nella sua via (si legga il divertente, e preveggente, “Del chiasso e dei rumori” in Parerga a paralipomena) non avrebbe mai pensato il mondo come “volontà e rappresentazione”, così come Maupassant non avrebbe mai ideato il personaggio di “Bel Ami”.
Ma la società attuale è nemica non dico del genio ma anche dell’intelligenza e del semplice buon senso. Se ne avesse conservato un barlume, i suoi scienziati la pianterebbero di andare a trafficare ossessivamente col Dna e in ogni caso, dovendolo fare, per così dire, per dovere d’ufficio, invece di dare la caccia al gene della timidezza lo darebbero a quello dell’arroganza di cui è pieno il mondo. A cominciare da quello scientifico.
Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2024