I suicidi dei giovani sono in aumento in Italia e nel mondo. Il neuropsichiatra Stefano Vicari attribuisce il fenomeno soprattutto alla pandemia. E certamente non hanno aiutato i ragazzi, così come pure i vecchi, i due anni di isolamento. Come disse all’inizio della pandemia la ministra svedese della Sanità, Lena Hallengren (la Svezia ha fatto un lockdown minimo e ha avuto proporzionalmente meno morti dell’Italia) “i conti si faranno alla fine”. Non si riferiva tanto al Covid quanto al lockdown. Il Covid, concentrando tutte le attenzioni su di sé, ha impedito la prevenzione e la cura di malattie ben più gravi, tumore in testa, che a sua volta è in spaventoso aumento, ma il lockdown è stato anche peggio. Impedendo di fatto di muoverci è stato causa di obesità che, parafrasando Saddam Hussein, è la madre di tutte le malattie o quasi: patologie cardiovascolari, infarto, ictus, depressione. I più colpiti, anche se non i soli, sono stati i giovani e in particolare gli adolescenti e gli immediati postadolescenti. Nel periodo della pandemia, ma direi piuttosto del lockdown, le richieste di soccorso agli ospedali psichiatrici per i ragazzi dagli 11 ai 18 anni (richieste fatte ovviamente dai loro genitori) sono aumentate del 14 percento. Oggi la pandemia non c’è più, il lockdown non c’è più ma il tasso dei suicidi nei giovani continua ad aumentare. Si tratta dei ragazzi più sensibili che, non riuscendo a proiettare la propria aggressività, che poi è segno di vitalità, all’esterno, la introiettano. Oppure questa aggressività esplode improvvisamente, in modo singolo, come dimostra il recente episodio finlandese dove un ragazzo di dodici anni ha sparato all’impazzata sui suoi ex compagni di scuola, e come dimostrano soprattutto i tantissimi episodi analoghi che avvengono quasi quotidianamente negli Stati Uniti.
Proprio perché sono i più sensibili ai fattori esterni la loro cattiva salute è il segno di una cattiva salute della società. Sono soprattutto le società opulente e fortemente urbanizzate, come ci dimostra il classico studio di Durkheim (Il suicidio) a soffrire di quella malattia tutta moderna che si chiama depressione. In campagna e nei piccoli centri il fenomeno è molto minore. Ma qui la questione dei suicidi non riguarda più solo gli adolescenti ma la società nel suo complesso. I suicidi aumentano col progredire della società industriale. Negli anni compresi tra il 1640 e il 1660, cioè in era preindustriale, i suicidi a Londra erano 2,5 su centomila abitanti. Un dato probabilmente sottostimato perché Londra a quell’epoca aveva già raggiunto le dimensioni di una grande città fortemente urbanizzata. Nel 1851 i suicidi, nel mondo industrializzato, erano già 6,8 su centomila abitanti e sono diventati 19,4 su centomila nel 1975. Cioè i suicidi sono prima triplicati e quindi decuplicati. C’è un dato apparentemente curioso: nel Mezzogiorno d’Italia il numero dei suicidi, 3,1 ogni centomila abitanti, è all’incirca la metà rispetto al Centro-Nord con punte tanto più basse per le regioni che più sono rimaste lontane dai processi di industrializzazione: Campania 2,1; Lazio 2,2; Calabria 2,6. Cioè nelle regioni che apparentemente stanno peggio la gente vive meglio. Sono dati non attuali perché risalgono al 1985, anno in cui pubblicai La ragione aveva torto?. Ma nulla fa pensare che siano cambiati in meglio. Se qualche cattedratico ci vorrà dare dati più aggiornati lo accoglieremo a braccia aperte.
Ma leghiamo il suicidio alle patologie mentali che ne sono spesso, anche se non sempre, la precondizione. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità. Prima non esistevano. Non a caso è con Freud, fra fine Ottocento e inizio Novecento, che nasce la psicanalisi, diretta inizialmente alla borghesia ricca perché può pagarsela ma poi dilagata per ogni dove. Negli Stati Uniti, il Paese più ricco, più potente del globo, che detta la linea non solo politica ma anche culturale all’universo mondo occidentale, più della metà degli americani fa uso abituale di psicofarmaci. Per non parlare della droga. È soprattutto l’ansia da competizione, ma non solo, alla base di queste patologie con i suoi corollari di invidia e della sensazione di non aver mai colto l’obiettivo perché l’asticella è posta sempre più in alto. Per questo noi non possiamo mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia, di pace che erano invece possibili in un mondo meno competitivo e più semplice che pur è esistito.
In definitiva: è il benessere che ci ha fatto male, è riuscito a far star male anche chi sta bene.
Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2024