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È passato al Senato un disegno di legge che tende a rendere più difficile l’acquisizione di smartphone, Pc e tablet da parte della Magistratura. Sappiamo bene che è dall’epoca di Mani Pulite, quando i magistrati di Milano richiamarono la classe dirigente, politici e imprenditori, al rispetto di quelle leggi che noi tutti, cittadini comuni, siamo chiamati a osservare, che è in atto una controffensiva d’ispirazione berlusconiana per limitare il più possibile il potere di indagine che la legge attribuisce ai magistrati del Pubblico ministero (per i reati da strada, commessi in genere dai poveracci, vale un altro Codice, quello della Santanché: “In galera subito e gettare via le chiavi”).

Ma non vogliamo fare qui un cattolico processo alle intenzioni, dato che la materia è troppo importante: si tratta di trovare il modo di contemperare diritti e interessi fra loro contrastanti: diritto alla presunzione di innocenza, garantito dalla Costituzione in modo esplicito (art. 27 Cost.), il diritto alla privacy, che non è garantito dalla Costituzione in forma diretta ma attraverso l’interpretazione dell’art. 2, l’interesse (non quindi un diritto) del cittadino ad essere informato, l’interesse, e quindi anche qui non un diritto, ad informare cosa che riguarda in particolare la categoria dei giornalisti.

Il Codice Rocco aveva trovato la soluzione: l’istruttoria è segreta, il dibattimento è pubblico. Cioè nella fase preliminare dell’indagine, quando Pm e polizia giudiziaria brancolano ancora nel buio, si può dare sì notizia degli atti istruttori ma non del loro contenuto. Per fare un esempio, si può dare notizia di una perquisizione ma non dei suoi risultati. Il contenuto dei risultati dell’indagine preliminare viene vagliato dal Gip, un giudice giudicante, e quindi al dibattimento arrivano solo i materiali ritenuti utili al processo, tenendo fuori tutto il resto, cioè persone che con quel processo non c’entrano nulla.

Va da sé che un sistema come questo prevede la correttezza di tutte le parti in causa. Il Pm non può spifferare al giornalista “amico” il contenuto delle sue indagini. Nel periodo in cui facevo cronaca giudiziaria per l’Avanti! di Milano ho conosciuto molto bene Emilio Alessandrini, che verrà poi assassinato nel 1979 da un commando di Prima Linea. Fra noi si era creato un rapporto amichevole. Durante gli intervalli delle udienze ci fermavamo spesso a parlare in quel bar che sta affianco del Palazzo di giustizia di Milano, e mai Alessandrini mi dette qualche informazione sui processi che seguiva né tantomeno su quelli dei suoi colleghi. Ma Alessandrini apparteneva a una categoria di magistrati scomparsa da tempo, quelli che parlavano solo “per atti e documenti”.

C’è poi il problema degli avvocati difensori che hanno il diritto di avere il contenuto degli atti istruttori. Dipende, ma sarebbe meglio dire dipenderebbe, dalla correttezza di questi avvocati non spifferare il contenuto di questi atti al giornalista “amico”.

C’è poi la questione dell’’avviso di garanzia’. Fu introdotto a metà degli anni Novanta per una lodevole iniziativa della sinistra, cioè il cittadino doveva essere informato che era stata aperta un’indagine su di lui. Ma l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Perché oggi se ricevi un avviso di garanzia sei massacrato dal tritacarne massmediatico. Nel 1993 Claudio Martelli, improvvidamente ministro della Giustizia, fu costretto a dimettersi dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per il crac dell’Ambrosiano.

È chiaro che tutto ciò che sto scrivendo è puramente teorico, anche se una voce in capitolo ho diritto di averla essendomi laureato in Giurisprudenza alla Statale di Milano (110 e lode) con una tesi proprio su “Libertà di stampa e segreto istruttorio”. Ma è lo spappolamento della cultura giuridica italiana a rendere inutili e financo oziose queste mie riflessioni.

È dopo Mani Pulite che si affacciarono due categorie mai previste da alcun codice: i “garantisti” e i “giustizialisti”. Il magistrato non può essere né “garantista” né “giustizialista”: deve solo e semplicemente applicare la legge vigente. Se sbaglia esiste la possibilità di una serie di ricorsi: il Riesame, l’Appello, la Cassazione e adesso anche la Corte europea dei diritti dell’uomo il cui ricorso però è inibito al comune mortale perché estremamente costoso.

La categoria garantisti/giustizialisti riguarda quindi i media. E naturalmente i media stanno dall’una o dall’altra parte a seconda della loro impostazione politica. Sono l’uno o l’altro “a targhe alterne”.

Si possono ovviamente criticare i singoli provvedimenti della Magistratura ma non si può revocare in dubbio la Magistratura in quanto tale, che secondo la classica distinzione di Montesquieu è, insieme al legislativo e all’esecutivo, uno dei tre ordini cardine di uno Stato democratico. O meglio lo si può anche fare ma allora ci si mette sul piano delle Brigate Rosse e di tutti quei movimenti, terroristi ma non sempre terroristi, che contestano lo Stato in quanto tale. Se ci si mette su questa linea allora bisogna coerentemente aprire tutte le carceri perché chiunque può essere stato vittima delle ingiustizie di uno Stato illegale.

C’è poi il nodo essenziale della Giustizia italiana. La “terzietà” dei giudici, la composizione del Csm, la divisione dei magistrati in correnti sono problemi anch’essi ma di minor peso. Il nodo essenziale è la lunghezza abnorme delle nostre procedure che si porta dietro il problema della carcerazione preventiva e della libertà di stampa. Io posso ben chiedere il silenzio ai giornali per un periodo limitato di tempo, ma se questo silenzio si deve protrarre per anni significa puramente e semplicemente mettere la mordacchia all’informazione.

Ma ancora più grave in quest’ottica è il dramma della carcerazione preventiva. Se, come avviene in Gran Bretagna, con un imputato detenuto le istruttorie sono brevi, rinunciando magari a individuare il colpevole, per l’imputato innocente, che sarà poi assolto nel processo, è un brutto incidente di percorso, attenuato dal fatto che poi la proclamazione della sua innocenza gli restituirà la reputazione. Ma se la carcerazione preventiva dura anni, come è avvenuto per Pietro Valpreda, in galera per quattro anni senza processo, o per Giuliano Naria, supposto terrorista che ha scontato nove anni di reclusione preventiva per poi essere assolto, è la distruzione di una vita, o per tanti altri casi ‘minori’, chiamiamoli così, di persone che non avevano l’impatto mediatico di un Valpreda o di un Naria, di cui nessuno si è mai occupato tranne, oso dirlo, chi scrive.

Faccio infine notare che gli ipergarantisti di oggi sono ideologicamente gli eredi degli iperforcaioli di ieri, che non spesero una riga per le ingiuste carcerazioni né di Valpreda né di Naria né di altri stracci.

“La legge è uguale per tutti” è scritto con solennità nelle aule dei Tribunali. Ma noi viviamo nella fattoria degli animali di Orwell dove “tutti gli animali sono uguali, ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”.

Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2024