Confessandosi nel podcast di Diletta Leotta, Giorgia Meloni ha detto un paio di cose importanti non per la politica, che dovrebbe essere semplicemente una buona amministrazione della cosa pubblica e invece da noi è diventata un guazzabuglio indigeribile, ma per la vita. Ha detto Giorgia: “Diventare madre mi ha cambiato moltissimo, mi ha assolutamente migliorato. Ti sistema tutto, ti stabilizza, rimette le cose nelle giuste proporzioni, ti aiuta ad avere consapevolezza e coraggio”. La maternità ti costringe a incontrarti e scontrarti col principio di realtà. Una donna senza figli resta inevitabilmente figlia. E quindi per lei la morte della madre è una perdita senza risoluzione, senza riscatto, non riesce a “elaborare il lutto”. È vero che la morte di una madre, molto più di quella del padre, è una tragedia perché ci rendiamo conto che gli ultimi ormeggi che ci tenevano attaccati alla riva da cui siamo partiti sono stati tagliati. Però è una conseguenza inevitabile, guai se accadesse il contrario. Ho avuto una fidanzata che ha perso la madre a 89 anni, ma non riusciva e, per quello che ne so io, non è riuscita a farsene una ragione. Negli ultimi anni, alla faccia di chi mi dà del finocchio, sono stato, per capriccio di lei o per quel pizzico di notorietà che ho o, chissà, per un fascino che in gioventù ho avuto e che ancora resiste, con sei o sette donne d’una età compresa tra i quaranta e la metà dei cinquanta (è inutile che ci raccontiamo balle, la bellezza e la giovinezza di lei sono indispensabili per un rapporto sessuale, almeno questo per un uomo, le donne sono più generose), una sola di queste, 43 anni, aveva un figlio avuto all’età di trent’anni e la differenza con le altre era palpabile.
Qualche giorno fa ho riascoltato un’intervista che ho fatto nel 1976 con la splendida Sylva Koscina (ogni tanto questo mestiere ha anche degli aspetti piacevoli). Avevo trentatré anni, lei quaranta, ed era sempre bellissima. Ma aveva due problemi, uno legato all’altro. Lavorando come una pazza (“Per me è già moltissimo guadagnare cinque minuti di sonno”) perché era una miniera d’oro e il marito, Alberto Castelli, la utilizzava in questo senso, non aveva avuto certamente il tempo di rimanere incinta per nove mesi. Croata, nata nel 1933, bella come solo le donne dei Balcani sono, aveva attraversato le guerre, era rimasta sepolta tre volte dalle macerie dei bombardamenti e fiera, orgogliosa, irregolare, si era fatta una scorza dura. Pareva la donna “bella e impossibile” di tante canzoni. Ma adesso, nel giorno in cui la stavo intervistando, svaniti gli splendori di un tempo, dove si era data a spese pazze senza peraltro rinunciare a fare, per amore del suo uomo, la donna di cucina, si trovava, nello spietato mondo del cinema, sola, senza quattrini, senza amici, senza figli. Che cosa le rimaneva? Mi raccontò che quando era caduta in disgrazia ricevette un solo telegramma, quello di Giuseppe Berto. La bellezza, in realtà, era stata per lei un handicap.
Giorgia Meloni in quell’intervista lamenta anche di aver avuto sua figlia Ginevra, che oggi ha dieci anni, a 39 anni, cioè troppo tardi per avere un secondo figlio. E anche qui ha ragione. Il problema del figlio unico è, tautologicamente, di essere un figlio unico, e quindi su di lui si riversano tutte le attenzioni dei genitori. Se guardate bene le storie di famiglie che hanno avuto figli importanti, il più riuscito non è il primo ma il secondo o il terzo. Perché sono stati più liberi dall’attenzione ossessiva dei genitori.
Dai lettori del Fatto mi è stata a volte rimproverata la mia evidente simpatia per Giorgia Meloni. L’ho incontrata, mi pare, nel 1999 a un non so quale talk, mi piacque, lei era davvero giovanissima, io un po’ meno. Mi piacque perché mi parve animata da un’autentica passione politica. Devo dire, preliminarmente, che io ammiro le persone che fanno con coscienza il loro mestiere, consapevoli dei doveri che esso comporta, dall’artigiano a Elisabetta II d’Inghilterra. Ciò non significa che approvi tutto ciò che ha fatto la Gran Bretagna, non solo durante il regno di Elisabetta ma nei secoli che l’hanno preceduta. Così, per me, è con Giorgia Meloni. Mi piace la persona, non la sua politica. A distanziarmene basterebbe il suo ultra-atlantismo e, ancor peggio, la politica del suo cosiddetto Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che, pur affermando fariseicamente di rispettare la Magistratura, sta facendo di tutto per impedire l’esercizio delle sue legittime funzioni.
Mi piace Meloni per la sua coerenza. Era di destra in anni in cui era molto difficile esserlo, ed è rimasta di destra. Mi piace perché si spende moltissimo sacrificando la sua vita privata (nei colloqui che abbiamo avuto la sua quasi disperazione era di non poter seguire la figlia, costantemente attaccata al tablet, problema di tutti i genitori oggi). Mi piace per il suo modo di parlare franco, comprensibile a tutti, che le deriva proprio da quell’origine popolana che oggi le viene rimproverata. Mi piace perché, pur avendo raggiunto l’apice del potere, non si è troppo insuperbita, non ha dimenticato i vecchi amici. È come la compagna di classe che ha fatto fortuna. Certo non ha l’intelligenza, la conoscenza della macchina dello Stato e della Pubblica Amministrazione, né ha il respiro storico, nazionale e internazionale, d’un Giulio Andreotti. Ma questo è un fatto che non riguarda la sola Giorgia, ma tutta la dirigenza politica italiana di oggi.
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2024