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Dopo il bagno di sangue del lockdown il Teatro sembra in leggera ripresa, se prima del Covid gli spettatori erano 15 milioni e durante il Covid 4,2 milioni ora sono arrivati a 4,9 milioni (dati Siae, 2022). Ciò non toglie che il Teatro sia in crisi almeno da quando fu sostituito nell’intrattenimento dalla televisione. Inoltre lo stanziamento del Mic, Ministero della Cultura, attraverso il Fondo unico per lo spettacolo è veramente di poca cosa (420 milioni circa) e comprende spettacoli di ogni genere: cinema, concerti, teatro di prosa e teatro lirico oltre al cosiddetto “teatro viandante” cioè le vecchie e care “compagnie di giro” che si esibivano soprattutto nei piccoli centri dove i giovani attori facevano gavetta e gli anziani che non avevano avuto successo potevano guadagnarsi la pagnotta.

Oltre la concorrenza devastante della televisione il Teatro è in crisi anche per altri motivi. Mancano i testi. Nel suo ottimismo Pamela Villoresi, forse la più nota certamente la più brava delle attrici del nostro Teatro, mi portò a vedere tre spettacoli al Piccolo. Uno era di un autore tedesco e non si capiva niente, non per la lingua perché gli attori recitavano ovviamente in italiano ma perché la trama era inconsistente, altri erano rimasugli del Piccolo anche perché Strehler, come tutte le primedonne, non ha allevato allievi all’altezza. Forse a far davvero Teatro sono oggi alcuni cantautori come Guccini con Don Chisciotte o De André con il Re fa rullare i tamburi.

E quindi ci si rifugia nel repertorio di sempre, la tragedia greca particolarmente suggestiva quando è rappresentata nei teatri greci di Sicilia, Siracusa, Taormina, Tindari (attualmente, non a caso, chiuso al pubblico) o nelle commedie di Goldoni o nelle commedie, o piuttosto tragedie, di Shakespeare (Be or not to be, that is the question).

Io rimango comunque fiducioso nel futuro del Teatro. Dalle origini il Teatro è stata la più importante cinghia di trasmissione della cultura che univa ricchi e poveri, aristocratici e gente comune. La sola differenza è che i primi andavano in platea, i più importanti proprio sotto il palco, i secondi in loggione.

In tv lo spettacolo è seriale si rivolge allo stesso pubblico generalista, inoltre se parliamo dell’oggi il prodotto fa venire il latte alle ginocchia. Diverso il discorso per la tv di Ettore Bernabei, democristiano, che nel periodo della sua Direzione si permise di dare un’infinità di spettacoli teatrali, di concerti di musica classica e sinfonica e la sera proponeva miniserie italiane ma anche estere come Il mulino del Po di Bacchelli e i Demoni con la formidabile interpretazione di Luigi Vannucchi nella parte del principe Stavrogin. Osò anche dare, in prima serata, il Settimo sigillo di Bergman che la mia segretaria alla Pirelli interpretò come un “noir”, ci stava.  Ma quelli erano altri tempi, i tempi di Bernabei appunto e, sul piano più politico ma anche culturale, di Giulio Andreotti che nel dopoguerra riuscì, con la sua strepitosa capacità di dribbling, alla Messi, a far passare il cinema del neorealismo dove i registi, da Visconti a Rosi, erano tutti comunisti.

A teatro lo spettacolo è sempre diverso perché diverso è il pubblico. Il pubblico della prima di Bologna non è quello della seconda né della pur vicinissima Modena per non parlare del pubblico glaciale di Torino. A Torino, al Colosseo, col mio Cyrano, avemmo un’esperienza esaltante. Durante il primo atto il pubblico si era dimostrato molto freddo. I ragazzi nell’intervallo sacramentavano, ma poi riuscimmo a scaldare anche quel pubblico.

Anche la compagnia non è sempre nella stessa forma. Gli attori sono dei fachiri, recitano in qualsiasi condizione fisica. Mi ricordo di Pamela Villoresi che, ospite a casa mia, al mattino non aveva la voce e la sera doveva recitare un monologo. Ma, con opportuni accorgimenti, aerosol soprattutto, quando fu il momento del dunque passò superbamente la prova. Recitano anche quando hanno la febbre a 39. E’ capitato anche a me al Celebrazioni di Bologna. Ero febbricitante e nei camerini c’erano spifferi tremendi. Benché del tutto novizio di quel mestiere quando salii in palcoscenico (che, come ho già scritto, con la sua superficie in legno ti dà di per se stesso energia) riuscii a cavarmela bene. In un’altra occasione, sempre nel Cyrano, si ruppe una lampada e le schegge di vetro volarono dappertutto. Nell’intervallo il Direttore di scena mi avvertì: “guarda ho cercato di spazzare tutto il possibile, ma qualche scheggia è sicuramente rimasta”. E infatti l’atto successivo io misi puntualmente il piede su una di queste schegge, ma portai a termine la recita come se nulla fosse. Allora mi dissi che ero diventato un vero attore. Anche se un attore non sono mai stato, sono poco duttile, e non per nulla nel Cyrano che era una sorta di sintesi del cosiddetto “Fini pensiero” io recitavo me stesso.

Ma le cose più divertenti a teatro il pubblico non le può vedere perché fanno parte del backstage, dietro le quinte. Le ragazze fino a dieci minuti prima dell’alzarsi del sipario pareva che se ne infischiassero. Poi erano crisi di nervi, crisi di pianto, “devo fare la cacca” e cose del genere. Noi avevamo due soli attori professionisti, molto bravi, Ettore Distasio, che sarebbe andato benissimo per il teatro francese e Matteo Reza Azchirvani, di origine iraniana, utilissimo in uno sketch dove doveva fingere di farsi saltare in aria come un Isis. Dietro le quinte Distaso e Azvhirvani tramavano contro il regista ritenendolo sempre colpevole di qualche nefandezza ai loro danni. Azchirvani era insopportabile, riusciva a porre dei problemi cinque minuti prima che si alzasse il sipario. Mi ricordo che una volta il regista, Eduardo Fiorillo, un omone di novanta chili, tutto muscoli e nervi, per un pelo non lo accoppa sul posto.

Oggi, anche se me lo proponessero, non potrei più fare teatro (allora avevo sessant’anni): mi mancano le energie, anche se i veri attori come Giorgio Albertazzi, morto a 92 anni o Vittorio Gassman han recitato sino alla fine della loro vita. Ma qui parliamo di un’altra categoria. Dico i grandi attori di cinema ma anche di teatro a cui è d’obbligo aggiungere Ugo Tognazzi e, su un piano minore, Nino Manfredi. Oggi quei grandi attori, che han fatto la storia del teatro del cinema e, in sintesi, anche della cultura italiana del dopoguerra, non ci sono più mentre i giovani preferiscono al teatro il cinema molto più remunerativo.

Ma oltrepassiamo le Alpi e andiamo in Francia, dove, tra le altre cose, il Teatro è molto più finanziato che da noi. Laurent Terzieff, grande attore di cinema (Peccatori in blue-jeans, kapò, Il deserto dei tartari) preferì dedicare gli ultimi anni della sua vita esclusivamente al teatro. Ho visto a Parigi, in Rue d’Odessa, a l’ex Colombier una sua memorabile prestazione in Caligula dove interpreta la parte dell’Imperatore ritenuto pazzo, ma che pazzo non era affatto così come non era pazzo Nerone dannato “in seacula seaculorem”. Per non parlare di Sir Laurence Olivier (fu nominato ‘Baronetto’ dalla regina Elisabetta) il maestro di tutti gli altri che si esibì esclusivamente a Teatro.

A me resta la speranza, se la nobile signora non cala prima la sua falce, di vedere un’opera teatrale degna d’esser tale. “En attendant Godot”.

 

1° Novembre 2024, il Fatto Quotidiano