L’importanza di chiamarsi Ernesto, Oscar Wilde
Mentre si stanno riabilitando, anzi si elevano loro dei peana, un paio di delinquenti, pluricondannati con sentenza definitiva, intendo Berlusconi e Craxi, cui si dedicano aeroporti, piazze, vie (fino a Previti non ci si è arrivati perché è impresentabile agli occhi degli stessi berluscones tanto che non era presente ai funerali del “lìder maximo”) io voglio parlare qui di un uomo onesto, semplicemente onesto, materialmente e, cosa quasi più importante, intellettualmente che attualmente vive a Montenero di Bisaccia ed è agricoltore. Il suo nome è Antonio, il cognome fa Di Pietro.
Ad Antonio Di Pietro è stato rimproverato di essersi messo in politica nel 1996 creando poi un partito, Italia dei Valori, cioè a due anni di distanza dalle sue famose dimissioni da magistrato. Al momento delle dimissioni di Di Pietro dalla Magistratura Silvio Berlusconi si comportò con lui come si è sempre comportato con tutti: cercò di comprarlo offrendogli il ministero degli Interni. Di Pietro rifiutò affermando che non era corretto occupare quella posizione che gli veniva proposta da un uomo politico che era sotto inchiesta dal 1983. Dopo quel rifiuto Antonio Di Pietro divenne per Berlusconi, che si è sempre vantato di non aver mai insultato nessuno, “un uomo che mi fa orrore” espressione che ho sentito ripetere a un convegno da quell’altra anima candida di Claudio Martelli, che ‘patteggiò’ il suo coinvolgimento nel processo Enimont per 500 milioni, una cifra che forse io non ho guadagnato in tutta la mia vita. In quel processo, incalzato da Di Pietro, Martelli guardava il Pm con occhi gelidi, da assassino, se avesse potuto farlo fuori non ci avrebbe pensato un istante. Io guardavo e inorridivo. Di Claudio ero stato compagno di banco in uno dei migliori licei di Milano, il Carducci. Eravamo stati educati per diventare classe dirigente e adesso si finiva così, incastrati come ladri di polli o meglio di un pollaio molto consistente, perché, ripeto, 500 milioni non si pagano per nulla. Quei milioni avevano consentito a Martelli, protetto da quel Bettino Craxi che poi sarà il primo a tradire (“restituiremo l’onore al Partito Socialista”), di pagarsi una villa sulla via Appia, chiamata “l’Appia dei popoli” e per organizzare feste e festini non però di tipo berlusconiano perché a Martelli, bisogna dargliene atto, non è mai piaciuto conquistare le donne con la forza del denaro. Era un bel ragazzo, aveva fascino fin dai tempi della scuola e lo usava per sedurre. Del resto ancora oggi, a 81 anni, nonostante alcuni cedimenti fisici, resta un uomo affascinante tanto che ha sposato di recente Lia Quartapelle, di quarant’anni più giovane, una parlamentare del Pd non ottusamente aggressiva come in genere quelli del Pd, ma ragionante, che qualche cosa, in politica, deve averlo imparato proprio da Martelli.
Ma torniamo a Di Pietro. Gli è stato rimproverato, come detto, di essere entrato in politica, peraltro due anni dopo le sue dimissioni da magistrato. Io sono invece di parere assolutamente contrario: doveva presentarsi subito dopo le sue dimissioni. Avrebbe preso il novanta per cento dei voti in ragione della sua enorme popolarità, quando anche gli editorialisti dei giornali borghesi, come il Corriere, lo chiamavano “Tonino” (“Dieci domande a Tonino”, editoriale del Corriere della Sera, Paolo Mieli) come se ci avessero mangiato insieme a Montenero di Bisaccia. Io che a “Tonino” avevo sempre dato del lei, e avevo anche cercato di non citarlo nei miei articoli, insieme agli altri magistrati di Mani Pulite (Francesco Saverio Borrelli, il capo del pool, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Gerardo D’Ambrosio) rendendomi conto del pericolo di personalizzare le inchieste, gli chiesi: “Perché non è entrato in politica subito dopo le sue dimissioni da magistrato?”. Rispose: “Perché non sarebbe stato corretto approfittare della mia popolarità acquisita come magistrato”. Vero, risposi, anticipando però un concetto che avrei espresso al Palavobis nel 2002, “non si può combattere con una mano dietro la schiena con chi le usa tutte e due e, all’occorrenza, anche il randello”, richiamandomi a Sandro Pertini, aggiunsi “a brigante, brigante e mezzo”, una frase per cui il ministro della Giustizia di allora, Roberto Castelli, leghista, ospite di Bruno Vespa, chiese il mio arresto. Ma siccome non è compito del ministro della Giustizia operare arresti (forse con Nordio ci si arriverà) la cosa cadde nel nulla.
Di Pietro è stato sempre il più attaccato dei magistrati di Mani Pulite, perché era il più esposto, dato che Borrelli aveva avuto l’intuizione di dare a lui il ruolo di Pm in aula perché col suo contadinesco “che c’azzecca?” smontava le solfe senza senso da azzeccagarbugli dei politici colti con le mani nel sacco.
Se Di Pietro fosse diventato un uomo politico al momento giusto, almeno quello che io ritengo giusto, dopo le dimissioni da magistrato, sarebbe stato molto più difficile per Berlusconi sottrargli i parlamentari che avevano aderito al suo partito, caso del senatore De Gregorio, pagato tre milioni perché lasciasse l’Italia dei Valori in favore dei partiti del centrodestra.
Antonio Di Pietro ha avuto sette processi innescati dai berluscones. In tutti è uscito assolto. In uno fu accertato che Silvio Berlusconi, l’uomo “buono e generoso”, aveva pagato due testimoni perché infamassero Di Pietro. I testimoni patteggiarono per falso, ma Berlusconi, il mandante, riuscì ugualmente a cavarsela, come sempre.
In fondo cosa chiedevano, secondo legge, i magistrati di Mani Pulite? Una cosa molto semplice: che anche i rappresentanti della classe dirigente, politici e imprenditori, rispettassero quelle leggi che tutti noi, comuni mortali, abbiamo l’obbligo di osservare. Se poi altre Procure come quella di Venezia, diretta da Carlo Nordio, sono state più neghittose o incapaci, non è colpa certamente dei magistrati del pool di Milano.
Mani Pulite avrebbe potuto essere il crinale della storia recente del nostro Paese. Invece oggi assistiamo a una battaglia senza quartiere fra politica e Magistratura, la quale a sua volta ha le sue colpe perché nella corruzione generale del Paese si è guastata anch’essa (caso Palamara) e Carlo Nordio è diventato ministro della Giustizia mentre Daniela Santanchè, sotto inchiesta per vari reati fra cui una truffa ai danni di uno Stato che non esiste più, resta allegramente al suo posto.
Ps. Di Pietro, coerentemente con la sua idea di imparzialità della Magistratura, non ha mai aderito a nessuna corrente che è una delle tabe, insieme alla lentezza, della giustizia italiana.
15 febbraio 2025, il Fatto Quotidiano