Metti due navigati “zingari” del giornalismo, con carriere professionali di successo, con posizioni divergenti su molti dei terreni di confronto, però accomunati da una sfrenata, sensuale, passione per il calcio, e lasciali parlare o scrivere a ruota libera. Sarà uno spasso. “Storia reazionaria del calcio” (Marsilio editore) è un grande amarcord di due innamorati delusi.
Massino Fini, giornalista e scrittore sopraffino, per anni anche opinionista del Gazzettino, eternamente controcorrente nella vita, mai banale, sempre dalla parte dei più deboli («Io sto con l’evaso, non con la guardia che lo insegue»). Nel suo curriculum sportivo c’è anche un passato da calciatore in squadre dilettanti e un incontro di gioventù su un campetto dei salesiani a Milano con Silvio Berlusconi, più grande di lui di qualche anno: «In piccolo era come adesso: non passava mia la palla e voleva sempre segnare». Ma più che giocatore è stato grande tifoso. Sempre per il Torino, l’emblema del calcio proletario, segnato dalle tragedie, in antitesi alla ricca Juventus degli Agnelli. Ora Fini annuncia di essere pronto all’atto estremo dell’innamorato, l’addio per amore. «Dopo settant’anni di onorata carriera di tifoso del Torino, dico basta». Ma è un addio assoluto al calcio: «Poiché non potrò tenere per un’altra squadra che non sia il Toro, lascio anche il calcio, che non mi piace più. Così lontano da quello della mia giovinezza».
Anche Giancarlo Padovan, già grande firma del sportiva di Repubblica, Corriere e direttore di Tuttosport, si è dato anima e corpo alla passione calcistica con scelte audaci per un giornalista di successo: ha preso il patentino di allenatore e, durante gli anni di direzione del quotidiano sportivo, sedeva anche sulla panchina del Torino femminile. Un doppio ruolo che lo ha esposto a critiche, ma che gli ha consentito di conoscere il mondo del calcio in maniera totale. Al punto, come scrive nel libro, da andare a convivere con una sua ex giocatrice con cui recentemente ha avuto una figlia.
Il calcio che raccontano Fini e Padovan è quello impresso nel ricordo di chi i trent’anni non li aspetta. Un mondo in bianco e nero con dei rituali sacri: l’iniziazione con le figurine Panini, i primi calci in patronato, la schedina del Totocalcio, l’ascolto alla radio di “Tutto il calcio minuto per minuto” con i collegamenti dai campi e le voci di Sandro Ciotti ed Enrico Ameri, le serate davanti alla Tv per vedere un tempo di una partita alle 19, prima di cena, e poi la Domenica sportiva. Non c’erano moviole e Var, gli arbitri vestivano di nero e il loro giudizio era inappellabile, i giocatori passavano una vita nella stessa squadra e diventavano bandiere (Mazzola all’Inter, Rivera al Milan, Bulgarelli al Bologna, De Sisti alla Fiorentina, Riva al Cagliari) e le maglie erano facilmente riconoscibili con i colori classici.
Tutta un’altra storia. Anche i tifosi erano diversi. Animati da autentica passione, non dal fanatismo spesso violento che ora caratterizza gli ultrà. E giravano meno soldi. Una provinciale poteva anche vincere lo scudetto. Come è accaduto al Verona di Osvaldo Bagnoli o come stava per accadere al Lanerossi Vicenza di Gb Fabbri e Pablito Rossi. Se il Torino è sempre stata la squadra di Fini, il Vicenza (la prima società con lo sponsor nel nome, Lanerossi) è stata nel cuore di Padovan che abitando a Carmignano sul Brenta, paese padovano, ma molto più vicino a Vicenza, da piccolo andava con il padre al Menti. L’unico stadio di serie A con un palo in mezzo alle tribune davanti alle telecamere Rai, che compariva in tutte le riprese televisive. «Tifare Lanerossi - racconta Padovan - significava tifare per il più debole, vedere quasi sempre gli avversari vincere e subire la sudditanza degli arbitri».
Ma la storia del calcio che non c’è più è anche la metafora di una società che è radicalmente cambiata, ipertecnologica, frenetica, multietnica, costantemente connessa nei social e ricca. Il denaro ha travolto e stravolto anche il calcio, trasformando i giocatori in divi, protagonisti del gossip al pari delle stelle del cinema o dei politici. È crollata ogni barriera, la privacy è solo nominale. In realtà il calcio di oggi è spettacolo e macchina da soldi. Un circo senza bandiere : in molte squadre è difficile trovare un italiano in campo e la formazione è uno scioglilingua fatto di cognomi improponibili. Beati i tempi, dicono Fini e Padovan, in cui il calcio era povero ma bello. E le formazioni erano sempre uguali, con undici titolari e pochissime riserve. Chi ricorda una formazione tipo di oggi? Chi non ricorda Sarti, Burgnich Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi….
Vittorio Pierobon
Ex vicedirettore del Gazzettino