Per molti anni ho atteso spasmodicamente l'estate. Dieci lunghissimi mesi d'attesa. La notte prima della partenza per le vacanze non mi riusciva mai di prendere sonno. Febbricitante di impazienza mi rivoltolavo smanioso nel letto, mi alzavo ad ogni momento, giravo per le stanze buie che odoravano di naftalina e alle quali i divani e le poltrone coperti diligentemente da mia madre con dei grossi teli bianchi (aveva il terrore delle camole) davano un aspetto spettrale. La mattina ero il primo ad alzarmi ed incalzavo mia madre, mia sorella, la domestica. Non riuscivo a contenere la mia impazienza nemmeno durante il breve rito che mia madre, all'uso russo, ci imponeva prima di partire; cinque minuti di raccoglimento, seduti, in assoluto silenzio. Non so cosa pensassero in quei minuti mia madre, mia sorella o mio padre le poche volte che partiva con noi. lo pensavo solo che quel giorno avrei visto il mare. Il viaggio in treno da Milano a Savona (dove la mia famiglia ha trascorso le sue estati per quasi mezzo secolo) durava allora un'eternità. Io lo passavo tutto al finestrino. Ancora oggi non posso sentire il tipico odore della massicciata ferroviaria e delle rotaie arroventate dal sole senza provare un certo turbamento. Quando il treno era nei pressi di Brignole, io e mia sorella facevamo a gara a chi vedeva per primo il mare. Ed in effetti c'era un certo carrugio da cui il mare faceva per un attimo capolino ma poi spariva e non lo si vedeva più per un bel po'. C'era la fermata di Brignole, quella, interminabile, di Genova Principe, col cambio delle locomotive, Sampierdarena, la lunghissima teoria delle acciaierie di Cornigliano e poi, finalmente, appariva il mare in tutta la sua inquietante maestosità, fra i nostri «uh» ed «ah» di stupore e di ammirazione. Cesare Pavese e Paolo Conte hanno detto in modo magistrale che cos'è il mare per chi vive «al di là delle colline», in pianura, o meglio che cos'era in epoche in cui l'automobile non esisteva ancora come mezzo di comunicazione di massa e noi ragazzi, quando andava bene, facevamo un solo viaggio l'anno: quello delle vacanze estive. E per me mare ed estate erano una cosa sola che si chiamava col più proibito dei nomi: felicità. Io, bambino timido, introverso, solitario in città, d'estate, al mare, mi aprivo, riuscivo a sciogliere quel grumo di tristezza e di malinconia che mi opprimeva il petto e mi imprigionava finché restavo fra le brume della pianura padana. È d'estate, al mare, che si sono svolti tutti i miei amori adolescenziali e anche quelli della prima giovinezza. È in riva al mare che ho baciato la mia prima ragazza. È sulla spiaggia che, al riparo di un canneto, sono diventato, sessualmente, un uomo. Da molti anni l' estate è diventata per me un tormento. Già ad aprile, a maggio, comincio a fare degli incubi. Sogno che l' estate è già passata e io non me ne sono accorto, non me la sono goduta. Ed è un sogno-verità. Come un tempo, per dieci lunghissimi mesi aspetto trepidante l'estate come dovesse portarmi chissachè ma quando improvvisamente arriva («Cerco l'estate tutto l'anno e all' improvviso eccola qua», canta Celentano in Azzurro) mi si squaglia fra le dita come una crudele Fata Morgana lasciandomi un profondo senso di disillusione. La ragione la conosco da tempo, è banale: io vado cercando nell'estate, ansiosamente, ossessivamente, stolidamente, ciò che essa non mi può più ridare: la mia giovinezza, le sue notti magiche, le sue «notti blu», che adesso appartengono ad altri. Quest'estate poi, per sfuggire al caldo (ma quando mai da ragazzi ci è fregato qualcosa del caldo?) ho commesso l'errore, fatale, di rimettere piede nei luoghi delle mie estati giovanili. Cammino sul lungomare e vedo i ragazzi e le ragazze che si fanno le lontananze di sempre proprio nei posti dove io giocavo quei giochi. Ma io non c'entro più. Cammino sul lungomare e i ragazzi e le ragazze non mi guardano e se mai i loro occhi, per un momento, mi sfiorano vi scorgo, o almeno credo, il pensiero che avevo io alla loro età quando vedevo un uomo della mia: «Ma come fa quello ad accettare, a tollerare di avere cinquant'anni? lo non lo sopporterei mai. Piuttosto mi uccido. A me non capiterà». Cammino sul lungomare e ogni tanto trasalisco perché mi pare di vedere i volti miracolosamente intatti dei miei amici di un tempo ma subito mi rendo conto che sono i prototipi che si perpetuano di generazione in generazione. E pensare che ognuno di noi si crede «unico». Cammino sul lungomare e certi signori e signore gentili mi riconoscono, mi salutano, mi fanno i complimenti per il mio lavoro. Sono un uomo noto, perbacco. Ma intanto io sbircio due ragazzi che si sono infrattati dietro le cabine. Torna presto pietoso inverno a nasconderci nel tuo ovattato anonimato. Torna presto pietoso inverno a difenderci con i tuoi saggi vestiti dall'esposizione delle nostre membra inflaccidite, di noi che pur, un tempo, fummo levigati e duri. Torna presto amico inverno, tu che ci eviti impietosi confronti e gesti atletici in cui pur un tempo eccellemmo, e magari, in qualche caso, fummo i primi, ma che adesso rivelano solo la nostra ansiosa goffaggine. Torna presto pietoso inverno perché nel tuo ventre buio e alla tua incerta luce si possa nascondere ancora una volta, agli altri, ma soprattutto a noi stessi, che siamo venuti vecchi.