Il 23 maggio, quando gli immani massacri nel Ruanda erano già emersi in tutta la loro spaventosa crudezza e 500mila cadaveri giacevano sul terreno o galleggiavano sul Lago Vittoria, Arrigo Levi ha scritto per il Corriere un angosciato articolo ( «I demoni tra noi» ) in cui cercava di capire come era stato possibile arrivare a tanto e di chi fosse la responsabilità, Ma non riusciva a darsi risposta. Eppure per averla gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio. Non certo nel senso che Levi sia personalmente responsabile di alcunché, ma lo è quel modello occidentale di cui egli è tra i convinti assertori. L'intrusione di questo modello in Africa è infatti all'origine non solo della tragedia ruandese ma della più complessiva tragedia che sta uccidendo il Continente nero. E ciò non tanto perché noi abbiamo fornito a quei popoli armi micidiali (c'è anche questo, naturalmente), ma per motivi più sottili, profondi e devastanti: il modello occidentale, con la sua violenza pervasiva anche quando si afferma in forme pacifiche, ha distrutto gli antichi e collaudati, anche se fragili, equilibri tribali e ha fatto del nero africano un uomo eccentrico rispetto alla propria cultura, uno sradicato, un ibrido che non è più «primitivo» ma non è nemmeno moderno. Un genocidio come quello ruandese o massacri indiscriminati come in Angola o, anche, in Somalia non si erano mai visti in Africa prima che venisse stabilmente in contatto con l'uomo bianco. Gli africani, come tutti i popoli cosiddetti «primitivi», avevano elaborato, nella propria millenaria esperienza, una serie di accorgimenti per ritualizzare, innocuizzare, incanalare e comunque limitare la violenza e abbassarne la soglia entro livelli tollerabili. L 'antropologo Gaston Bouthoul ha raccontato che molte tribù africane avevano escogitato una guerricciola finta, la rotana, per liberare in questo modo la propria aggressività e scongiurare così il più possibile la diembi,la «guerra grande». Ma anche la diembi non era poi gran cosa. Mi ricordo di aver assistito, una ventina di anni fa, a Nairobi, ad un convegno sulla guerra cui partecipavano i rappresentanti di numerose etnie. Questi parlarono della loro storia bellica e ne venne fuori un quadro che non era neanche lontanamente avvicinabile non dico alle devastanti guerre europee del XIX e del XX secolo ma neanche alle guerre di religione del «secolo di ferro» (1550-1650). Ad un certo punto anzi intervenne il re di non so più quale tribù e disse: «Anche da noi, qualche anno fa, c'è stata una guerra, una cosa davvero tremenda, terribile. Ma poi, vicino ad un pozzo, ci scappò il morto e la guerra finì immediatamente». Questa era l'Africa prima dell'incontro con l'Occidente. Del resto il nero è un istintivo, non un violento. È allegro, spiritoso ed ha una indole che lo porta ad accettare le cose. Ne ho avuto un buon riscontro nel mio soggiorno in Sud Africa. Quando ho incontrato neri dei Bantustan o di campagna o abbastanza anziani da conservare il fondo della propria cultura tribale non ho mai avvertito alcuna animosità nei confronti dell'uomo bianco, pur avendone, in quel Paese, mille motivi. Le cose cambiavano radicalmente con quei neri che avevano assimilato la cultura occidentale, che avevano studiato, magari, ad Oxford o a Cambridge. Costoro non avevano più nulla della cordialità, dell'affabilità, della bonomia, dell'allegria del nero. Erano dei perfetti europei. E dall'Europa e dall'Occidente avevano mutuato il virus peggiore: quello del fanatismo ideologico. E infatti, checché se ne pensi, la guerra in Ruanda non è tribale ma è una tipica guerra ideologica e di potere alla maniera occidentale. Ha detto Jean De Bakker, un missionario che vive in Ruanda da 18 anni: “Non sono bestie selvagge né tribù in lotta per la supremazia etnica. E' uno scontro di potere». E lo conferma il fatto che del Fronte patriottico fanno parte tanto tutsi che hutu. Pervasa dal modello occidentale, dal suo pensiero, dalla sua economia, dai suoi oggetti, dalle sue armi, la gente non solo dell' Africa ma di buona parte del Terzo Mondo ha perso la propria identità ed è diventata un ibrido, un mostruoso melange di primitivismo e di modernismo. In un certo senso era molto meglio il colonialismo classico perché mantenendo il distacco dagli indigeni perlomeno consentiva loro di conservare i propri costumi, la propria cultura, la propria anima. Mentre il colonialismo attuale, con la pretesa totalizzante di omologare a sè, ritenendosi «il migliore dei mondi possibili», l'intero esistente e di fare della terra un unico, immenso, mercato, distrugge i popoli con cui viene a contatto, sia in senso economico, perché fingendo di erogar loro risorse in realtà gliele rapina, sia in quello, più profondo, esistenziale, emotivo, psicologico e culturale. Del resto non può essere un caso che l'Africa agli inizi del secolo fosse, dal punto di vista alimentare, autosufficiente, mentre oggi, oltre a conoscere massacri mai visti prima, è ridotta alla fame. Smettiamola di «aiutare» l'Africa. Si aiutava molto meglio da sola.