«Quem Deus perdere vult, dementat prius». colui che Dio vuoI perdere prima lo fa uscire di senno, così dice la sapienza degli antichi. Come se a Botteghe Oscure non ci fossero già abbastanza guai. Cesare Salvi. responsabile per il Pci dei problemi dello Stato e membro della Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna, si è fatto latore di una proposta delirante del tutto degna del suo quasi omonimo, il cantante demenziale Francesco Salvi. Secondo Salvi (Cesare), per aumentare la rappresentanza femminile in Parlamento bisognerebbe, d'ora in poi, dividere le circoscrizioni elettorali non solo per territorio ma per sesso. Inoltre in ogni seggio dovrebbero esserci due urne: una per i votanti maschi, l'altra per le femmine. Come corollario necessario, anche se Salvi (Cesare) su questo punto è stato piuttosto oscuro, ci dovrebbero essere anche due liste, una formata da sole donne, l'altra da soli uomini, altrimenti la proposta perderebbe anche il suo senso demenziale, riducendosi a una sorta di «apartheid» che colpirebbe, Dio sa perché, gli uomini e le donne al momento del voto. È un progetto, quello di Salvi (Cesare), che fa giustizia d' un sol colpo di quattro principi costituzionali. Quello della universalità della rappresentanza, quello della libertà del voto, per cui ciascun elettore, uomo o donna che sia, deve poter scegliere il proprio candidato, uomo o donna che sia, senza condizionamenti di sorta. Quello della segretezza del voto che qui verrebbe invece individuato se non per il singolo per una quota di elettori. Infine questo progetto, nonostante si proponga l'esatto contrario, viola il principio d'uguaglianza favorendo elettoralmente il sesso più numeroso. Ha detto Salvi (Cesare) a difesa della proposta che il suo intendimento «è di tener conto della differenza sessuale anche nella sfera della politica». Forse il parlamentare comunista si è dimenticato che proprio per annullare quella differenza sul piano dei diritti civili, di cui quello elettorale, attivo e passivo, è uno dei più importanti, le forze progressiste hanno compiuto un lungo cammino che, partendo dalla Rivoluzione francese, è sfociato nell'art. 3 della Costituzione che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...». Voler ripristinare quella differenza, sia pure a pro delle donne, è un nonsense storico, giuridico, sociale. In realtà sotto il manto progressista la proposta di Cesare Salvi, come quell'altra di riservare in ogni azienda una quota di posti di lavoro alle donne, partorita anch'essa tempo fa dalla insonne e perniciosa Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna (un'invenzione demagogica del governo Craxi), è intimamente reazionaria, razzista e dovrebbe essere sentita come offensiva proprio e innanzitutto dalle donne. Perché le tratta come delle handicappate, come una razza a sé, come una specie protetta alla stregua delle foche monache. Una donna dovrebbe essere eletta (o assunta) perché ritenuta capace di svolgere bene il lavoro che è chiamata a fare, non per altro, cioè per decreto o in virtù di ambigue corsie preferenziali. Spiace che Cesare Salvi abbia affrontato un argomento del genere come se fosse Francesco Salvi, inserendolo così in un filone comico-demenziale ricco di sviluppi esilaranti (che ne farebbe, per esempio, Cesare-Francesco Salvi dei travestiti? Metterebbe una terza urna? Istituirebbe davanti al seggio un controllo medico per individuare il sesso prevalente?). Perché il problema, seppure così malposto, esiste. È vero che, in Italia, le donne sono scarsamente rappresentate in Parlamento nonostante i partiti facciano ormai a gara per candidarle nel tentativo di ingraziarsi l'elettorato femminile. Secondo l'imperversante paleofemmÌnista Elena Gianini Belotti ciò dipenderebbe «dall'insuperabile disgusto che le donne hanno per questa politica». Tesi anch'essa razzista che tende a presentare le donne come esseri angelicati rispetto agli uomini corrotti, e senza fondamento alcuno. Non risulta da nessuna parte, per esempio, che l'astensionismo femminile sia superiore a quello maschile. La verità è che esiste un pregiudizio sfavorevole alle donne, che le si ritiene inadatte alla politica, pregiudizio della cui idiozia sono buone testimoni Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Indira Gandhi. Ma di questo pregiudizio sono portatrici più le donne che gli uomini. Perché -nonostante tutte le balle femministe sulla «sorellanza»- la realtà è che le donne si fidano poco delle donne, nella vita e quindi anche nella politica. Però questa fiducia non può essere imposta per legge, come pretenderebbe Salvi, costringendo le donne a votare per le donne. È un fatto di costume che può evolvere, se ha da farlo, solo col costume. Secondo Tina Anselmi e Giuliano Amato sarebbero invece le lobbies elettorali a penalizzare le donne (dove per lobbies si devono intendere gli apparati dei partiti). Ma questo non è un problema delle donne, è la questione cardine della democrazia rappresentativa e una delle ragioni principali, se non la principale, che ne mette in dubbio la stessa validità. Nella democrazia rappresentativa infatti il peso del voto del singolo è solo apparente. Per la ragione intuita da Gaetano Mosca già nel 1896 quando gli apparati dei partiti non avevano certamente la consistenza di oggi: «Cento, che agiscano sempre di concerto e d'intesa gli uni con gli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno che non avranno alcun accordo fra loro». Cioè il voto libero, proprio perché libero, si diversifica e si disperde, laddove i veri detentori del potere elettorale, vale a dire gli apparati dei partiti, facendo blocco su questo o quel candidato, hanno un peso decisivo. Il gioco elettorale si riduce quindi ad una gara truccata di cui, a parte qualche marginalità, si sanno in partenza i vincitori. Che poi questi, in un tal sistema, siano uomini o donne cambia poco o nulla.
La settimana scorsa una frangia, probabilmente dissidente, del Flnc, il Fronte di liberazione corso, si è resa responsabile di una serie di attentati che ha siglato con una i grande «R» color ocra (dove «R» non sta per rivoluzione, ma per «rebellion»), ribellione). A Calalonga, pochi chilometri da Bonifacio, un commando ha dato l'assalto al villaggio turistico che un imprenditore romano, Luigi Lancia, sta ultimando in una splendida conca che fronteggia l'isola di Cavallo (quella dei super-vip, nota anche per le criminose imprese di Vittorio Emanuele). I componenti del commando, dopo aver immobilizzato i turisti e gli operai che si trovavano sul luogo, tutti italiani, hanno fatto saltare alcuni bungalow e hanno tentato di incendiare l'albergo. Il giorno dopo gli indipendentisti si sono ripetuti a Balistro prendendo di mira la villa dei Lefevre, importanti banchieri francesi. Poi è stata la volta della villa di Jean-Marie Vernes, «un audace finanziere parigino», come lo definisce il Corriere della Sera, presidente della Beghin Say (Gruppo Ferruzzi), azionista, fra l'altro, della Cinq di Berlusconi. Sul muro di cinta della villa i sabotatori hanno lasciato scritto in lingua corsa: «Fuori la finanza internazionale». Al tritolo gli attentatori hanno preferito una miscela esplosiva di fertilizzanti a simboleggiare, come del resto il color terra della loro «R», il carattere agricolo, contadino della ribellione. Il motivo indipendentista si intreccia infatti con quello ecologista e, in questo senso, gli attentati corsi non sono diversi di quello che, il 10 settembre, ha fatto saltare alcuni tralicci dell'elettrodotto dell'Enel che collega il Piemonte alla centrale nucleare francese Superphenix e che è stato attribuito ai «Figli della Terra». Si tratta di atti di sabotaggio sicuramente riprovevoli, ma io esiterei a definirli sbrigativamente terroristici, li chiamerei piuttosto luddisti. Perche il terrorismo colpisce le persone, il luddismo solo le cose. Nel caso di Calalonga i sabotatori si sono preoccupati, nel modo più scrupoloso, che nulla accadesse ai loro temporanei prigionieri. Nella sua bella cronaca sul Giorno, Wladimiro Greco riporta la testimonianza di una donna, Paola Potenza: «Ci hanno quasi implorato di non uscire dalla casa dove eravamo rinchiusi prima che arrivassero i pompieri. Continuavano a spiegarci che qualche bomba poteva esplodere in ritardo e coinvolgerci nello scoppio». Gli attentatori sono stati definiti «cortesi» e addirittura «premurosi». Quando, all'arrivo del commando, il marito di Paola Potenza si è coraggiosamente scagliato con un attizzatoio contro gli invasori, uno di questi lo ha bloccato: «Fermo, è politica. Non vi faremo niente». E un altro, andandogli incontro con un bicchiere d'acqua, gli ha detto: «Bevi e stai tranquillo, non siamo assassini». Ma poiché la signora Potenza, alla vista delle pistole, rimaneva comprensibilmente agitata, gli eco-indipendentisti le hanno rinfoderate. Non mi pare quindi che sabotatori di questo tipo possano essere definiti “particolarmente odiosi”, come ha fatto qualche esponente dell'intellighenzia di sinistra. Certamente molto meno odiosi di quei terroristi ideologici che per anni hanno insanguinato le strade d'Italia, prendendosela per lo più con povera gente, che non aveva, oltretutto, almeno fino al delitto Moro, alcuna valenza simbolica, spesso sequestrando, torturando e umiliando ferocemente le loro vittime e contro i quali l'intellighenzia di sinistra non ha mai speso, in tempo utile, una parola. A me pare piuttosto che questi sabotaggi siano il segnale d'una profonda e rabbiosa impotenza. Nel caso dell'elettrodotto dell'Enel l'impotenza di chi vede il sistema industriale proseguire imperterrito la propria strada senza minimamente tener conto dei suoi drammatici costi umani. Nel caso dei corsi, di chi vede distruggere il proprio habitat a tutto vantaggio di altri. La Corsica è infatti ancora uno dei luoghi più belli e vivibili del Mediterraneo. E lo è grazie ai corsi che hanno sempre difeso con orgoglio e cocciutaggine la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria terra, le proprie coste. Ma adesso si sentono sempre più accerchiati e soverchiati dal capitale internazionale, soprattutto francese e italiano, parte del quale, a loro dire, è d'origine mafiosa e contro cui nulla possono legalmente. Di qui le bombe. Proprio la vicenda corsa è significativa nella validità di quel vasto movimento localista e autonomista che ormai percorre per ogni dove il mondo industrializzato e di cui le tanto vituperate Leghe sono l'espressione italiana. È chiaro infatti che in uno Stato nazionale, basato economicamente sulla libera impresa e sul libero mercato, un'etnia, un popolo, una terra, una regione non ha alcuna possibilità legale di difendersi dall'invasione di capitali estranei anche quando perseguono linee di sviluppo che contrastano con i reali e più profondi interessi di coloro che vivono in loco. Ai primi vanno i profitti, ai secondi, dopo qualche euforia iniziale, rimane la rovina di un luogo che un tempo fu bello. abitabile, godibile, vivibile. Per tornare in Italia la Liguria è il classico esempio di una regione le cui coste sono state letteralmente assassinate per il piacere e gli interessi, soprattutto dei torinesi e dei milanesi. Una regione autonoma o federata o addirittura indipendente potrebbe invece proteggersi meglio. E, in ogni caso, se facesse scelte sbagliate non avrebbe che da incolpare se stessa. «Autonomia significa sviluppo secondo le nostre tradizioni e i nostri interessi», hanno detto i sabotatori di Calalonga. Non mi pare un'affermazione delirante e sarebbe forse bene che gli Stati nazionali, in Francia come in Italia come altrove, ascoltassero con meno sprezzo le ragioni di questi «terroristi gentili» prima che diventino, per esasperazione, dei terroristi veri.
La paura della Germania riunificata è tale da suscitare in Europa degli autentici deliri. Non c'è solo Nicholas Ridley, ministro inglese dell'industria (ora ex) che paragona Kohl a Hitler. Non c'è solo il rabbino capo di Londra che dichiara che «il demone antisemita è in agguato», non c'è solo Mitterand che ha ballato anche sui tavoli per indurre l'Unione Sovietica a frenare la riunificazione, c' è anche, più modestamente, Giorgio Bocca, al solito così lucido, che si abbandona a dichiarazioni di questo genere: «Ci sono rivelazioni collettive che lasciano stupefatti e intimoriti: questi tedeschi erano tutti d'accordo da tempo a riunificarsi, avevano preparato in segreto, premeditato, progettato nei particolari la riunificazione cogliendoci tutti di sorpresa, facendoci trovare di fronte al fatto compiuto, molto diverso dalla ricostituzione della Wehrmacht e della occupazione della Renania, ma di metodo simile» (Espresso 29/7/90). Ma come? Una nazione unita per etnia, lingua, cultura viene, cosa che non si era mai vista nella storia, spaccata in due secondo confini segnati dal punto in cui sono arrivate le truppe dei vari vincitori, la sua capitale divisa in quattro, il fratello separato dal fratello, il padre dal figlio, e c'è bisogno di pensare, come fa Bocca, a una sorta di complotto per capire la naturalissima voglia dei tedeschi di tornare insieme? Se Bocca fosse stato in Germania qualche anno fa vi avrebbe visto quello che ho visto io: oneste famiglie tedesche, di Hannover, di Gottingen, di Warzburg, che la domenica mattina prendevano la macchina, ci caricavano sopra i bambini e si recavano in certi luoghi di confine dove, mute, chiuse nell'auto, restavano tutta la giornata a osservare, di là, la patria perduta. Non c'è quindi bisogno di ricorrere a nessun «fuhrer-prinzip», alla disumana vocazione germanica a marciare all'unisono (è ancora un concetto di Bocca) per comprendere perché, una volta rotto l'argine sovietico, le due Germanie si sono saldate così rapidamente. La stessa cosa l'avrebbero fatta i francesi, gli inglesi e persino gli italiani se si fossero trovati in quella situazione. Questi sproloqui sulla riunificazione tedesca sono dettati dalla paura. Comprensibile, in parte, per quelle generazioni che ebbero a vivere l'epoca del nazismo trionfante. Ma è anche una paura giustificata? Forse sì, ma solo se ci si mette in un'ottica molto miope. È chiaro infatti che la Germania unita si appresta a riprendere in Europa quel ruolo dominante che, per posizione geografica, per storia, per cultura, le compete e che solo l'avventurismo di Hitler le aveva impedito di interpretare.Quello che non ha ottenuto con la forza militare la Germania lo conquista oggi con quella economica. Ed è probabile che assisteremo nel prossimo futuro a una sorta di colonizzazione tedesca dell'Europa. Ma non si vede perché mai dovremmo negare ai tedeschi quello che abbiamo concesso agli Stati Uniti che da quarantacinque anni colonizzano economicamente, quindi anche culturalmente, l'Europa occidentale. Se è destino che siano le leggi economiche a determinare I rapporti di forza fra le nazioni, queste leggi non possono essere ritenute valide per alcuni e non per altri. Non è colpa dei tedeschi se producono di più, se risparmiano di più, se lavorano meglio, se sono più ordinati e disciplinati. Ancor più inconsistente appare il timore che ci possa essere un risveglio delle ambizioni militari tedesche e dell'antisemitismo di marca Deutschland. La Germania è l'unica grande potenza a non avere la bomba atomica (mentre ce l'hanno, per esempio, Israele, il Sud Africa e perfino la Libia). In , quanto all'antisemitismo, sarebbe anche l'ora di finirla di ridurre strumentalmente l'intera storia tedesca ai tredici anni della follia hitleriana. La Germania, se permettete, è anche altro. Tedesco è l'intero pensiero filosofico europeo degli ultimi due secoli: da Kant ad Hegel, da Fichte a Schelling, da Feuerbach a Marx, da Nietzsche a Weber, da Husserl a Scheler, da Heidegger a Horkheimer, da Adorno a Marcuse. Anche una grande cultura come quella francese è stata, in questi due secoli, in qualche misura subalterna a quella tedesca sua tributaria. Tedesco è parte determinante del pensiero scientifico europeo del Novecento a cominciare da Einstein. Tedesca, anche se non solo tedesca, è la grande musica. Basterebbe da sola la Nona di Beethoven, di cui anche un anarchico come Bakunin ebbe a dire: «Tutto morirà, nulla sopravvivrà: una cosa sola rimarrà eterna, la Nona sinfonia». Ma, oltre all'immenso Beethoven, ci sono stati Bach, Handel, Haydn, Schubert, Mendelssohn, Schumann, Wagner, Strauss, Brahms, Mahler per finire con Hartmann e Stockausen. In una visione meno gretta, quindi, il ritorno a pieno titolo della Germania sulla scena europea e in posizione di leadership significa il ritorno dell'Europa sulla scena del mondo, finalmente affrancata da Yalta e libera dallo stritolante abbraccio del biimperialismo russo-americano. Perchè non è vero che, come scrive Claudio Magris, «è l'unità europea che, sola, può risolvere il problema tedesco», Ma il contrario: è l'unità tedesca che, sola, può risolvere il problema europeo.
Gorbaciov ha gettato la maschera. Il «despota illuminato», come piace chiamarlo ai suoi numerosissimi reggicoda occidentali, dopo aver proclamato ai quattro venti di aver seppellito la «dottrina Breznev», l'ha prontamente riesumata non appena è tornata buona. Di suo, Gorby, ci ha messo un tocco di ipocrisia in più. ,È un mese che sta gridando che non userà la forza in Lituania mentre di fatto l'ha già occupata. Ma i carri armati e i reparti speciali di paracadutisti non «occupano» bensì «prevengono» eventuali disordini; i «consiglieri», che si sono impadroniti dei gangli vitali del paese, sono lì per «aiutare»; gli «esperti» che hanno esautorato le autorità lituane hanno il compito di «affiancarle». Tanta amorosa sollecitudine non può far dimenticare a nessuno che non sempre c'è bisogno di spargere il sangue per soffocare la libertà di un paese. Nel '68, in Cecoslovacchia, i sovietici non fecero, direttamente, un solo morto, bastò la presenza dei carri armati per spazzar via la «primavera di Praga». Che differenza c'è con quanto sta accadendo oggi in Lituania? Naturalmente il «despota illuminato» mischia, in un sapiente cocktail, affermazioni ipocrite a collaudati metodi stalinisti. Coloro che, a suo dire «alimentano conflitti interetnici» (cioè l'intero popolo lituano) sono tacciati di essere dei criminali. La Lituania se vuole andarsene deve pagare i danni all'Urss (ed è la prima volta, come notava sul Giorno Romanello Cantini, che si pretende che sia la colonia a pagare i danni al colonizzatore). Qualunque passo a favore della Lituania sarà considerato «un'inammissibile ingerenza negli affari interni dell'Unione Sovietica», formula sinistra che abbiamo sentito risuonare tante volte in questo dopoguerra, con Stalin, con Kruscev, con Breznev. Infine, il «despota illuminato» lancia un appello, perché non sia messa in pericolo «la stabilità del mondo», che formalmente è rivolto ai 121 deputati del Parlamento di Vilnius, ma che sostanzialmente è un pesante avvertimento ai paesi occidentali. I quali, peraltro, non ne hanno alcun bisogno. In questa vicenda il cosiddetto Occidente sta esprimendo tutto il suo ributtante cinismo, Stati Uniti in testa (del resto si sapeva benissimo che nel tanto osannato «vertice in mare», durante il quale la stampa internazionale si occupò soprattutto delle toilette di Raissa Gorbaciova, Bush aveva promesso al suo compare di lasciargli mano libera nei paesi baltici).Alle ragioni di un piccolo, coraggioso popolo, la cui annessione all'Urss deriva solo dall'infame patto fra Hitler e Stalin la cui restaurata indipendenza è stata sancita dal libero voto di un Parlamento liberamente eletto, europei ed americani dimostrano di preferire in gran lunga la forza del colosso sovietico. Ai diritti degli aggrediti le prepotenze degli aggressori. In tutto il mondo occidentale si leva un solo grido: bisogna salvare Gorbaciov! E perché mai dovremmo salvarlo? Perchè ha concesso una libertà limitata e vigilata ai paesi dell'Est? Forse bisognerebbe ricordare a qualcuno che Gorbaciov non è Babbo Natale, che l'Urss, a causa del collasso economico, non era più in grado di mantenere su questi paesi il controllo militare e ha preferito mutarlo in una meno dispendiosa egemonia politica (e infatti tutti i nuovi regimi delI l'Est si sono affrettati a dichiarare che rimarranno nel Patto di Varsavia). Bisognerebbe ricordare che tutto quanto è avvenuto all'Est è stato pilotato da Gorbaciov a difesa esclusiva degli interessi sovietici. In altra occasione ho scritto che la credibilità di Gorbaciov, la sua reale volontà di essere «un uomo di pace e di giustizia» come ama presentarsi, si sarebbe giocata sulla «questione baltica». Proprio perché, a parte la Polonia, l'indipendentismo baltico è il primo movimento all'Est, che non ha l'imprimatur di Gorbaciov e che non collima con i suoi interessi. Bene, in Lituania Gorbaciov ha perso la sua credibilità, se mai l'ha avuta. È patetico chi si illude ancora che Gorbaciov sia un «falco controvoglia». Quando ormai appare sempre più evidente che si è fatto attribuire i pieni poteri presidenziali soprattutto per poter meglio schiacciare i movimenti indipendentisti, baltici e non. Del resto non c'è nulla di peggio del «despota illuminato». Costui infatti, nel tentativo di far finta che tutto cambi perché. gattopardescamente, nulla alla fine cambi, non fa altro che evocare illusioni, desideri e speranze che non ha nessuna intenzione di soddisfare. Gorbaciov vuole una democrazia finta, una libertà finta, una indipendenza finta. Quando democrazia, libertà ed indipendenza rischiano di diventare vere allora cala l'antica mannaia come è avvenuto ad Ama Ata, a Tbilisi, in Azerbaigian, in Tagikistan e ora in Lituania. Nell' «impero interno» il vecchio Gorby ha fatto un bottino di morti che non si ricordava dai tempi di Stalin. Era meglio Breznev.
Ora che il conflitto fra Ovest ed Est, fra capitalismo e comunismo si è risolto a favore del primo, molti prevedono che il prossimo confronto sarà fra Nord e Sud del mondo, fra paesi ricchi e paesi poveri. lo vedo un futuro diverso. Sono persuaso che lo scenario degli anni a venire sarà attraversato da uno scontro colossale non fra due aree geografiche ed economiche ma fra due tendenze contrapposte: quella della definitiva omologazione e unificazione del mondo al modello tecnologico-industriale di tipo occidentale, cui il crollo del comunismo ha dato l'ultima spinta e quella della rinascita dei localismi, dei motivi etnici, delle specificità culturali (di questo scontro il conflitto Nord-Sud potrebbe essere una parte). A prima vista la tendenza alla omologazione universale e alla unificazione sembra essere la più forte. L 'affermazione del pensiero occidentale, della metafisica occidentale, che sta alla base dello sviluppo della scienza e della tecnica, è indiscutibile. L'industrialismo, che di questo pensiero è, insieme, l'espressione ultima e il braccio armato, ha distrutto culture, specificità, diversità, costumi, lingue, dialetti, occupando il mondo intero e piegandolo alle sue esigenze. Il globalismo economico, finanziario, culturale e l'integrazione sempre più stretta fra tutti i popoli ne sono una conseguenza inevitabile. Un Superstato mondiale, di fatto e fors'anche di diritto, ridotto a un unico, colossale, mercato, sembra essere il nostro futuro. Però... però, parallelamente a questo processo di unificazione, anzi in diretta reazione a esso, si muovono potenti forze centrifughe. Questo fenomeno si verifica sia all'interno delle società industrializzate sia nel cosiddetto Terzo Mondo. Nelle prime col riesplodere di ogni forma di localismo e di autonomismo, dal separatismo del Quebec a quello corso, dagli indipendentismi della Croazia, della Slovenia, del Kossovo, ai fermenti nazionalisti in Transilvania giù giù fino ad arrivare alle leghe di casa nostra. A volte le spinte centripete e centrifughe si scontrano nelle stesso luogo e hanno origine dallo stesso fenomeno. È il caso dell'Unione Sovietica dove il tracollo del comunismo ha aperto le porte alla omologazione dell'Urss al modello universalistico occidentale, ma, nello stesso tempo, ha scatenato una miriade di rivendicazioni etniche. Nel Terzo Mondo, accanto al completo assoggettamento al modello occidentale dell' Africa nera che ha una cultura troppo debole e primitiva per opporvisi, si assiste al prepotente ritorno dell'Islam che rivendica la propria originalità e la propria specificità di fronte alle pretese omologanti dell'Occidente. Chi vincerà alla fine: l'universalismo o il localismo? A questa domanda è impossibile rispondere. Si può solo provare a immaginare che cosa potrebbe accadere a seconda che prevalga l'una o l'altra tendenza. La vittoria totale del modello universalistico-occidentale apre due subscenari: 1) l'Occidente riesce a portare anche i paesi del Terzo Mondo al suo stesso livello di sviluppo. È la catastrofe ecologica, perché il pianeta crollerebbe sotto il peso del suo stesso benessere; 2) l'Occidente -ed è l'ipotesi più probabile perché è quanto è accaduto finora- continuando a esportare il suo modello disgrega e impoverisce ulteriormente i paesi terzomondisti, facendone, come già avviene, delle desolate e invivibili periferie dell'impero. In questo caso la pressione dei paesi poveri del mondo su quelli ricchi non farà che aumentare fino a rendere inevitabile un bagno di sangue. Le prospettive cambiano radicalmente se prevale il localismo. Nel localismo, infatti, anche se non sempre i suoi fautori occidentali se ne rendono conto, è insita una logica potenzialmente antindustrialista. Se l'essenza del localismo, come dice Giorgio Bocca, è «il rifiuto del mondo indifferenziato per avere dei punti di riferimento comprensibili in uno spazio. limitato» esso può esistere solo rifiutando la standardizzazione portata dal mercato mondiale e quindi ritornando a forme di autarchia, di protezionismo, di autoconsumo che sono incompatibili col globalismo economico industriale. In sostanza il localismo è un alt allo sviluppo, presuppone, anzi, un suo, sia pur ragionevole, ridimensionamento. Questo discorso è particolarmente evidente e consapevole negli indipendentisti corsi, che sono disposti a uno sviluppo ridotto purché rispetti la loro cultura e la loro storia. Ma la stessa cosa vale per lo slavismo alla Solgenitsin o, fuori d'Europa, per l'islamismo in versione khomeinista. Del resto solo se i paesi avanzati troveranno il coraggio di ridurre il proprio sviluppo potranno avere l'autorità di chiedere a quelli del Terzo Mondo di fermare il loro ad un livello ecologicamente compatibile. Ma anche la vittoria del localismo, se mai si verificasse, avverrebbe a costi enormi. Se infatti essa consentirebbe, forse, ai paesi industrializzati di risolvere problemi di qualità della vita e di porre un freno alla catastrofe ecologica, ne bloccherebbe altri in una posizione di stallo insostenibile. È la tragedia di un intero continente, l'Africa nera, che, a differenza dell'Islam, non è più in grado di recuperare i propri antichi equilibri, ma che, se si fermasse il processo di globalizzazione industriale, verrebbe messa nella definitiva impossibilità di raggiungerne dei nuovi. In ogni caso se qualcuno si era illuso che il trionfo del capitalismo occidentale avrebbe portato un'era di pace, di stabilità e di prosperità universale si sbaglia di grosso. Esso, al contrario, apre la porta ad un periodo di sconvolgimenti planetari dagli esiti quanto mai imprevedibili.