Montanelli aveva già cominciato a morire dieci anni fa, quando era crollata la Prima Repubblica. Nonostante l'avesse avversata da quasi mezzo secolo, e da par suo, quello era il suo mondo. Era un “bastian contrario” ma in fondo nel sistema, pur provandone un reale e profondo disgusto ci stava come il topo nel formaggio (“Turatevi il naso”). Con la caduta del vecchio regime perse il suo punto d'appoggio. L'avvento di Bossi, che in quegli anni voleva davvero far saltare il sistema, lo spiazzò smascherando il suo gioco, condotto con grandissima abilità per tanti anni, di finto oppositore del regime, fine che il leader del Carroccio ha fatto fare anche a Pannella. Il “nuovo che avanza”, la Lega, Berlusconi, non gli garbava e non lo capiva. In questo era un vero conservatore. La Lega prendeva milioni di voti, la magistratura impazzava, cadeva la Prima Repubblica e il Giornale da lui diretto aveva ancora come punto di riferimento, nel 1993, Arnaldo Forlani. Anche La voce fu un fallimento, elegante ma fallimento.La scomparsa del PciIn questa nuova Italia il vecchio Indro non si ritrovava. Una delle cause principali del suo smarrimento era stata, per lui anticomunista da sempre, la scomparsa del Pci. Da buon anarchico sentiva il bisogno di avversari forti e d'ordine. Una volta che ero andato a trovarlo al Giornale e si parlava della pochezza della classe politica italiana Indro prese improvvisamente una piccola fotografia, incastonata in una cornicetta d'argento, che teneva sempre davanti a sé sulla scrivania, come si fa con le immagini della moglie, dei figli o della Madonna, e mostrandomela esclamò: “Con questo ci sarebbe stato gusto!”. La foto era traslucida e lì per lì non capii. Lui la orientò meglio e piano piano vidi emergere i baffoni inconfondibili di Giuseppe Stalin. “Con questo ci sarebbe stato gusto a battersi”, ripeté Indro. “Lui sì che aveva una spina dorsale”. “Può darsi”, replicai io. “Ma il tuo divertimento sarebbe durato poco, perché ti avrebbe fatto fucilare subito”. Lui si mise a ridere, di quella risata un po' cavernosa che gli era venuta invecchiando.Benché mi stimasse e mi dimostrasse attenzione e affetto e, come tutti i veri grandi, non si desse nessuna aria grandiosa (“In fondo voi siete i miei nipoti” diceva, sempre con quella voce cavernosa) io ho sempre avuto una tremenda soggezione di Indro Montanelli e non mi è mai riuscito di chiamarlo altrimenti che “Direttore”. Anche se mio direttore non lo fu mai. Ci aveva provato in due o tre occasioni a portarmi al Giornale, ma per una ragione o per l'altra era sempre andata storta. Una volta però concludemmo. Capitò per caso.In un pomeriggio canicolare e patibolare di luglio milanese mi trovavo al Giornale per riscuotere una vincita da Massimo Bertarelli che faceva il bookmaker clandestino (una cosa in famiglia, anche Indro ci giocava) quando passando davanti alla porta aperta del suo ufficio lo vidi alla scrivania, davanti alla Lettera 32, immobile. Mi affacciai: “Che fai, Direttore, al giornale, alle due di pomeriggio di una giornata di luglio”? “Che vuoi”, rispose, “se vado a casa penso alla morte, perciò preferisco star qui. Ma entra”. A bruciapelo mi propose di andare al Giornale con lui. Dissi di sì e ci stringemmo la mano. Mancava solo la firma dell'Amministratore, Massari, cui avrei dovuto telefonare. Ma Massari non si fece mai trovare. Un po' stupito chiamai Montanelli. Lui, più meravigliato di me, fissò d'autorità un appuntamento con l'Amministratore per il 26 agosto. Ma Massari si diede di nuovo alla macchia. Capii che c'era un veto di Berlusconi e lasciai perdere per non mettere in imbarazzo Indro. Capii anche che Montanelli, lucidissimo fino all'ultimo sulla pagina, come organizzatore era una frana e lì, al Giornale, gliene facevano sotto il naso di tutti i colori.Era un uomo di grande eleganza. Non dico nel vestire - aveva naturalmente anche quella - ma nel tratto, che era quello di un gran signore. Quando scrissi Il Conformista la Mondadori mi chiese se potevo farmi fare una prefazione da Montanelli. Senza preavvertirlo di cosa si trattasse mi presentai da lui al Giornale e, pieno d'imbarazzo e con la tremarella, gli dissi: “Direttore, è peggio di quel che pensi. Non voglio una recensione, vengo a chiederti la prefazione”. Lui non mi lasciò quasi finire la frase: “Te la devo”, disse. “Tu sei nella mia linea”. Dopo due giorni un fattorino del Giornale mi portò la prefazione, che tengo come il più prezioso accredito non solo professionale, ma anche morale. Il bello è che, pur conoscendomi in fondo assai poco e non avendo sicuramente letto il libro (“Noi siamo degli analfabeti di ritorno” mi aveva detto una volta, confessando di non leggere più nulla da anni, giornali a parte), in quella prefazione mi centrava in pieno. « Te la devo ». In realtà non mi doveva assolutamente nulla, lo aveva fatto per togliermi dal mio evidente imbarazzo, questo quando amici carissimi, se appena hai la ventura di dover chiedere loro un piccolissimo favore, non resistono alla tentazione di fartelo cadere dall'alto.Anche negli ultimissimi anni aveva però conservato una straordinaria freschezza, quasi fanciullesca. Qualche anno fa lo invitai a colazione, all'Assassino. Io e la mia fidanzata di allora, Mariella, arrivammo un po' prima, per rispetto, e ci sedemmo al suo solito tavolo. Quando lo vedemmo entrare, accompagnato dalla nipote, Letizia Moizzi, che gli faceva un po' da “chaperon”, con gli occhiali scuri, curvo, il bastone, dimostrava tutta la sua età. Era da poco morta Colette. “Era una moglie ingombrante”, mi disse. “Ma adesso che non c'è ne sento la mancanza”. Ma bastò che si sedesse a tavola perché tutto cambiasse. Era un fuoco di fila di aneddoti, di storie, di gag, di “tranche de vie”. Io e le ragazze ascoltavamo, incantati. A un certo punto della conversazione Montanelli disse: “I protagonisti della mia epoca li ho intervistati tutti, mi mancano solo Mao e Stalin”. Devo dire che ogni volta che incontravo Montanelli non resistivo alla tentazione di sfrucugliarlo su Curzio Malaparte, che era stato il suo grande rivale dagli anni Trenta fino alla morte di Curzio, nel 1956. L'antagonismo era tale che Malaparte, quando giaceva sul letto della clinica Sanatrix, malato di cancro, gridava: “No, non posso morire prima di Montanelli!”. Alle mie punzecchiature Montanelli rispondeva, invariabilmente, che Malaparte era un fascista, una spia, un avventuriero, un millantatore, uno che si era inventato d'esser toscano mentre era tedesco, e così via. Le pallottole BrEra un uomo di grandissima vitalità. Quella che gli permise, quasi settantenne, quando fu ferito dalle Brigate Rosse in via Manin, davanti ai Giardini pubblici, di aggrapparsi alle inferriate e di tirarsi in piedi da solo. Fu portato al Fatebenefratelli. Conoscevo quell'ospedale come le mie tasche perché vi era morto mio padre e, passando per la chiesetta interna riuscii a intrufolarmi nonostante l'ingresso fosse vietato a tutti i giornalisti tranne i suoi. Lo raggiunsi proprio quando, in barella, già intubato, lo stavano portando in sala operatoria. Con lui, oltre ai medici e gli infermieri, c'erano solo Mario Cervi e, mi pare, Salvatore Scarpino. Mi vide, mi riconobbe, mi salutò: “Bravo. Sei un vero reporter”. “Per la verità ero venuto solo per salutarti”. “Vai e scrivi. Sennò questi qui ti fregano” disse, indicandomi i due colleghi, e sparì dietro una porta nera di gomma. Furono, quelli, anni difficilissimi per lui che si oppose con grande coraggio non al sistema, che in fondo gli stava bene, ma all'antisistema, che era molto più pericoloso. Anche perché era solo, accerchiato da un conformismo plumbeo e intollerante.Erano gli anni in cui Eugenio Scalfari faceva scrivere su La Repubblica un furioso corsivo contro Maurizio Costanzo perché si era permesso di invitare al suo talk - show Montanelli, “il fascista”. Io stesso fui testimone, e in parte protagonista, di uno di questi episodi di intolleranza all'epoca in cui ero leader del Comitato di redazione della Rizzoli. Quando gli americani lasciarono il Vietnam, Montanelli scrisse per Oggi, dove aveva la sua “Stanza”, un articolo a favore degli Stati Uniti. Il Consiglio di fabbrica, che aveva preso visione delle bozze, fece violente pressioni su noi del Comitato di redazione perché impedissimo l'uscita del pezzo che consideravano intollerabile per una sensibilità “laica, democratica e antifascista” eccetera, eccetera. I miei due compagni del Cdr, Fabrizio Scaglia e Dino Satriano, erano dei bravi guaglioni, in cuor loro nient'affatto estremisti, ma erano così impregnati del clima dell'epoca, e terrorizzati di poter essere bollati come “fascisti”, che volevano a tutti i costi aderire all'invito, diciamo piuttosto all'ingiunzione, del Consiglio di fabbrica. Durai un'intera notte, da Oreste, a convincerli che quello era il Minculpop, che quello, sì, era fascismo. Ma non li convinsi. Dovetti minacciare di dimettermi perché non se ne facesse nulla. Molti anni dopo, in una delle sue risposte alle lettere sul Corriere Montanelli ricordò quell'episodio e mi ringraziò. Montanelli era vitale ma aveva anche, come ha lui stesso raccontato, lunghi periodi di depressione. Io lo incontrai in uno di questi, dopo che aveva dovuto andarsene dal Corriere della Sera. Eravamo seduti su delle sedie a sdraio sulla terrazza, inondata di sole, della sua bella casa romana, proprio sopra piazza Navona. C'era anche Colette Rosselli, la moglie, una donna alta, bella, colta, di gran classe, una compagna in tutto e per tutto al suo livello. Davvero una gran coppia. Lui era malinconico, cupo, disilluso, amareggiato, stanco. Battibeccò anche con Colette che gli rimproverava, sia pur in termini eleganti, il suo maschilismo (“A te le donne piacciono solo in posizione orizzontale”). Me ne andai da quella casa convinto che Montanelli, come giornalista, fosse finito. Pochi mesi dopo fondava il Giornale, la sua ultima, grande impresa. Il rientro al Corriere fu un ripiego. Si trovava a disagio e me lo confidò. Al Corriere, che era stata la sua casa per 37 anni e il suo grande amore, forse l'unico, non riusciva a perdonare di averlo costretto ad andarsene e soprattutto lo sgarro che gli aveva fatto quando era stato colpito dalle Brigate Rosse e un signor nessuno di nome Piero Ottone aveva ordinato che si titolasse: “Ferito un giornalista”. Come se non fosse stato il più grande giornalista italiano dei suoi tempi e, insieme a Curzio Malaparte, di tutti i tempi. Quella volta di HitlerNon resistetti nemmeno quella volta e dissi: “Però Malaparte li ha intervistati, Mao e Stalin”. “Non è vero”. “Direttore, io le ho lette quelle interviste”. “Erano dei falsi”. Il discorso cadde. Arrivati che eravamo al caffè Montanelli cominciò a raccontare una storia straordinaria. Il giorno che i tedeschi avevano invaso la Polonia lui, Montanelli, si trovava, unico italiano in mezzo ad altri giornalisti, presso un certo ponte dove si pensava che dovesse passare l'armata germanica e Hitler stesso. E infatti ecco che Hitler arriva, in piedi su un carro armato, impettito. E che fa? Scende dal carro e punta dritto proprio su Montanelli. “Naturalmente fu un monologo”, si schernì Indro, imitando la voce abbaiante del Fuehrer. “Io non riuscii a piazzare nemmeno una parola”. Di sottecchi io guardavo Mariella, che è boccalona, e si beveva, beata, tutta la storia. Per spiegare l'incredibile comportamento di Hitler Montanelli disse che, probabilmente, il Fuehrer voleva, attraverso di lui, mandare un messaggio a Mussolini per convincerlo a entrare in guerra. Restava però da capire come mai quella straordinaria intervista, per quanto monologante, non fosse stata mai pubblicata dal []Corriere della Sera. Era intervenuto il Ministero della Propaganda tedesco, disse Montanelli, sul Minculpop italiano imponendo il verboten e così lo “scoop” era saltato.Nel suo narcisismo infantile, che mi fece una grande tenerezza, il vecchio si era inventato tutto. Non potendo sopportare che l'altro, l'avversario, l'arcinemico, per quanto morto e stramorto da mezzo secolo, avesse intervistato Mao e Stalin, e lui no, aveva tirato fuori dal cilindro il massimo assoluto: Adolf Hitler. Come un bambino.
Una minoranza ha cercato a Genova la violenza e il morto. E li ha puntualmente trovati. In questa minoranza comprendo anche le cosiddette «tute bianche» che sono radicalmente estranee ai moventi profondi del «popolo di Seattle» a cominciare dal loro nome (per l'antiglobalizzazione il lavoro non è un valore) e che hanno fornito ai «black block» l'acqua in cui nuotare, sia ideologicamente che materialmente.E' difficile non essere d'accordo col portavoce del Genoa Global Forum, Agnoletto, quando si chiede e chiede come mai in una città sottoposta a tanti controlli e divieti, dove a rigore non avrebbe dovuto entrare neanche uno spillo non autorizzato, abbiano potuto spadroneggiare, quattrocento ragazzi armati di tutto quanto serve alla guerriglia, passamontagna, bastoni, spranghe, molotov.Non sarò così ipocrita da piangere la morte di questo ragazzo. Altre, e ben più numerose, sono le vittime della globalizzazione e della modernità. Il direttore de “La Repubblica”, Ezio Mauro, scriveva ieri: «In politica la violenza non si misura a dosi e quantità, non conosce fini nobili che la giustifichino, né contesti che la assolvano». E' ridicolo. Senza la violenza non ci sarebbe stata la Rivoluzione francese,in nome della quale Mauro scrive, quella russa, non ci sarebbe stata l'America, non ci sarebbe stata l'unità d'Italia, non ci sarebbe stata la vicenda umana. La violenza è una delle levatrici della storia, non la sola ma una delle più importanti, e aver cercato di eliminarla del tutto, disconoscendo la vitale aggressività dell'uomo e sostituendola con la competizione economica, è uno dei tanti errori della modernità, dell'Illuminismo e della sua astrattezza.Il movimento di Seattle non è pacifista, è pacifico che è cosa diversa. Per la semplice ragione che la violenza, la guerriglia urbana, i morti non gli servono, ma lo danneggiano profondamente. A cominciare dal fatto che se non si sapesse che ormai ogni manifestazione antiglobal viene ogni volta coinvolta in scontri pericolosi, molta più gente sarebbe accorsa a Genova e altrove, intuendo, se non proprio capendo e razionalizzando, che si sta giocando una partita importante e forse decisiva per le sorti della nostra specie.Le questioni poste dal movimento antiglobalizzazione ci riguardano infatti tutti, ricchi e poveri, anzi più i ricchi che i poveri. Non si tratta di cavarsela con quattro soldi elargiti ai Paesi del Terzo Mondo, come dicono adesso, con la faccia contrita, Bush e Berlusconi. Fosse questa la questione sarebbe semplice. In discussione c'è ben altro. Sono le nostre automobili, i nostri telefonini, le nostre fabbriche, le nostre vacanze ai Caraibi, Internet e le e-mail, il nostro modo di produrre e di consumare, il mito del lavoro, le meraviglie dell'ingegneria genetica, il biotech, le madri a sessant'anni e le nonne che sono madri dei loro nipoti e sorelle delle loro figlie, i trapianti, gli espianti, le clonazioni. Insomma in discussione ci sono proprio i successi della modernità non i suoi fallimenti. E' il mostruoso ambaradan che abbiano cominciato a mettere in piedi a partire da due secoli e mezzo fa coll'illusione, la pretesa e poi un'ubris impazzita di costruire, per dirla col Candide di Voltaire, «il migliore dei mondi possibili». E' il nostro modello di sviluppo che è in discussione, per intero e alla radice. Noi, poveri e ricchi che si sia, ma più i ricchi che i poveri, non riusciamo più a tollerare la spaventosa accelerazione che ha imposto alle nostre esistenze questo meccanismo, tecnologico, industriale, economico, di cui i cosiddetti «Grandi» che si sono riuniti a Genova non sono che le marionette e, a loro volta, delle vittime, anche se non innocenti.Si può essere d'accordo col movimento antiglobalizzazione, si può essere contro. Entrambe le posizioni sono, ovviamente legittime. Ma quel che è sicuro è che questi due mondi sono inconciliabili e che non sono possibili mediazioni, di preti, di sinistra, di Papi, di organizzazioni non governative finanziate dai governi, di missionari, di elemosinieri. Perché ogni tentativo di razionalizzare il nostro modello di sviluppo, come dimostra la storia degli ultimi due secoli e mezzo, non fa che renderlo più angoscioso, spietato e disumano.
E' convinzione diffusa in molti ambienti politici, giornalistici, intellettuali che la magistratura italiana, cambiato il vento, punti ora sulle “piste rosse” (inchieste sull'”affaire Mitrokhin”, su Telecom su Telekom Serbia), così come prima, teleguidata dalla sinistra, indagava principalmente a destra. E' una concezione devastante dei rapporti fra Magistratura e potere politico che fa saltare tutti i presupposti dello Stato democratico e liberale basato, secondo i dettami di Montesquieu, sulla rigida separazione dei poteri.Perché delle due l'una. O questa convinzione corrisponde alla realtà e allora avevano ragione i brigatisti rossi quando, negando l'indipendenza e l'imparzialità della Magistratura italiana, si dichiaravano “prigionieri politici” e quindi chi ha questa convinzione dovrebbe, per coerenza, lasciare i propri posti, magari istituzionali, per darsi alla macchia e alla guerriglia perché vivremmo non in uno Stato democratico ma fascista dove il potere giudiziario è alle dipendenze di quello politico e la giustizia è una favola borghese. Oppure quella convinzione è falsa e chi se ne fa portatore è un irresponsabile perché una tale delegittimazione della Magistratura ha conseguenze pesantissime sull'intera convivenza sociale.”Mani pulite”Il malvezzo di accusare la Magistratura italiana di agire per fini politici e non di giustizia cominciò, passata l'euforia, soprattutto popolare, dei primi due anni, all'indomani delle inchieste “Mani pulite” che, è bene ricordarlo, operarono a 360 gradi, inquisendo tutte le formazioni politiche, che risultarono tutte implicate nel racket delle tangenti e dei ricatti, anche se non arrivarono a colpire i segretari del Pci-Pds a differenza di quanto era avvenuto con altri partiti. Poiché Occhetto e D'Alema non erano stati incriminati e poiché in seguito fu inquisito anche l'onorevole Berlusconi per la sua attività di imprenditore, il centro destra cominciò a gridare che le inchieste del Pool di Milano erano una “combine” fra magistrati e sinistra.Che la sinistra abbia strumentalizzato le inchieste di Milano, o di Palermo, per colpire i propri avversari politici é fuori discussione. Ma questa è cosa diversa dal dire che i magistrati hanno agito alle dipendenze della sinistra, o di parte di essa, o anche solo per compiacerla, perché in questo caso saremmo in presenza di un colpo di Stato o comunque di una gravissima violazione dei doveri del proprio ufficio e i vari Borrelli, Colombo, Davigo, Boccassini, Caselli non dovrebbero stare al posto dove stanno ma essere trascinati in giudizio ed essere sbattuti, se trovati responsabili, in carcere.StrumentalizzazioneAllo stesso modo è inconcepibile che ora alcuni esponenti della sinistra, come Folena o Crucianelli, facciano capire che le inchieste sull'”affaire Mitrokhin” o sulla Telecom o sulla Telekom Serbia avvengono non perché sacrosante ma per compiacere i nuovi padroni del vapore per cui delle “toghe azzurre” avrebbero soppiantato quelle “rosse”.Che una classe dirigente, non importa se di destra o di sinistra, anzi di destra e di sinistra insieme, abbia una tale sfiducia nella Magistratura è devastante. IstituzioniPerché se la classe dirigente di un Paese è la prima a non credere alle proprie Istituzioni, alle proprie leggi e ai magistrati che devono applicarle, con quale autorità, con quale efficacia, con quali mezzi potrà imporre il rispetto di quelle stesse leggi e di quei magistrati ai cittadini comuni e in particolari agli strati più emarginati della popolazione, agli immigrati, ai poveracci, ai banditi da strada, ai disoccupati, agli operai di Porto Marghera, agli anti Global, (la famosa “tolleranza zero”) che da una disgregazione istituzionale del sistema hanno da perdere per dirla con Marx, solo le proprie catene?Il magistrato è come l'arbitro di una partita di calcio. Il suo operato può e, se del caso, deve essere criticato. Dell'arbitro si può dire che sbaglia, che ci vede male, che è un incapace, ma se si afferma che è corrotto, pagato dalla squadra avversaria, come da troppo tempo si fa con i magistrati italiani, saltano tutte le regole e la partita finisce in una zuffa. Fuor di metafora: salta il patto sociale che tiene insieme una comunità.
Io sono persuaso da tempo — e lo vado scrivendo da vent'anni — che nei decenni e, probabilmente, nei secoli a venire lo scontro non sarà più fra destra e sinistra, com'è stato nell'Ottocento e nel Novecento, ma fra modernisti e antimodernisti, fra fautori del progresso e i loro avversari.Noi siamo su un treno che va a mille all'ora e aumenta a ogni istante la velocità, i suoi costruttori sono morti da tempo, chi ne è attualmente l'erede, anche se si illude di guidarlo, ne ha perso da tempo il controllo, perché il meccanismo, che si autoraffina in progressi, va ormai per conto suo ed è diventato scopo a se stesso. A condurre il treno non c'è, in realtà, nessuno. Sul treno, è vero, c'è chi siede su comode poltrone di prima classe, anche se è pur esso sballottato e frastornato dalla velocità, chi in seconda e in terza, chi sugli strapuntini, chi sta nei cessi, chi mezzo fuori dal finestrino, chi appeso alle predelle, mentre molti, forse la maggioranza, rotolano più per la scarpata. Per cui ha un certo interesse trovare una sistemazione più equa per i viaggiatori.Ma la questione di fondo è un'altra: dove diavolo sta andando il treno? Ed è vero, come sostengono alcuni, che a questa velocità, volendo e dovendo anzi aumentarla, prima o poi si disintegrerà o finirà contro una montagna o esaurirà la rotaia?Queste sono le domande poste dal movimento che abbiamo convenuto chiamare «di Seattle», che riguardano tanto il Nord che il Sud del mondo, tanto i ricchi che i poveri, anzi, a rigore questi ultimi un po' meno dei primi perché molti di essi, rotolando giù dal treno, possono forse sperare di salvarsi, anche se feriti e laceri, se il viaggio finirà davvero in un disastro.Ecco perché è grottesco che le questioni che si affollano attorno al vertice del G8 di Genova vengano presentate, e in qualche caso si autopresentino, come uno scontro fra destra e sinistra, dove la prima sarebbe global e la seconda anti. Destra e sinistra sono nemiche a pari merito del movimento di Seattle, perché si dividono solo sulla sistemazione dei viaggiatori e se si debba dare o meno qualche panino a quelli che non viaggiano in prima classe e non si servono della carrozza ristorante, ma entrambe sono d'accordo sul fatto che il treno sia la miglior macchina mai costruita, sulla sua direzione, sulla velocità stratosferica e pensano anzi che aumentandola ancora verranno risolti, chissà perché, i problemi degli occupanti invece di ingigantirli com'è avvenuto finora sia per quelli benestanti che per gli altri. Sono entrambe, fuori di metafora, convinte delle «sorti meravigliose e progressive».Le correnti di pensiero più vere e profonde del movimento di Seattle ritengono, all'opposto, che le sorti non siano né progressive né, tantomeno meravigliose, che il treno, per quanto luccicante, sia diventato una macchina infernale, che non solo vada rallentato ma fermato addirittura debba fare retromarcia per riguadagnare la stazione precedente e da qui prendere una via diversa. E che tutto ciò vada fatto al più presto, perché come mi ha detto una volta Carlo Rubbia, che non è un oscurantista, che non è un millenarista, ma uno scienziato e un positivista, «potremmo anche aver già superato il punto di non ritorno».Questo destra e sinistra, che discendono ambedue dai filoni di pensiero di coloro che hanno costruito il treno, non lo potranno mai accettare. Quando le sinistre, sia nella versione tardo marxiste-leninista dei ragazzotti inconsapevoli dei centri sociali sia in quella adulta riformista e dalemiana, cercano di mettere le mani sul movimento di Seattle, o più realisticamente di lucrarne qualche briciola, compiono quindi un'appropriazione indebita.Maggiormente legittimati, semmai, a sentirsi affini a Seattle sono i cattolici. Sia perché, storicamente, sono stati a lungo antimodernisti e antiprogressisti, e molti, in cuori loro, lo rimangono, sia perché si deve anche alla Chiesa (si pensi solo alla speculazione di Tommaso D'Aquino e di Alberto Magno) se il Medioevo mantenne al centro della propria visione l'uomo e non l'economia e, per quanto ci possa apparire incredibile, fu un tentativo generoso, e in parte riuscito, di far vivere una comunità d'uomini in modo socialmente più equilibrato ed esistenzialmente meglio compensato.
Sono patetiche e grottesche le sinistre che accorrono al G8 di Genova mescolandosi al movimento antiglobalizzazione e illudendosi, magari, di cavalcarlo, cosa che peraltro avviene solo in Italia dove qualsiasi fenomeno, anche il più serio, com'è certamente quello di Seattle, stinge nel farsesco.Che questo equivoco riguardi i ragazzotti dei centri sociali, a malapena consapevoli di essere al mondo, è comprensibile, ma la stessa cosa non si può dire per la sinistra colta e radical chic. Perché il movimento di Seattle è intimamente e profondamente reazionario, antimodernista, antindustrialista, antitecnologico, mentre la sinistra è, per sua costituzione, progressista (e tale è chiamata in contrapposizione ai “conservatori”), modernista, industrialista, tecnologica. Non meno dei pensatori liberali Marx ha una illimitata fiducia nel progresso, nell'industria, nella tecnica che porteranno una tale cornucopia di beni materiali da far felice l'umanità intera. Marxisti e liberali si dividono solo sul modo in cui questi beni devono essere distribuiti, per tutto il resto la pensano allo stesso modo, sono entrambi figli dell'Illuminismo. Come ha sottolineato Antonio Socci in un bell'editoriale sul Giornale (6 luglio) il marxismo è globalizzatore quanto il capitalismo. Questo è sufficiente a ridicolizzare le sinistre antiglobalizzanti, non, a differenza di quanto pensa Socci, il movimento antiglobalizzazione.L'ottimismo sette-ottocentesco dei liberali e dei marxisti era infatti perfettamente giustificato dalle grandi prospettive che il dinamismo industriale sembrava aprire dopo duemila anni di sostanziale immobilismo.La rivoluzione industrialeMa due secoli e mezzo dopo la Rivoluzione industriale bisogna regolare un po' i conti e farsi l'indecente domanda che io ponevo in un libro pubblicato nel 1985 (La Ragione aveva Torto?) quando di globalizzazione non si parlava ancora: si stava meglio quando si stava peggio? Il modello di sviluppo partorito dalla Rivoluzione industriale ha davvero migliorato la qualità della nostra vita o nell'illusione di creare “il migliore dei mondi possibili” ce ne siamo invece costruiti uno particolarmente disumano? Questi dubbi che un tempo riguardavano élite minoritarie, guardate con disprezzo, sono ora evidentemente discesi a livello di massa. E, più o meno consciamente, è proprio l'indecente domanda (“si stava meglio quando si stava peggio?”) che il movimento di Seattle si pone e ci pone.Per quanto mi riguarda la risposta che do oggi è, a maggior ragione, la stessa che davo vent'anni fa ne la Ragione aveva Torto?: per quanto possa sembrare incredibile la cosiddetta società del benessere non ha migliorato la qualità della nostra vita ma l'ha grandemente peggiorata.Contestatori ricchiE' estremamente significativo che i contestatori di Seattle non siano, nella stragrande maggioranza, abitanti del Terzo Mondo, anche se ne assumono le difese, ma cittadini proprio delle società opulente. Il fatto è che l'attuale modello di sviluppo è riuscito nella straordinaria impresa di far star male non solo chi sta male, ma anche chi sta bene, i ricchi, i privilegiati. Nell'Europa del 1650, preindustriale, i suicidi erano 2,6 per 100mila abitanti, nel 1850, nell'Europa industrializzata, erano il 6,8, triplicati, oggi sono il 20,6, decuplicati. L'alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Le malattie mentali, depressione e nevrosi, hanno un primo balzo in avanti nell'800 (non per nulla nasce la psicoanalisi) per dilagare nel '900. Oggi più di un abitante su due degli Stati Uniti, la punta di lancia del modello globalizzante, fa abitualmente uso di psicofarmaci, senza tener conto di coloro che sono coinvolti nella droga. Sono un'armonia e un equilibrio complessivi, che un tempo esistevano sia pur nelle durissime condizioni materiali di vita, che oggi ci sono venuti drammaticamente a mancare. Abbiamo puntato tutto sulla crescita e lo sviluppo, ma siamo andati oltre. Anche il cancro è una crescita e uno sviluppo. E, come mi disse una volta, splendidamente, Don Giussani, il leader di Comunione e Liberazione, mio professore al liceo Berchet: “L'errore è una verità impazzita”.