pubblicato su Il Fatto
«È stata l'ultima persona a vederlo vivo. A parte mia madre. E me» scrive Benedetta Tobagi nel libro dedicato a suo padre: "Come mi batte forte il tuo cuore". Quella persona sono io. Ero con Tobagi in quella che doveva essere l'ultima notte della sua vita. La sera di quel 27 maggio del 1980 ero andato al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sul segreto istruttorio che Tobagi, quale presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti, presiedeva. C'ero andato un po' per incontrar lui, un po' per rivedere il mio vecchio maestro, Gian Domenico Pisapia, e perché il segreto istruttorio è un mio antico pallino.
Così, quando fui fra gli antichi stucchi del circolo non seppi resistere e feci un intervento in cui difendevo le ragioni del segreto. Ero, e sono, convinto che il segreto istruttorio non è un intollerabile limite alla libertà di stampa ma un indispensabile istituto a difesa della dignità delle persone che siano coinvolte, a qualsiasi titolo, in un'inchiesta penale e che hanno diritto, in un'indagine che è ancora ai suoi incerti inizi, a non essere sbattute indiscriminatamente in prima pagina. Un tema, come si vede, molto attuale. Solo che oggi, con logica berlusconiana, non si tende tanto a ripristinare il segreto quanto, soprattutto per i reati di "lorsignori", a rendere impossibili le indagini.
Ma trent'anni fa, quando ad essere colpiti dalle inchieste erano gli stracci e Mani Pulite era di là da venire, la sensibilità era diversa e il mio intervento aveva sollevato mormorii di disapprovazione fra i giornalisti - la sala ne era piena - che ogni volta che gli si parla di segreto istruttorio si mettono a strillare all'offesa del "sacro diritto-dovere di informare". Ma Tobagi nel suo intervento conclusivo mi aveva dato manforte. E mentre parlava, di quando in quando, mi aveva lanciato un'occhiata d'intesa perché erano cose che ci eravamo detti tante volte e, da qualche tempo, anche in lui, come in me, erano sorti dei seri dubbi sul nostro mestiere.Dopo, insieme a un altro collega, Giorgio Santerini, eravamo andati a mangiare in una scalcinata pizzeria di via Moscova, vicino al Corriere. E avevamo chiacchierato e allegramente malignato.
Io ero l'unico con la macchina (a Walter non piaceva guidare) e ho accompagnato a casa prima Santerini e poi Tobagi che abitava vicinissimo a me. Si erano ormai fatte le tre di notte ma, da viziosi e incalliti giornalisti di quotidiani, non ci pareva ancora abbastanza tardi. E siamo rimasti a parlare una mezz'ora sotto casa sua in macchina. Fuori cadeva una pioggerellina leggera. Tobagi mi ha raccontato dei suoi problemi al Corriere. In quel periodo non andava molto d'accordo con Di Bella, il direttore che sarebbe stato di lì a poco travolto dallo scandalo della P2. Poi, quasi d'improvviso, aveva aggiunto che da un mese aveva smesso di occuparsi di terrorismo. Aveva una voce tranquilla, come sempre, ma mi ha detto: «Sai, non voglio proprio finire ammazzato per questi qua» intendendo Di Bella e Barbiellini Amidei, il vicedirettore. È stato a questo punto che ho pensato che eravamo degli incoscienti a rimanere lì fermi in macchina davanti al suo portone. E ho avuto l'impulso di guardarmi attorno al di là dei vetri della macchina bagnati dalla pioggia.
Ma non l'ho fatto per non spaventarlo e non spaventarmi. Ci siamo lasciati con l'intesa di portare, appena possibile, i nostri bambini allo zoo dove, un paio di domeniche prima, ci eravamo fanciullescamente divertiti, ritagliandoci un paio di ore in quegli anni convulsi. Ho ancora negli occhi la sua sagoma massiccia mentre con le mani grassocce armeggia con le chiavi per aprire il signorile portone di legno. L'ultima immagine che ho di lui.Me ne andai a letto e, poiché ero in uno dei miei periodi di disoccupazione, dormii beatamente fin verso le undici. Mi svegliò una telefonata del collega Gian Franco Venè che mi ringraziava per un favore che gli avevo fatto «anche se» aggiunse «con quello che è successo le nostre piccole cose paiono senza senso».«Che cosa è successo?» feci io, con voce insonnolita.«Ma come, non sai niente?»«No»«Hanno ammazzato Walter, Walter Tobagi».Per me che l'avevo lasciato pochi minuti prima (così mi pareva nell'intervallo incosciente del sonno: nella mia mente lui era ancora lì che apriva il portone) fu un'emozione violentissima.
Buttai giù il telefono, mi vestii in fretta, uscii e feci a piedi i pochi passi che mi separavano dalla casa di Tobagi. In testa mi risuonavano quelle parole: «Sai, non voglio proprio finire ammazzato per questi qua» e mi gelavano il sangue.Quando arrivai davanti alla casa di Tobagi, in via Solari, c'era il solito canaio d'inferno, poliziotti, fotografi, curiosi, giornalisti nella doppia veste di amici e di gente che era lì per lavorare. Vidi uscire dal portone, con gli occhi rossi di un pianto che non facevano nulla per nascondere, due colleghi, Raffaele Fiengo e Gabriele Pantucci, che più avevano seminato odio, un odio che in certe riunioni sindacali si tagliava col coltello, contro Tobagi. Quelle lacrime mi colpirono. Io non piangevo.Mi feci coraggio ed entrai in casa.
C'era molta gente che sicuramente conoscevo ma che oggi non ricordo. Ricordo solo Santerini che fa giocare i bambini e Stella Tobagi, pallidissima, che esce da una porta e si abbandona piangendo sulla mia spalla: «Tu... eri tu stanotte con lui».Sono rimasto lì, con Stella che piangeva, senza sapere cosa fare e cosa dire. Quando Stella si è ripresa sono uscito e mi sono ritrovato sulla strada mentre fotografi e giornalisti facevano il loro mestiere, quello solito di sempre, ma che a me, quel giorno, è sembrato particolarmente turpe. «Vuoi andare a vederlo all'obitorio?» mi ha chiesto qualcuno. Ho risposto di no. Mi sarebbe sembrato di violare il pudore di Walter.Anche i funerali mi disturbarono. Non solo nel vedere un'Oriana Fallaci, che non aveva mai conosciuto Tobagi, stringersi affranta al braccio di Bruno Tassan Din, che non c'era bisogno che fosse scoperto con le mani sul tagliere della P2 per capire che era un mascalzone, ma per la Rolls Royce e tutto l'apparato, pomposo, barocco, esagerato che aveva confezionato il Corriere. L'opposto della sobrietà di Walter.
L'amicizia fra me e Tobagi era di natura piuttosto bizzarra. Eravamo diversissimi di carattere. Forse ci trovavamo proprio per questo. Lui era riflessivo, pacato, calmo. Io tutto il contrario. Utopico io, realista lui. Io melodrammatico, lui ironico. Lui riservato, io esibizionista. Io ribelle, lui con i piedi per terra. Io provocatore, lui mediatore nato.Lui mi trasmetteva un po' della sua serenità, io, forse, lo incuriosivo con i miei eccessi, la mia smodatezza d'allora. Nonostante fosse più giovane di me di tre anni, era lui - così più maturo - a fare la parte del fratello maggiore. Assumeva un'aria quasi protettiva nei miei confronti. È una parte che accettavo volentieri e che in Tobagi mi è sempre parsa naturale
.C'eravamo conosciuti molto giovani ai tempi in cui lui lavorava all' "Avvenire" e io all' "Avanti!". Allora, nell'ambiente dell' "Avvenire", Tobagi era soprannominato "il viperotto" in contrapposizione alla "mangusta" che era un altro bravissimo collega, Corrado Incerti. Perché Tobagi, al di là dell'immagine oleografica che gli è stata cucita addosso dopo morto, era uno che, sotto quel suo aspetto d'acqua cheta, sapeva mordere e sapeva difendersi. Fra noi si diceva, con affettuosa malignità, che «studiava da Direttore».A quell'epoca però, per me, Tobagi era una conoscenza come un'altra. Divenimmo amici dopo, quando fummo eletti consiglieri dell'Associazione lombarda dei giornalisti. Scoprimmo, oltre a una simpatia di pelle, di avere molte idee in comune.
Anche se cercavamo di farle valere in due modi diversi, io con l'irruenza, lui con la mediazione per la quale aveva un'inclinazione e un talento istintivi.Ricorderò sempre quella sera del 1978 quando Tobagi, Ciccio Abruzzo ed io rompemmo la maggioranza socialcomunista dell'Associazione lombarda che si ispirava al marxismo-leninismo, tanto in voga allora, cosa particolarmente grottesca perché i sedicenti "rivoluzionari" appartenevano al più borghese dei giornali italiani, il Corriere della Sera. Era un'operazione molto delicata e dolorosa perché noi, socialisti e libertari, ci alleavamo con i "fascisti" di Autonomia e sapevamo che ci saremmo esposti ad accuse di tutti i generi, che ci avrebbero dato dei "traditori" e coperto di insulti (cosa che poi puntualmente avvenne, soprattutto nei confronti di Tobagi che, come giornalista del Corriere, era il più esposto e questo contribuirà ad indirizzare su di lui il mirino dei terroristi).
Tobagi aveva in mano la mozione di sfiducia che avevamo preparato, ma esitava. La girava e rigirava fra le dita, ma non si decideva. Per lui, che non faceva le cose alla leggera, era un momento lacerante. E poi, visibilmente, ne temeva le conseguenze («Non era un cuor di leone, papà» ha scritto Benedetta con uno sforzo di lucidità e di sincerità che deve essere costato non poco al suo amor filiale, smitizzando anche i "falsi miti" dell' "eroe" e del "martire" di cui dà prova, in tutto il libro, di aver piene le tasche). Io che gli sedevo a fianco lo incoraggiavo, lo incitavo, lo pungolavo, lo spingevo quasi fisicamente. «E dai Walter».
Mi feci dare il foglietto e dissi: «Presidente, c'è una mozione di Tobagi».Quante volte, dopo quel che è successo, ho pensato che se non gli avessi forzato la mano con la mia spensierata insistenza, forse Tobagi sarebbe ancora vivo. Perché quella secessione lo portò alla presidenza dell'Associazione lombarda dei giornalisti. E Tobagi è stato ucciso per il doppio ruolo simbolico che aveva: come inviato del Corriere e come leader del sindacato dei giornalisti lombardi. Non perché avesse capito chissà che del fenomeno terrorista come vuole l'agiografia postuma.Un'altra cosa che non mi sento assolutamente di condividere, proprio per l'affetto e la stima che mi legavano a lui, è la retorica, partorita dal Corriere della Sera, del "cronista buono". La melensa, insulsa, triste, ingiusta retorica del "cronista buono".
Tobagi non era affatto "buono" nel significato zuccheroso che si vorrebbe dare a questo termine. Era un "buon cronista", che è cosa diversa. Era un ragazzo che aveva lavorato e sudato e sacrificato molto per arrivare, a soli trentatré anni, dove era arrivato. E per farlo, in quell'ambientino tremendo che è la famosa "famiglia del Corriere", aveva dovuto difendersi, anche lui, con gli artigli, sia pure degli artigli felpati che gli derivavano dalla sua educazione cattolica (era un esemplare, piuttosto raro, di "cattosocialista") e che consistevano in una grande capacità di mediazione, un notevole senso della realtà e dei rapporti di forza, un certo istinto politico. Il tutto accompagnato da un "sense of humor" assai affinato e, quando si andava sotto la prima buccia, da una partecipazione umana autentica.
Beatificarlo, stamparlo in un'immagine da santino, com'era stato fatto finora, significa umiliare la sua memoria e far torto alla sua intelligenza che era, essa sì, notevole.Ora finalmente l'amorosa testimonianza della figlia lo toglie dall'empireo dei santi, degli eroi e dei martiri all'italiana per restituirci, al posto di quello sepolto dalla retorica e dalle pallottole di due imbecilli, un Walter Tobagi vivo.
Massimo Fini
pubblicato su "il Fatto"
L'11 gennaio comincerà la lavorazione del film su Renato Vallanzasca prodotto dalla Twenty Century Fox, con la regia di Michele Placido e Kim Rossi Stuart nella parte di colui che fu "il bel Renè". La circostanza mi offre lo spunto per scrivere una "lettera aperta" al Presidente della Repubblica per sollecitare una grazia che "il bandito della Comasina" ha già chiesto qualche anno fa ma che fu sdegnosamente respinta dall'allora ministro della Giustizia Roberto Castelli.Al Presidente della Repubblica Italiana onorevole Giorgio Napolitano.
Signor Presidente, mi permetto di rivolgermi a Lei con questa lettera aperta per chiederLe di vagliare la possibilità di concedere la grazia al cittadino italiano Renato Vallanzasca, nato a Milano il 4/5/1950, attualmente detenuto nel carcere di Opera.Il Vallanzasca è stato condannato a due ergastoli e ad altri 90 anni di reclusione per una serie di furti, di rapine, di sequestri di persona e anche di omicidi di agenti di polizia consumati però sempre a viso aperto in scontri a fuoco, potendo egli stesso essere ucciso, e non in vili agguati sotto casa mandando magari altri a fare il lavoro sporco e pericoloso.Il Vallanzasca non solo ha sempre lealmente ammesso le proprie colpe, ma si è anche addossato in più occasioni (rapine di Milano 2, di Pantigliate, di Seggiano, di viale Corsica) le responsabilità di delitti per i quali erano stati incriminati degli innocenti, dando così un suo contributo, non marginale, alla giustizia.
Del pari non ha mai ceduto al malvezzo, oggi così diffuso anche fra autorevoli e autorevolissimi rappresentanti delle istituzioni, di accusare polizia e Magistratura di "complotto", non si è messo, com'è diventata anch'essa deplorevole abitudine, a cercare prove contro i suoi giudici, non ha mai lamentato torture psicologiche e fisiche per il solo fatto di essere in carcere, né si è messo a fare il pianto greco alla scoperta che una cella non è un salotto. Si è insomma sempre comportato con dignità, dando a vedere di essere consapevole che aveva un conto da pagare alla giustizia e alla collettività. Eppure la carcerazione di Renato Vallanzasca è stata durissima. Ha passato undici anni in isolamento. Undici anni, signor Presidente, quando ai detenuti di Tangentopoli o similari sono bastati quattro o cinque giorni di questo regime per gridare all'infamia, invocare Amnesty International e per ricattare la collettività minacciando di togliersi la vita.
A differenza di altri detenuti che hanno potuto fare della loro cella una redazione di giornale o un set televisivo, a Vallanzasca è stato negato anche il computer (concesso, mi pare, solo un anno fa) e poiché non ha santi in paradiso ha subito più volte botte e pestaggi, mentre i medici che lo avevano in cura venivano intimiditi perché nulla trapelasse. Solo una volta, dopo vent'anni di carcere di questo tipo, all'indomani di un pestaggio particolarmente brutale, il Vallanzasca, poiché nessuno si levava a difendere i suoi diritti, ha scritto una lettera di protesta. Ma nemmeno in questa occasione si è atteggiato a vittima e a un giornalista che gli chiedeva se fosse stato torturato ha risposto: «Beh, adesso non esageriamo».
Risposta che fa il paio con quella data, dal famoso balconcino, il giorno della sua prima cattura, alla canea sociologicizzante dei giornalisti che, in clima immediatamente post Sessantotto di giustificazionismi universali, gli chiedevano se non si ritenesse una vittima della società: «Non diciamo cazzate» (e già solo per questo, ai miei occhi, meriterebbe di essere liberato). Una lezione per allora, ma anche per oggi in un'epoca di perdonismi, di "buonismo", di indulti, di amnistie mascherate, di prescrizioni altrettanto mascherate, dove nessuno accetta di assumersi le proprie responsabilità - che sono sempre altrove, nella famiglia, nella società, nel "così fan tutti", nel «perché proprio io?» - come dimostra anche la penosa vicenda di Tangentopoli i cui protagonisti hanno fatto di tutto per mischiare le carte trasformandosi in martiri della libertà, in giudici dei loro giudici e ad alcuni dei quali, condannati in via definitiva per aver taglieggiato e concusso, vengono ora intitolate vie, piazze e giardini; e quell'altra incresciosa storia, possibile solo in Italia, di un detenuto, condannato per l'assassinio di un commissario di polizia, che ci fa ogni giorno la morale dalle pagine dei più importanti giornali nazionali.Come Le dicevo, signor Presidente, il Vallanzasca ha una sua etica, sia pur malavitosa.
La ragazza Trapani la trattò con garbo e quando le gazzette cominciarono a insinuare che fra lui e la giovane c'era una "love story" replicò seccamente: «Sono tutte balle inventate dai giornalisti». Laddove, come Lei, signor Presidente, che è uomo di mondo, ben sa, nella società delle cosiddette persone perbene a domande del genere s'è soliti rispondere con sorrisetti d'intesa e frasi ambigue del tipo: «Non fatemi parlare, sono un gentiluomo». Inoltre, pur essendo nella posizione migliore per farlo, il Vallanzasca si è sempre rifiutato di entrare nel mercato della droga e a questo proposito ha dichiarato: «Non giudico né chi si fa né chi spaccia. Non sono cose che mi riguardano. Ma con la droga non voglio avere nulla a che fare».
Infine, ed è la circostanza più importante, a differenza di altri detenuti, per la concessione della cui grazia, peraltro non richiesta dall'interessato, si levano infinite voci ben più autorevoli della mia, e che hanno scontato una parte minima della loro pena, Renato Vallanzasca è in galera da più di trent'anni.Ha peccato molto, è vero, ma mi pare di poter dire che ha espiato anche molto, dimostrando oltretutto, a differenza di altri, di riconoscere la potestà dello Stato e il suo diritto a giudicarlo e punirlo.
È un bandito d'altri tempi, di stampo ottocentesco, quando la malavita aveva regole, dignità e codici d'onore ed era lo specchio rovesciato e malato di una società liberale dove regole e dignità e onore avevano il primo posto. La malavita di oggi invece, si tratti di mafiosi, di camorristi, di criminalità organizzata, ma anche di raider della finanza, di tangentisti, di concussori, di corruttori (magari anche di testimoni in giudizio), di "colletti bianchi" corrotti, di "ladri in guanti gialli", non ha né regole né dignità né onore. E una malavita senza dignità né onore non può che essere lo specchio e il prodotto di una società senza dignità e senza onore.
Tanto è vero che il confine fra malavita e ciò che non lo è si è venuto facendo in questi anni sempre più indefinibile e molti di coloro che oggi sono sotto processo hanno un piede in Tribunale e l'altro nell'imprenditoria, nel mondo finanziario, nella politica, in Parlamento, se non addirittura nel governo e nei suoi vertici. E non c'è criminale più spregevole di quello che delinque sotto il manto della rispettabilità e proteggendosi con essa. Non c'è immoralità più grande di quella di chi pretende rispettabilità sapendo di non meritarla.Renato Vallanzasca, al contrario, è sempre stato un delinquente a viso aperto.
Oso dire, signor Presidente, che in questo immondezzaio che è diventata la vita pubblica e privata del nostro Paese, fa la parte dell'uomo morale, sia pur a modo suo. È un bandito onesto in una società dove troppo spesso gli onesti sono dei banditi.
Massimo Fini
Il ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, ha dichiarato in Senato: «Lavorando di più in Procura e senza le luci delle telecamere si arresta qualche latitante in più, e quindi con qualche convegno in meno e qualche latitante preso in più si fa il bene del Paese».
Sono d’accordo col ministro, ma per ragioni diverse dalle sue. Se la giustizia italiana in questi anni si è mostrata poco efficiente non è perchè giudici e pubblici ministeri hanno perso il loro tempo davanti alle telecamere o partecipando a dei convegni, ma per il bizantinismo (ereditato direttamente dalle pandette di Gaio e Giustiniano) e la farraginosità dei nostri Codici. Del resto, l’esasperante lunghezza dei nostri processi riguarda anche, e forse più, il civile i cui magistrati, per il minor appeal mediatico di questi processi, raramente fanno apparizioni in tv. E inoltre, da Mani Pulite in poi, tutti i ministri della Giustizia, compreso l’attuale, hanno mandato ripetute ispezioni alle Procure che hanno lavorato di più, come a Milano, a Palermo, a Napoli, trascurando invece quelle neghittose.
Il fatto è che i giudici e i pubblici ministeri devono evitare ogni personalizzazione della loro funzione che deve essere il più astratta possibile. Il motivo è che la persona del magistrato è sempre attaccabile (se non sarà lui, sarà sua moglie o i suoi figli o i suoi amici), la funzione no. Di questi attacchi alla persona del magistrato, per delegittimare le sue inchieste, si è fatto uso e abuso tanto che il nuovo Codice di procedura penale italiano, diciamo il Codice "materiale", è diventato questo: come un pubblico ministero apre un’indagine subito si fa un’inchiesta su di lui per scoprirne le eventuali magagne. È evidente che in tal modo non si può amministrare la giustizia. Ma è anche chiaro che a questo andazzo ha contribuito quel protagonismo dei magistrati cui si riferiva il ministro Alfano.
Inoltre, mettendoci la faccia, esponendosi, rilasciando dichiarazioni, il magistrato fa trasparire inevitabilmente le sue propensioni politiche e ideologiche e ora un buon magistrato, un magistrato vero, quando conduce un’inchiesta, se pubblico ministero, o entra in camera di consiglio, se giudice, si dimentica del suo retroterra ideologico e io credo che la maggioranza dei nostri magistrati si sia comportata così nonostante le reiterate accuse di Berlusconi e di parte del centrodestra ai magistrati "politicizzati" (sono di pochi giorni fa le inaudite dichiarazioni del premier che, in una sede europea, ha affermato che "in Italia i magistrati si sono sostituiti al Parlamento e che la Consulta è ormai un organo politico e non più di garanzia - e poi ci meravigliamo e ci indignamo se gli americani mettono in dubbio la validità del processo che ha condannato Amanda Knox). Ma il magistrato deve essere come la moglie di Cesare "che non solo deve essere onesta ma anche apparirlo", cioè non solo deve essere imparziale ma anche apparirlo, pena la perdita di quella credibilità che è essenziale alla sua funzione.
Proprio per questa necessità di spersonalizzazione in alcuni Paesi, come la Finlandia, i giornali, riferendo di un’inchiesta o di una sentenza, non possono fare i nomi dei magistrati che ne sono stati autori. Noi ci accontenteremmo che, come si diceva e faceva una volta, i magistrati si limitassero a parlare solo "per atti e documenti".
Qualche mese fa di fronte ai ripetuti, violenti attacchi di Berlusconi alla Magistratura ogni volta che viene raggiunto da un provvedimento giudiziario, scrivevo su questo giornale: "La Magistratura è come l’arbitro di una partita di calcio. Dell’arbitro si può dire che sbaglia, che è impreparato, che non ci vede, ma se alcuni giocatori sostengono che è corrotto e non accettano i suoi fischi quando sono contro ma d’altro canto pretendono che siano validi quando sono a favore, la partita finisce rapidamente in una zuffa perchè, prima o poi, anche tutti gli altri giocatori si comporteranno allo stesso modo. Fuor di metafora: si rompe il patto sociale che ci tiene e si scende la ripidissima china dell’anarchia e della guerra civile".
In Italia non siamo ancora alla guerra civile perchè uno psicolabile, con un’aggressione che va condannata senza se e senza ma, ha maciullato il volto del premier riducendolo a una maschera tragica e grottesca. Ma l’episodio non va sottovalutato. Uno psicolabile, proprio perchè gli mancano i freni inibitori, coglie più acutamente il clima di un’epoca. Non siamo alla guerra civile, ma in un clima da guerra civile. E, a mio avviso, la responsabilità maggiore, anche se certo non esclusiva, è di chi ha delegittimato l’arbitro. Non più tardi di due settimane fa, un una sede europea, Berlusconi aveva dichiarato "il Parlamento è stato occupato dal partito dei giudici di sinistra, la Consulta ormai non è più un organo di garanzia, ma politico". Affermazioni così gravi che avevano costretto il pur prudentissimo Napolitano a non fare il solito ammonimento "urbi et orbi" ma a dirigerlo al Presidente del Consiglio, parlando di "violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla Costituzione Italiana". E il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, aveva ricordato al premier il primo articolo della Costituzione "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione" (altrimenti il popolo sarebbe legittimato a decidere a maggioranza, putacaso, che tutti quelli che hanno i capelli rossi vanno fucilati).
Ma l’analisi più profonda l’ha fatta Pier Ferdinando Casini che, legando le affermazioni di Berlusconi al no della Camera alla richiesta di arresto del sottosegretario Cosentino, ha detto: "La prima Repubblica non è stata uccisa dai giudici di Mani Pulite. Era già morta molto prima, quando si era chiusa in una difesa cieca della propria classe politica. Nel clima tempestoso di questi giorni una difesa assoluta e corporativa di tutto e di tutti ci metterà, prima o poi, in una situazione insostenibile nei confronti dell’opinione pubblica". Da politico di lungo corso Casini ha colto che, al di là degli "opposti estremismi" dei fan fanatici di Berlusconi e di una parte altrettando fanatica dei suoi oppositori, un’esasperazione dell’opinione pubblica moderata per la pretesa di impunità che la classe dirigente, Berlusconi in testa, avanza per sè e che vuole rafforzare ulteriormente: un un nuovo "lodo Alfano", "legittimi impedimento", la truffa del "processo breve", il divieto delle intercettazioni telefoniche per i crimini di "lorsignori", l’abolizione del reato di "concorso esterno in associazione mafiosa", che, a mio parere, è giusta in sè ma che verrebbe limitata ai politici e agli amministratori pubblici. Parole sagge, moderate e lungimiranti quelle di Casini. Speriamo che siano raccolte dalla maggioranza dei suoi colleghi. Sulla moderazione di Berlusconi, temo, c’è poco da contare.
pubblicato su "Il Fatto"
Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha messo in dubbio, sia pur in termini tortuosi, la validità della sentenza della Corte di assise di Perugia che ha condannato la sua connazionale Amanda Knox per l'omicidio, in concorso con Raffaele Sollecito e Rudy Gedè, della giovane inglese Meredith Kercher. La Clinton ha evocato, pur senza citarli, i giudizi della senatrice democratica Maria Cantewell che ha espresso perplessità sul sistema giudiziario italiano e ha addebitato la sentenza a un «diffuso antiamericanismo» che sarebbe presente nel nostro Paese. Opinione che coincide con ciò che pensa una buona parte dell'opinione pubblica degli Stati Uniti.
Questa storia va divisa in due parti. Nella prima c'è la notoria arroganza degli Stati Uniti che non accettano di essere trattati alla pari con gli altri Paesi. Noi italiani ne abbiamo una certa esperienza. Il pilota che, per fare il rambo tranciò la funivia del Chermis, giudicato negli Stati Uniti perché le basi americane in Italia sono extraterritoriali, sfuggono cioè alla nostra giurisdizione, se l'è cavata con un nulla di fatto. Idem per i militari americani di stanza a Napoli che si sono resi responsabili di stupri nei confronti delle nostre ragazze.
Per l'uccisione di Calipari l' "amico Bush" non ci ha concesso nemmeno il placebo di un'inchiesta. E gli Stati Uniti che montano di qua e di là dei Tribunali speciali per "crimini di guerra" (come quello dell'Aja che ha processato Milosevic) si sono sempre dichiarati contrari a un Tribunale internazionale omnicomprensivo, a meno che dai processi di questo Tribunale non siano esentati i propri soldati e i propri ufficiali.Ma in tutti questi esempi rimaniamo pur sempre in ambito militare per delitti, veri o presunti, commessi da militari. È la prima volta nella pur lunga storia del mondo, credo, che uno Stato contesta una sentenza di un altro Stato che non ha alcun risvolto politico ma che riguarda un delitto di diritto comune: un assassinio.
Se gli americani si permettono nei nostri confronti un'intromissione così inaudita, fuori da ogni convenzione o regola o fair play internazionale, è perché gliene abbiamo offerto il destro. Non si può delegittimare per quindici anni la magistratura italiana, come abbiamo fatto noi e continuiamo a fare, accusando sistematicamente i giudici di essere "toghe rosse", "complottisti", di emanare "sentenze politiche", senza far sorgere dei dubbi, a questo punto legittimi, anche negli altri Paesi.
Perché mai Amanda Knox non potrebbe essere vittima di giudici "di sinistra" animati da un pregiudizio antiamericano come sostiene parte della stampa statunitense e come pare credere anche Hillary Clinton? Noi italiani - o per essere più precisi la cricca berlusconiana - abbiamo delegittimato la nostra magistratura e adesso riceviamo ciò che ci meritiamo. L'unico sussulto di dignità nazionale lo ha avuto il padre di Raffaele Sollecito, che pur è stato condannato come Amanda, che ha dichiarato: «Io sono un cittadino italiano che risponde alle leggi e ai Tribunali del suo Paese.
Di quello che pensano gli americani non m'importa nulla». Dignità che non ha avuto il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, che di fronte a questa incredibile ingerenza ha fatto spallucce giudicando "normali" le dichiarazioni di Hillary Clinton. Invece sono un'offesa gravissima al nostro Paese trattato come il Burkina Faso, sia detto con tutto il rispetto che merita il Burkina Faso e che noi evidentemente non meritiamo più. Anche perché continueremo a fare i "servi sciocchi" degli americani, fedeli come lo sono solo i cani e, su loro ordine, a mandar truppe per la più infame, la più ingiusta, la più ingiustificata, la più vigliacca delle guerre del Terzo Millennio.Massimo Finiwww.ilribelle.com