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pubblicato sul Gazzettino il 18 dicembre 2010

La cosa più azzeccata sul guazzabuglio indecoroso cui abbiamo assistito martedì in Parlamento, con voti comprati e venduti, urla e fischi da stadio, insulti sanguinosi, l’ha detta Umberto Bossi grazie alla sua saggezza popolana che è la stessa di Antonio Di Pietro definito da Fabrizio Cicchitto "una vivente testimonianza della crisi dell’Università, come la straordinaria figura di un laureato semianalfabeta" (se stiamo ad aspettare i Fini intellettuali e i Cicchitto, ex socialista ed ex piduista, se non ci fossero stati i "semianalfabeti" Di Pietro e Bossi, allora uniti nella lotta alla corruzione politica, saremmo ancora al Caf e alla Prima Repubblica). Ha detto dunque il leader della Lega: «Per quello che si vede in aula e per il casino che c’è, l’unica igiene è il voto. La gente che vede questa roba in rv si allontana dalla politica, capisce che non si può continuare così». Ma Bossi si illude se pensa che nuove elezioni, chiunque le vinca, possano cambiare le cose. Il marcio sta proprio nella democrazia rappresentativa. Così la descrive nel 1835 Alexis De Tocqueville che pur ne è uno dei padri nobili: «Quando voi entrate nell’aula dei rappresentanti a Washington restate colpiti dall’aspetto volgare di questa grande assemblea. Invano vi cercate un uomo celebre. Quasi tutti i suoi membri sono oscuri personaggi il cui nome non vi dice nulla. Si tratta generalmente di avvocati di provincia, di commercianti o anche di uomini appartenenti alle infime classi... si resta assai stupiti nel vedere a quali mani sia affidato il potere pubblico e ci si domanda per quale forza indipendente dalle leggi e dagli uomini lo Stato possa prosperare». E in un altro passaggio della sua La democrazia in America parla di un "agglomerato di avventurieri o di speculatori".
La corruzione che noi vediamo in Parlamento, con deputati comprati e venduti, è solo la più evidente, ma non è la più importante. Perché la corruzione vera, più vasta, avviene prima comprando gli elettori. I partiti hanno bisogno del consenso e se lo comprano. Con le pensioni baby, con le pensioni d’oro, con le pensioni di invalidità fasulle, con quelle di vecchiaia tarroccate, con le casse integrazioni protratte all’infinito (tutte cose pagate dal resto della cittadinanza) e col clientelismo. L’ultimo esempio è lo scandalo romano di Atac e Ama. Mentre mezza Italia giovanile è in cerca di lavoro, i politici e i loro portaborse piazzano i propri figli, i propri nipoti, i propri cognati, le proprie mogli, le proprie fidanzate, le proprie amanti in posti sicuri. Ho conosciuto il giovane Alemanno. Era un ragazzo pieno di ideali, un po’ contorto perché soffriva sinceramente delle proprie contraddizioni. Se anche lui c’è cascato vuol dire che non è una questione di uomini ma strutturale. Del resto lo scandalo romano non è che l’ultima espressione del famoso "sistema Mastella" che non riguarda, ovviamente, solo l’onorevole Mastella, che anzi ha almeno l’onesta impudicizia di non negarlo; ma ogni capobastone della classe dirigente democratica. Mi ha detto Tiziana Maiolo, ex parlamentare di Forza Italia: «Non c’è amministratore pubblico che non debba "portare la pappa" al suo capo». Si è espressa proprio così: "portare la pappa". E poiché lei non è stata a questo gioco, dopo essere servita per molti anni a Berlusconi in funzione anti-magistratura, è finita a fare l’assessore a Buccinasco. Questa è la democrazia, bellezza.

Massimo Fini

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pubblicato su il Fatto il 22 dicembre 2010


Clamoroso al Cibali. Il molto commendevole professore Ostellino ha scoperto la Legge, con la L maiuscola. «Che va rispettata». Il professore si riferisce ai disordini di Roma durante le dimostrazioni studentesche contro la legge Gelmini e, più in generale, per manifestare il profondissimo disagio di una generazione che sente di non avere un futuro. Il professore argomenta che ogni forma di indulgenza verso quei disordini è «irresponsabile» o, peggio, di «giustificazionismo morale e ideologico di quelle criminali violenze mal si conciliano con l'idea di democrazia liberale» e sono una versione aggiornata dei "compagni che sbagliano" e spalancano le porte al terrorismo.
Che la legge vada rispettata è fuori discussione. Solo che quando a violarla sono "lorsignori", poniamo Berlusconi e altri esponenti del centrodestra, la legge diventa improvvisamente minuscola e la Magistratura che è chiamata ad applicarla «fa un uso politico della giustizia».
Non so poi quanto «si conciliano con l'idea di democrazia liberale» altri fatti accaduti in questo Paese negli ultimi vent'anni. In nessuna democrazia liberale sarebbe stato permesso a un imprenditore di possedere, per tre lustri e passa, l'intero comparto televisivo privato nazionale. Perché l'oligopolio sta all'opposto di un'idea liberale e liberista della democrazia e contro l'oligopolio alcuni "padri nobili" di questo sistema, da Adam Smith a David Ricardo, hanno speso parole di fuoco perché ne abbatte il cardine principe: la libera concorrenza. In nessuna democrazia liberale si sarebbe permesso a un uomo politico, per giunta diventato presidente del Consiglio proprio grazie a questa illiberistica supremazia, di continuare a essere proprietario di tre network, quando negli Stati Uniti, sempre presi ad esempio dai professori Ostellini, Panebianchi e della Loggia, un uomo politico non può possedere nemmeno un giornale di quartiere. In nessuna democrazia liberale sarebbe stato permesso a un premier di varare leggi solo formalmente valide "erga omnes" ma sostanzialmente costruite a sua misura o dei suoi amici (le note leggi "ad personam" e "ad personas") proprio per sottrarlo alla legge. In nessuna democrazia liberale potrebbe rimanere premier un soggetto che un Tribunale della Repubblica ha riconosciuto, sia pur in primo grado, essere un corruttore di testimoni in giudizio per salvarsi in altri processi. E fermiamoci qui. 
Il professor Ostellino non solo ha sempre dimostrato una particolare "indulgenza" per queste evidenti violazioni della legge che «mal si conciliano con l'idea di democrazia liberale», ma le ha sempre giustificate e non ha mai speso una parola contro queste illiberalità.
Si potrebbe dire che Piero Ostellino è «un liberale che sbaglia». Ma sarebbe concedergli troppo. È semplicemente un uomo in malafede. Neanche le manifestazioni pacifiche gli vanno a sangue, se disturbano il manovratore. Poiché difendendo interessi particolari e corporativi «si precipita in un surreale pluralismo, si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della volontà popolare, nel totalitarismo di una supposta "volontà generale"». (e qui lo pseudocolto Ostellino polemizza con Rousseau, il che non stupisce perché Rousseau è il più acuto e singolare degli Illuministi che previde con qualche secolo di anticipo  i devastanti effetti della "società dello spettacolo" - Discorso sulle scienze  e sulle arti). Aveva scritto Rousseau che i cittadini sono liberi solo al momento del voto e diventano schiavi subito dopo. Per la verità Rousseau si illudeva. Noi non siamo liberi nemmeno al momento del voto, pesantemente condizionato dai media, in mano ai soliti noti, che non per nulla vengono spudoratamente chiamati "gli strumenti del consenso" e, in Italia, non possiamo nemmeno scegliere, o perlomeno tentare di scegliere, i nostri rappresentanti, predeterminati da ristrettissime oligarchie di partito. Vorrei far notare al professor Ostellino, se ne valesse la pena, che nel pensiero di Stuart Mill e di Locke, altri "padri nobili" della liberaldemocrazia, i partiti non sono contemplati e che fino al 1920 nessuna Costituzione liberale nemmeno li nomina. Il perché è evidente: i partiti, le lobbies, sono la negazione in radice di quel principio dell'uguaglianza dei cittadini almeno sulla linea di partenza che è il cardine della liberaldemocrazia. Ma è pressoché inutile discutere di queste cose con un signore che ha storto il suo nobile naso anche davanti ai pacificissimi "girotondi" che non difendevano alcun interesse corporativo ma quello collettivo dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Nella testa di Ostellino, ammesso che ci sia qualcosa, c'è una sorta di parlamentarismo alla Cromwell in cui i cittadini una volta eletti, si fa per dire, i propri rappresentanti devono starsene zitti e boni fino alla tornata successiva quando riprenderanno a legittimare gli abusi, i soprusi, le violenze dei loro padroni, come l'unzione del Signore legittimava i re medioevali. Perché, è un dato di fatto, esiste anche una violenza del sistema democratico. Che è meno plateale ed evidente, più subdola di quella dei regimi totalitari, ma non meno grave e incisiva perché esclude, emargina, umilia l'uomo libero che conserva quel tanto di rispetto di se stesso per non accettare umilianti infeudamenti in questa o quella lobby, partitica o di altro tipo, e che sarebbe il cittadino ideale di una liberaldemocrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Infine, in un discorso di prospettiva, c'è da ricordare che le democrazie sono nate da bagni di sangue e non si capisce per quale mai ragione, per quale privilegio divino, non gli si debba, un giorno, restituire la pariglia dal momento che non rispettano nessuno dei presupposti, nessuno dei pilastri su cui affermano di basarsi.
Ma, tornando al presente, è del tutto evidente che la liberaldemocrazia proposta dagli Ostellino, dai Panebianco, dai della Loggia, è la vecchia, cara, schifosa giustizia di classe. Per i delinquenti da strada c'è la Legge, per coloro che detengono il potere solo la legge.

Massimo Fini

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pubblicato su Il Fatto l'11 dicembre 2010

«Quando voi entrate nell'aula dei rappresentanti a Washington, restate colpiti dall'aspetto volgare di questa assemblea. Invano vi cerchereste un uomo celebre, quasi tutti i suoi membri sono oscuri personaggi il cui nome non vi dice nulla. Si tratta generalmente di avvocati di provincia, di commercianti o anche di uomini appartenenti alle infime classi». Così nel 1835 descriveva la democrazia rappresentativa Alexis De Tocqueville che pur di questo sistema è considerato uno dei padri. Ma forse al nostro Parlamento si adatta di più un'altra pagina di Tocqueville, in cui parla di «un'accozzaglia di avventurieri o di speculatori» e aggiunge «si resta assai stupiti nel vedere a quali mani sia affidato il potere pubblico e ci si domanda per quale forza indipendente dalle legge e dagli uomini lo Stato possa prosperare».

Dovrebbe leggersi un po' di Tocqueville quella massa di ignoranti, e votanti, ce sono diventati gli italiani, imbesuiti dalla Tv, dalle fiction e dal virtuale, invece di scandalizzarsi, o far finta, per il grottesco "mercato delle vacche" cui assistiamo in questi giorni. Quando si dice "vacche" non si usa una metafora, si descrive la realtà della nostra classe politica democratica che nella sua maggioranza è formata da uomini e donne che si prostituiscono e prostituiscono la cosa pubblica ai propri interessi, a quelli dei propri clientes, vassalli, valvassori, valvassini, delle proprie mogli, delle proprie fidanzate, delle proprie troie e dei figli dei cognati dei nipoti che, mentre mezza Italia giovanile cerca lavoro, vengono piazzati in posti sicuri (vedi gli scandali romani di Atac e Ama, che sono solo l'ultima espressione del "sistema Mastella" che non riguarda, ovviamente, solo l'onorevole Mastella ma ogni o della classe dirigente democratica).

Certo ci furono tempi in cui in Parlamento sedeva gente diversa. Non possiamo mettere sullo stesso piano gli Einaudi, i De Gasperi, i Nenni, i Togliatti, gli Almirante con questi mascheroni televisivi che noi, supremo masochismo, paghiamo perché ci comandino. Ma la democrazia rappresentativa non c'entra nulla con quei bei tempi andati, c'entra il fatto che allora la Storia e le ideologie agitavano grandi passioni politiche, ideali, e che alla politica si avvicinava chi queste passioni le aveva. Ma la passione politica non è una prerogativa della democrazia. Al contrario: grandi passioni politiche hanno espresso tutte le dittature del Novecento.

Ma chi oggi entra in politica, nella politica democratica, non lo fa per passione. Lo fa per coltivare i propri affari, con metodi quasi sempre mafiosi e spesso criminosi. Quale passione politica possiamo leggere sui volti dei Berlusconi, dei Letta, dei Frattini, dei La Russa, dei Gasparri, dei Bersani e di tutti quegli altri che si dicono di sinistra? Ogni cinque anni andiamo a votare e legittimiamo costoro a spartirsi quel potere che, ci dicono, appartiene a noi cittadini. E vinca l'una o l'altra squadra il "popolo di sinistra" o "il popolo della destra" fan festa, ballano in piazza senza rendersi conto che a vincere sono solo i giocatori in campo (una fettona di sottopotere non si nega agli sconfitti, fa parte delle regole del gioco) mentre a perderci son solo i festanti che hanno pagato il biglietto.

La farsa delle finte contrapposizioni politiche dovrebbe essere ormai, dpo decenni di queste manfrine, chiara a tutti. Gianni De Michelis, intervistato dal Corriere per i suoi 70 anni, ha dichiarato: «Centrodestra e centrosinistra non esistono. Esistono solo due bande di potere». E se lo dice lui, che se ne intende, possiamo credergli.

Massimo Fini

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pubblicato su Il Fatto il 19 dicembre 2010

Un'ottantina di celebrità del mondo dello spettacolo, della letteratura, della politica ha firmato sul Times un appello, inviato formalmente all'ayatollah Alì Kamenei e al presidente iraniano Ahmadinejad, intitolato "liberate Ashtiani", più universalmente nota come Sakineh. È una bella compagnia. Ci sono il premio Nobel per la letteratura V.S. Naipaul, gli attori Robert Redford, Juliette Binoche, Robert De Niro, Colin Firth, il cantante Sting, il leader dei laburisti britannici Ed Milliband, l'ex ministro degli Esteri francese Kouchner, la vedova di Harold Pinter Antonia Fraser e naturalmente l'immancabile Bernard-Henry Lèvy che si è auto eletto campione dei "diritti umani". Nell'appello si sottolinea, fra le altre cose, che Sakineh, data a priori per innocente, è in carcere da cinque anni, mentre l'uomo accusato dell'omicidio del marito di lei, dato, chissà perché, per sicuro colpevole, «è libero». Costoro che si rivolgono alle autorità iraniane non conoscono nemmeno la legge islamica per la quale il verdetto definitivo spetta ai parenti della vittima il cui perdono, se c'è, annulla la pena. E poiché il parente più vicino alla vittima, oltre al figlio, era la moglie, Sakineh appunto, è ovvio che abbia perdonato l'amante che gli ha fatto il favore di uccidere il marito diventato, per entrambi, ingombrante.

Mi piacerebbe che tutte queste "anime belle" lanciassero anche un altro appello: «liberate l'Afghanistan». Liberatelo, egregio signor Bernard-Henry Lèvy, egregio signor Redford, egregio signor Milliband, dalle truppe straniere che lo occupano e che appartengono alle Nazioni di cui voi siete così illustri esponenti.

In Afghanistan, con un calcolo al ribasso, sono state 60 mila le vittime civili della guerra. Secondo un rapporto dell'Onu del 2009 «la maggioranza delle vittime civili è stata causata dai bombardamenti della Nato». Ma anche le altre non ci sarebbero se la presenza delle truppe occupanti non provocasse la reazione degli insorti che, di fronte a un esercito invisibile che combatte con i droni, i Dardo e i Predator, aerei senza equipaggio ma dotati di missili micidiali, teleguidati da Nellis nel Nevada e da una base segreta in Inghilterra, o con gli irraggiungibili B52 che bombardano da diecimila metri di altezza, sono costretti ad accompagnare le classiche azioni di guerriglia con attacchi di tipo terroristico estranei, fino al 2006, alla pratica afgana e talebana. Gli americani bombardano a tappeto i villaggi alla ricerca di talebani. Ma poiché tutti gli uomini validi sono a combattere, nei villaggi ci sono solo vecchi, donne e bambini (in Afghanistan il 40% dei ricoverati in ospedale sono bambini al di sotto dei 14 anni). Il numero delle donne uccise in Afghanistan è quindi altissimo. E non sono donne che hanno somministrato al marito una pesante dose di sonnifero perché l'amante potesse ucciderlo con sette scariche elettriche. La loro sola colpa è di essere donne afgane e di vivere in un Paese in cui qualcuno, venuto da lontano, i Bernard-Henry Lèvy, i Milliband, i Kouchner, i Redford, i Robert De Niro, ha deciso di imporre loro di liberarsi dal burqua e, più in generale, di piegare una popolazione che nella stragrande maggioranza non ne vuol sapere ai costumi, agli usi, alle istituzioni, alle leggi degli occidentali. Questo massacro di donne non vi dice nulla "anime belle"? Queste donne innocenti non hanno diritto al vostro interesse? No, per voi il simbolo della libertà rimane Sakineh, un'adultera assassina. Le donne, spesso incinte, spesso spose nel giorno delle nozze, massacrate a decine di migliaia dai vostri bombardieri, in nome della libertà s'intende, sono solo dei semplici, inevitabili, "effetti collaterali". Liberate Sakineh! Sporcaccioni.

Massimo Fini

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pubblicato sul Gazzettino il 10 dicembre 2010

Non voglio discutere qui dei meriti o dei demeriti di Silvio Berlusconi. Faccio solo delle constatazioni. Berlusconi è stato eletto per la prima volta presidente del Consiglio nel 1994. In quell’anno in Francia c’era Mitterand, in Germania Helmut Khol, statista di primissimo ordine, padre dell’unità tedesca e dell’Unione europea, buttato fuori dalla scena politica per un risibile finanziamento illecito al suo partito (perché in Germania, Paese serio, certe cose non si tollerano), in Gran Bretagna Major, in Russia Chernomirdin. Solo il dittatore della Corea del Nord, Kim Jong, arrivato al potere nello stesso anno, resiste ancora.

Quando fu eletto Berlusconi aveva 65 anni, era nel pieno delle sue formidabili energie che gli hanno consentito, partendo dal nulla, di fare, nel bene o nel male, molte cose nella vita: palazzinaro di successo, imprenditore televisivo di successo, presidente di una grande società calcistica, di avere due mogli e cinque figli. Ma sono passati sedici anni da allora, una vita. In questo tempo ha avuto un tumore alla prostata e subito una delicata operazione al cuore. Non c’era bisogno che fossero gli americani a dirci che è «fisicamente debole». Anzi, per quel che mi riguarda, mi sono doluto che il nostro governo non abbia reagito a questi giudizi impietosi su quello che è, piaccia o non piaccia, il presidente del Consiglio italiano.

Ma è vero che Berlusconi è diventato fragile. Anche la sua smodata smania per le ragazze giovani, per cui non l’ho mai condannato e non lo condanno, anzi lo capisco, è un segno di senilità. Berlusconi ha 74 anni, e se si può fare un lifting della pelle, dei capelli, dei denti, non si può fare un lifting dell’anima.

Se avesse davvero a cuore quello che, nel suo egocentrismo, chiama «il mio Paese», Berlusconi passerebbe la mano. Ma non può. È troppo contrario al suo temperamento. Tutte le volte che si è trovato in difficoltà ha sempre rilanciato, come un bravo giocatore di poker. E finora gli è andata sempre bene. Ma arriva un bene in cui anche il più abile bluffatore viene preso in castagna. Il Tempo, gran signore delle nostre vite, non perdona. Ma Berlusconi, inguaribile bambinone, si illude che il Tempo non esiste, almeno per lui, e nei sotterranei del San Raffaele fa preparare a Don Verzè l’elisir dell’immortabilità. A godersi sul serio Villa Certosa o quella alle Bermude o le tante altre sparse per l’Italia e per il mondo non ci pensa nemmeno. Per lui sarebbe la morte. Perciò insiste a tenersi disperatamente attaccato alla poltrona, mentre tutto gli sta franando addosso, il suo partito, gli alleati, gli amici di un tempo.

A me, dico la verità, Berlusconi di questi ultimi, stanchi, giorni, fa tenerezza; benché, nel mio piccolo, gli sia avversario non da sedici anni ma da molto prima, dal 1988 quando, diventato presidente del Milan, presentò la squadra all’Arena di Milano con contorno di vallette, sciaquette della Tv, girl, cantanti alla moda, come se si trattasse del Super Bowl non del calcio, la nostra più importante manifestazione sportiva nazional-popolare, e scrissi per l’Europeo (3 agosto 1988) un pezzo che iniziava così: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio» (naturalmente ha vinto lui, come sempre).

Ma la tenerezza non è una categoria della politica. In questo partita, per Berlusconi, sono finiti anche i tempi supplementari. E i minuti di recupero sono agli sgoccioli. Dubito molto che ci sia il tempo per segnare, ancora, l’ultimo gol.

Massimo Fini