Il maestro Riccardo Muti che oggi ha 83 anni ha concesso una splendida intervista al Corriere per la firma di
Aldo Cazzullo che è bravissimo nei ritratti (memorabile quello di Albano) mentre diventa ‘cerchiobottista’
nei commenti com’è peraltro nella tradizione di quel quotidiano sia nella sua storia passata che in quella
più recente, scuola Mieli.
Fra le mille cose interessanti che dice il Maestro c’è che noi italiani siamo abilissimi nel non valorizzarci:
“Seul ha ventidue orchestre sinfoniche, di cui quattro nate negli ultimi anni. Noi ne abbiamo due.” E’ una
cosa che c’è in quasi tutti i campi. Prendiamo il vino. I francesi hanno il Beaujolais, il Bourgogne, noi l’infinità
di vini regionali che sono almeno pari se non migliori. Insomma non sappiamo venderci.
Quello musicale è un universo infinito non solo perché, come dice Muti, tutto è musica “fanno musica gli
uccelli che cantano, il tuono che rimbomba, il mare che si muove, le foglie che vibrano” ma perché la
musica è strettamente legata alla filosofia, è anzi filosofia (La nascita della tragedia: dallo spirito della
musica, Nietzsche).
Io sarei il meno autorizzato a parlar di musica perché come diceva mia madre, tanto per incoraggiarmi, ho
“un orecchio da elefante” e nelle gite scolastiche non osavo nemmeno unirmi ai compagni nei cori. Il mio
canto sarebbe così stridulo (dico sarebbe perché tuttora non oso cantare) da non essere accettato
nemmeno nel vastissimo e generoso universo musicale di Riccardo Muti. Però lo stesso Muti mi autorizza
ad avere un mio particolare universo musicale perché dice che bisogna “stare lontani dal competente”. Da
ragazzo, per imparare un po’, andavo al Conservatorio di Milano ma ne sono fuggito quasi subito: era zeppo
di “melomani” con i capelli lunghi fino al collo, alla Beethoven (cioè lontanissimi dai ‘cappelloni’ dei miei
tempi) melomani che sono più pericolosi dei cinefili e anche dei cinofili.
A me è sempre piaciuta la musica classica, in particolare Beethoven e oso dire che dopo la Nona e il Chiar di
luna si sarebbe potuto anche smettere di far musica. L’anarchico Bakunin, russo, il capofila del mondo
anarchico, diceva: “distruggeremo la borghesia ma salveremo comunque la Nona”. La borghesia non è stata
distrutta ma almeno la Nona ci è rimasta. Di Beethoven mi commuove anche il fatto che diventò sordo
all’età di trent’anni, cioè è l’unico che non ha potuto ascoltare la sua musica (il dio Fato, l’unico dio
esistente, è crudele: Beethoven l’ha fatto sordo, Galileo cieco e il più modesto Fogar che aveva nel suo Dna
il movimento, l’ha paralizzato).
Da ragazzo ascoltavo ovviamente la musica leggera italiana, sono figlio del mio tempo, ma soprattutto
quella americana perché è nei ghetti degli States che è nato il jazz che poi ha partorito il rock e tutta la
musica leggera, chiamiamola così, moderna. Un vantaggio era rappresentato dal fatto che al di là di “Elvis
the pelvis” uno dei più gettonati (era nato il Jukebox, invenzione fondamentale) era il canadese Paul Anka
che cantava un inglese molto elementare: “you are my destiny” lo capisce anche un bambino. Nelle scuole
italiane l’inglese si insegnava in modo canino, lo apprendevamo non da docenti madrelingua ma italiani e
quello che so oggi di inglese l’ho imparato viaggiando anche se l’inglese mi viene facile ascoltarlo se parlo,
poniamo, con un tedesco, ma mi diventa quasi incomprensibile se parlo con un inglese perché gli inglesi,
popolo coloniale da sempre, non si prendono nemmeno la briga di darti una mano. Basta che tu dica station con un
accento non perfetto e quelli non capiscono o fanno finta di non capire. La musica anglosassone di oggi, in
stretto slang digitale, non la capisco proprio.
Beethoven o Mozart? L’eterno dilemma. Appartengono a due mondi diversi. Mozart al Settecento e quindi
rappresenta la leggerezza del Settecento, Beethoven all’Ottocento e quindi alla profondità dell’Ottocento
tedesco che si esprime non solo nei suoi musicisti ma nei suoi pensatori, da Hegel a Kant a Fichte e
compagnia cantante, è il caso di dirlo. Ed è fatale che una grande cultura, una cultura che è arrivata
all’apice, e quindi paralizzata dall’impossibilità di andare oltre, finisca in un qualche orrore. Friedrich
Nietzsche è invece “hors catégorie” come si ci esprime in gergo ciclistico per indicare una montagna che
supera tutte le altre. Nietzsche non è del suo tempo, è nato postumo e a più di un secolo e mezzo dalla sua
morte non è solo tuttora attuale, ma è qualcosa di più perché il suo pensiero si proietta nel futuro.
La musica si connette strettamente alla scrittura. La scrittura è un’espressione musicale. Un buon articolo è
musicale. Non va appesantito con troppa cultura, cosa che inavvertitamente forse sto facendo anch’io
adesso. Mi spingo a dire che per un bel giro di frase, cosa in cui Montanelli era maestro, sono disposto a
cambiare, almeno in parte, l’orientamento del mio articolo.
Anche una musica che non ci piace, poniamo il rap e la trap, va ascoltata con molta attenzione perché
esprime un tempo, una generazione. Anche i cantautori - e noi ne abbiamo di grandissimi, da De André a
Battiato a Guccini a Ivano Fossati, e anche in questo siamo superiori ai francesi, che hanno solo Bécaud e il
pur grandissimo Jacques Brel ma quando è cantato da Battiato (“La canzone dei vecchi amanti”) vanno
ascoltati con altrettale attenzione, non tanto per il contenuto ma per la disposizione delle parole: perché ha
messo quell'aggettivo lì e non sopra o più in là?
Come ho detto in musica classica sono un incompetente e in ciò giustificato da Riccardo Muti. Ma non
tanto da non distinguere i “geni” come li chiama Fabio Capello da altri sia pur grandissimi. Ho avuto la
fortuna di ascoltare al piano, alla Scala, Arthur Rubinstein che suonava Chopin, e certamente era qualcosa
di molto diverso, di molto più alto, di quando Chopin lo faceva un altro. Più recentemente all’auditorium
Mahler, in un concerto dedicato a Mendelssohn, Schumann e Schubert, ho avuto la sorte di assistere alla
prestazione di un genio del violino, lo svedese Daniel Lozakovich. E’ giovanissimo, ha solo 23 anni. Ma ne
sentiremo sicuramente parlare in futuro. Magari dallo stesso Riccardo Muti.
8 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano