Caro Biondo,
sono d'accordo con lei, ma non del tutto. In una partita della Nazionale di non mi ricordo più quanti anni fa il commentatore Bruno Pizzul, bravissimo (anche se non all'altezza di Nicolò Carosio che non riconosceva i giocatori ma sapeva dare patos alle partite) osò chiamare 'negretto', in senso assolutamente positivo (la frase era più o meno "gioca bene questo negretto") l'ala destra dell'Inghilterra. Si scatenò un putiferio contro l'innocente e un po’ sbalordito Pizzul bollato come 'razzista'.
Sì, parlando in un senso più lato, stiamo diventando peggio degli americani, che è tutto dire. Se le gravi condizioni della mia vista non me lo impedissero me ne andrei volentieri altrove, in particolare in Corsica, isola bellissima abitata ancora da uomini veri (diciamo degli afgani in tono un po' minore). Non posso lasciare l'Italia, ma posso lasciare il giornalismo, un mestiere inutile quando non complice, tranne rarissime eccezioni, del Potere, di qualsiasi Potere purché sia quello del momento. Addebito alla classe intellettuale italiana, più che alla politica, le condizioni in cui ci siamo ridotti.
Un caro saluto dal suo Massimo Fini
Sabato, 3 settembre 2016
Non credo affatto che l’attentato di Gaziantep sia dell’Isis. Non solo, e non tanto, perché l’Isis, che punta a mettere il suo cappello anche sull’incendio di un pagliaio, non l’ha rivendicato, come non ha mai rivendicato nessun attentato avvenuto in territorio turco, ma perché nella estremamente complessa situazione mediorientale dove tutti sono, almeno in apparenza, contro l’Isis e l’Isis è contro tutti, il movimento indipendentista curdo è l’ultimo che può interessare gli uomini di Al-Baghdadi (anzi gli fa gioco perché contribuisce ad alimentare il caos in cui l’Isis sguazza) così come poco gli interessa colpire la Turchia che a lungo ha fatto il doppio gioco, e probabilmente continua a farlo, fingendo di combattere Isis ma in realtà per picchiare più comodamente sui curdi. Tra l’altro sul fronte siriano curdi e guerriglieri di al-Nusra (una dependance dell’Isis) sono oggettivamente alleati perché combattono, insieme agli altri insorti, contro il regime di Assad, sia pur per motivi diversi. I curdi per riprendersi una parte del proprio territorio occupato arbitrariamente dalla Siria, i jihadisti per cercare di sfondare su quel fronte o quantomeno per tentare di ritardare l’avanzata della coalizione anti-Isis verso il territorio del Califfato. È anche vero però che nel generale rimescolamento delle carte i peshmerga curdi e i pasdaran iraniani combattono in Libia contro Isis. E in Libia i curdi non hanno interesse alcuno. È un generoso regalo che i curdi, straordinari combattenti ma politicamente sprovveduti (basta pensare alle loro decennali divisioni interne fra il PKK di ispirazione comunista e gli altri indipendentisti che oggi sono riuniti sotto la sigla TAK) fanno all’Iran che li ha sempre massacrati (la prigione di Evin, a Teheran, è sempre stata piena di detenuti curdi) e agli americani che pure li hanno sempre osteggiati in funzione dell’alleato turco.
Tuttavia io penso che quello di Gaziantep sia un auto attentato organizzato da Erdogan che, come abbiamo visto, è ormai capace di tutto. In primo luogo perché lo pensano gli stessi curdi di Gaziantep che dopo l’attentato hanno gridato “assassino, assassino” riferendosi a Erdogan e alla delegazione del suo partito (AKP). Inoltre perché molto sospetta la precipitosa attribuzione, da parte di Erdogan, dell’attentato all’Isis che gli permette di continuare nel doppio gioco di fingere di combattere Isis per poter colpire con mano libera, e meno decifrabile, i movimenti indipendentisti curdi. Perché per la Turchia il vero pericolo non è né Assad né Isis, ma sono i circa 12 milioni di curdi che vivono al suo interno, che bramano l’indipendenza e che da sempre sono repressi nel modo più brutale dal governo di Ankara. Ed è una delle vergogne del governo D’Alema l’aver consegnato il leader del PKK Ocalan, che si era rifugiato a Roma chiedendo un asilo politico che gli era dovuto, alla Turchia e alle sue famigerate prigioni in cui è tuttora rinchiuso (qualcuno ricorderà forse lo splendido film Fuga di mezzanotte).
In realtà una parte del caos mediorientale, e non solo, si potrebbe spiegare con la politica anti curda del governo di Ankara sostenuto in questo dagli Stati Uniti. Per molti decenni la Turchia è stato l’alleato privilegiato degli americani nella regione, molto più dell’Europa, sia per la sua posizione geografica e orografica (è una grande portaerei naturale in mezzo al Mediterraneo e gli USA vi mantengono tuttora, anche se i legami si sono fatti più complicati, la fondamentale base aerea di Incirlik).
Nel 1988 Saddam Hussein, allora cripto alleato degli Stati Uniti, ‘gasò’ in un sol colpo nella cittadina curdo-turca di Halabaya cinquemila civili e quel gas gli era stato fornito, oltre che dalla Francia e, via Germania Est, dall’URSS, dagli stessi Stati Uniti. E che cosa fecero gli americani, questi riparatori di torti, questi giustizieri della notte, questi scrupolosissimi difensori della legalità internazionale, questi vessilliferi dell’ordine morale? Fecero finta di nulla. Spiegò allora il giornalista Safire del New York Times: “Parte del compenso per la collaborazione di Ozal (allora il premier turco, ndr) nel concederci una base aerea consiste nella garanzia che non avremmo incoraggiato il nazionalismo curdo. Probabilmente gliela abbiamo data: svendere i curdi, anche dopo Halabaya, è una specialità del Dipartimento di Stato americano”.
Anche la inesplicabile e illegittima guerra alla Serbia di Milosevic per il Kosovo si può spiegare (oltre che con la volontà di togliere di mezzo l’ultimo stato paracomunista rimasto in Europa) in funzione pro Turchia. Era intenzione degli americani di creare nei Balcani una striscia di musulmanesimo moderato (Kosovo + Bosnia + Albania) a favore della Turchia, laica ma anche musulmana sia pur all’acqua di rose. Come dalla guerra all’Iraq del 2003 anche questa operazione gli è girata in culo, agli americani e soprattutto a noi europei: oggi in Kosovo, in Bosnia, in Albania ci sono basi (Bosnia) e cellule jihadiste nel centro dell’Europa, pronte a colpirci in ogni momento.
Quindi se le modalità dell’attentato di Gaziantep sembrano Isis (anche se poi il governo turco ha dovuto smentire che si trattasse di un bambino kamikaze) è molto probabile che alle sue spalle ci sia, in modo diretto o indiretto, Recep Tayyip Erdogan. Colpevolizzare l’Isis fa comodo a tutti, farlo con Erdogan disturba i russi, gli europei e soprattutto gli americani che a loro volta in Medio Oriente, non diversamente da tutti gli altri protagonisti di questo conflitto, fanno un doppio e triplo gioco. Sono contro Assad sostenuto dai russi ma sono anche alleati ai russi, non gli piace il governo di Erdogan ma sono costretti a tenerselo ben stretto perché è un alleato strategicamente troppo importante.
Bisogna malinconicamente concludere che in Medio Oriente e altrove c’è una sola forza che ha obiettivi chiari e non parla con lingua biforcuta: l’Isis.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano del 24 agosto 2016
Ascoltavo l’altra sera “Put your head on my shoulder”. Paul Anka, insieme ai Platters (Only you), è stato il primo dei grandi cantanti o complessi americani che hanno cambiato la storia della musica leggera ad arrivare in Italia perché, in una curiosa inversione dei tempi, precedette Presley, Jerry Lee Lewis, Little Richard, cioè i campioni del rock, che negli States erano nati prima. Con Diana vendette 9 milioni di copie, una cifra enorme per allora perché il mercato era molto più ristretto. Poi vennero i successi di You are my destiny e di Crazy love. Anka sbarcò fisicamente in Italia nel 1961, al Lirico di Milano. In quel teatro zeppo fino all’inverosimile noi ragazzi assistemmo ad una scena sbalorditiva: mentre cantava Crazy Love le nostre compagne del liceo, che in classe portavano ancora il grembiule nero (il burqua di quei tempi) trafficando sotto le loro caste camicette tirarono fuori i reggiseni e li gettarono sul palcoscenico ai piedi del cantante, tra l’altro piuttosto bruttino.
Invece chi in Italia, in contemporanea con Anka e i Platters, ci sbarazzò della dittatura dei Claudio Villa, dei Luciano Tajoli, delle Nille Pizzi è stato il dimenticato Tony Dallara che con i suoi Campioni si esibiva al Santa Tecla, vicino alla Statale, dove è passata tutta una generazione di cantautori, di menestrelli, di comici da Jannacci in giù. Dai Platters Dallara aveva preso il singhiozzo (“Co-ome prima”, “Ti-idirò”), di suo ci aveva messo l’urlo. Erano nati gli ‘urlatori’ con grande scandalo delle nostre mamme. La prima Mina (Tintarella di luna) e il primo Celentano imitavano Dallara.
A cambiare tutto fu il juke box. Mentre prima era il gestore della discoteca, che non si chiamava ancora così, e dei Bagni, quelli dei Vanzina con la rotonda umbertina, a mettere i dischi cercando di intuire i gusti dei ragazzi, adesso eravamo noi a scegliere inserendo una moneta da 100 lire in quella magica fessura che dava diritto a selezionare tre canzoni. E in quel 1958 noi ne gettonavamo, ossessivamente, solo tre: Diana, Only You e Come prima.
Stavo quindi ascoltando, l’altra sera, “Put your head on my shoulder”. Dolcezza di quel tenero abbandono sulla spalla di lui. Erano tempi in cui le ragazze, sempre quelle del grembiule, sferruzzavano per regalarti un maglione fatto con le loro manine sante, pegno di un innamoramento eterno (“Il pullover che mi hai dato tu/sai mia cara possiede una virtù”, Gianni Meccia) che sarebbe svanito di lì a poco, com’è in ogni amore adolescenziale. Ascoltavo e mi passavano per la mente pensieri proibiti. Mi chiedevo se quello stesso gesto, il capo di un ragazzo abbandonato sulla spalla del compagno, abbia oggi lo stesso senso. Tutti i razzisti premettono ai loro discorsi che non sono razzisti. E così gli omofobi. Io però spero di non essere sospettabile, ho dichiarato la mia parte di omosessualità (del resto, come è noto, in ogni persona, uomo o donna che sia, c’è un maschile e un femminile, sia pur combinati in proporzioni diverse) nella mia autobiografia, Una vita. Mi è sempre piaciuto osservare anche i bei ragazzi e se mi sono platonicamente innamorato di Nureyev, di Delon, di Laurent Terzieff (Peccatori in blue jeans, Kapò, Il deserto dei tartari) non è solo per la loro bravura ma anche per il loro fascino. Dovrebbe essere ovvio che ognuno ha il diritto di agire la propria sessualità come meglio crede, seguendo i propri istinti, i propri gusti, i propri sentimenti. Oserei anzi dire che, in una cultura occidentale, quello alla libertà sessuale è il primo, il più basico, dei diritti.
Tuttavia mi pare che nell’evidente ed esponenziale aumento dell’omosessualità, sia maschile che femminile, proprio in Occidente, vi sia qualcosa di anomalo e di preoccupante. Molte non sono omosessualità naturali ma, per così dire, ‘di ritorno’. L’uomo, che per quanto si vanti e si glori ha sempre avuto paura della donna per quella fenditura da cui nasce la vita e il mistero, è oggi ulteriormente intimorito dall’aggressività di lei. Che non ti appoggia più teneramente la testa sulla spalla e tantomeno ti fa un maglione. Da che mondo è mondo la donna non seduce ma si fa sedurre. Insomma è stata sempre lei a condurre il gioco, ma in modo più malizioso e meno sfacciato. Una donna che si offre spudoratamente fa cadere ogni libido.
L’omosessualità delle donne è più nascosta, come più nascosto è il loro sesso (alzi la mano l’uomo che nel suo immaginario onirico non ha sognato di vedere, dal buco della serratura, due donne che si fanno, e gli sarà immediatamente tagliata). Comunque anche l’omosessualità femminile è in crescente aumento e non solo perché, come quella maschile, è stata sdoganata (vedi la nuotatrice Rachele Bruni alle recenti Olimpiadi). Credo che si tratti di un gioco di controspecchi. L’uomo, sempre più innamorato di sé, sempre più narciso, si è eccessivamente femminilizzato. Tien cura del proprio corpo come una donna, si depila, si deodora, si cosparge di creme, frequenta, al pari di lei, le beauty farm. Inoltre non ci sono più le occasioni per dimostrare la propria virilità e il proprio coraggio (la donna non ha bisogno di dimostrare coraggio, ce l’ha quando occorre, essendo antropologicamente preparata al parto), non fa più la guerra, non esiste più un orgoglio nazionale, la forza fisica, sostituita dalla tecnica, ha perso ogni importanza, serve al più per svitare i tappi delle bottiglie di acqua minerale o per mettere le valigie sulle reticelle dei treni. Ha perso vitalità. Un uomo-femmina interessa molto poco le donne dal punto di vista sessuale. Tanto vale, per dirla brutalmente con Céline, che “se la divorino tra di loro”.
Ma in fondo che importanza ha questo aumento ambosessi dell’omosessualità se ognuno ci trova il proprio gusto? Ce l’ha. Perché i figli hanno il brutto vizio di nascere come sempre e le modalità per procrearli, a parte qualche tecnica algoritmica che può essere alla portata solo di pochi, risalgono all’alba del mondo. La natività occidentale è scesa a livelli bassissimi (l’Italia, se non mi sbaglio, è agli ultimissimi posti in questa speciale classifica). Gli altri, quelli che tanto temiamo, fanno figli come conigli ed è impensabile di spazzarli via tutti a colpi di droni. Prima o poi ci sommergeranno.
“L’estate sta finendo” (ma chi la cantava?) e induce a pensieri malinconici. Ne chiedo venia alle lettrici e ai lettori del Fatto.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano del 20 agosto 2016