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Milano è una città di merda, abitata da una media borghesia di merda da quando i ceti popolari, più o meno all’epoca del boom, sono stati espulsi per andare a vivere nell’immenso hinterland, luoghi che di paese hanno solo il nome e a volte nemmeno una piazza o una chiesa.

Si calcola che ogni giorno entrino a Milano un milione e 300 mila abitanti dell’hinterland e altrettanti se ne vadano a sera alla chiusura degli uffici. Il risultato è che Milano ha perso la sua socialità. Di sera la città è deserta, sia per quel milione e passa che se n’è andato sia perché i milanesi dopo una dura giornata di lavoro (ed è indubbio che nel capoluogo lombardo si lavori seriamente perché il lavoro sta nel dna dei milanesi che ne hanno fatto una mistica) non hanno voglia di uscire e di andare a infilarsi in quel poco di movida che c’è. La desertificazione di Milano dopo le otto di sera crea quel clima di insicurezza che si respira in città. Perché manca il controllo sociale. Diversa è la situazione a Roma dove i romani sia per il clima sia per il loro dna escono la sera. Diciamo in estrema sintesi: a Milano si lavora, a Roma non si fa un cazzo.

A causa della desertificazione sono spariti i negozietti, le botteghe artigianali e anche attività tradizionali dell’alimentare come il fruttivendolo o il macellaio o il salumiere (per fare un esempio di vita da me vissuta: nel mio quartiere ci sono un panificio, un fruttivendolo e un minimarket, se ho bisogno di un martello devo rivolgermi a eBay). Al loro posto ci sono enormi supermarket dove le commesse fiaccate da un anonimo e massacrante lavoro non hanno il tempo e nemmeno la voglia di fare due chiacchiere. E’ la stessa ragione per cui i cinema, ma questo discorso vale in generale anche se qui il fenomeno è più acuto, si sono molto ridotti in città, da 160 negli anni Sessanta agli attuali 29. Recentemente sono stato all’Orfeo a vedere Babygirl, il film detestato dal bacchettone Travaglio, e c’erano solo otto spettatori. Ma anche il cine è un momento di socializzazione perché sei con altri spettatori, senti i loro commenti e dopo, magari, ti fermi sul marciapiede per commentare. Altra cosa è vedere un film standotene seduto comodamente a casa perché puoi farlo grazie a Netflix.  

A Milano c’è un traffico allucinante, come a Roma ma con minori giustificazioni di Roma. Milano è tutta piatta, Roma “la città dei sette Colli”, no. Le piste ciclabili si potevano fare già mezzo secolo fa, e fare quindi della bici un mezzo di locomozione come ad Amsterdam. Si sono fatte adesso, troppo tardi, per cui formano imbuti per il traffico delle automobili. Il traffico diventa poi totalmente insostenibile se ci sono grandi eventi come la moda o il mobile. In quei giorni è praticamente impossibile trovare un taxi, cosa già difficile in tempi normali, bisogna affidarsi ai mezzi e in questo Milano con le cinque linee di metro più il passante resta un’eccellenza.

Milano a differenza di Roma ha già di per sé pochissimi parchi pubblici, i Giardini Montanelli, il Parco Sempione, Trenno e qui ci si ferma. In realtà ci sono nel centro molti giardini privati, me ne resi conto una volta che sorvolavo Milano con un aereo da turismo (adesso non si può più fare) ma quelli se li godono solo gli abitanti di quei ricchi edifici. Come se ciò non bastasse Milano è vittima, come ha documentato Gianni Barbacetto, ma non solo lui, di una cementificazione selvaggia. Scrive Barbacetto: “I dati ufficiali Ispra dicono che a Milano tra il 2019 e il 2020 sono stati impermeabilizzati ben 935 mila metri quadrati e che nel 2023 sono stati consumati altri 190 mila metri quadrati, l’equivalente di 26 campi di calcio” (il Fatto, 14.2). Come se ciò non bastasse le proprietà di Milan ed Inter, americane, vogliono abbattere San Siro che per noi milanesi è come abbattere il Duomo, anzi peggio, e costruirvi attorno il solito gozzillaio di hotel superlusso, centri congressi, eccetera, andando quindi ad intaccare e quasi a cancellare il Parco Trenno dove ci sono le piste di allenamento per i galoppatori (il trotto è sparito) come quella “alla Maura” in particolare. E’ un’area, quella, molto particolare perché sei a Milano e insieme fuori Milano, dove si respira ancora un profumo di erba e di campagna e dove c’è il Cemetery, cioè il cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati del Commonwealth, dei ragazzi di vent’anni o poco più, fra cui sudafricani, i ‘razzisti’ sudafricani a cui dobbiamo anche a loro la liberazione dal nazifascismo, “venuti a morire inutilmente per la libertà d’Europa” (Curzio Malaparte).

Scriveva Dino Buzzati nel 1958 e quindi prima di Celentano (Il ragazzo della via Gluck) e di Barbacetto: “Ma nulla la città odia quanto il verde, le piante, il respiro degli alberi e dei fiori” (Il tiranno malato).

E il clima, vogliamo parlare del clima? Milano è una città mefitica, dove il tasso di umidità è quasi sempre vicino al novanta per cento e oltre e dove l’aria che si respira è quella dello scappamento delle auto. Luglio è il mese più tremendo. Non tira un alito di vento, chi può se ne fugge ai laghi o al mare. E chi non può, quasi sempre anziani con poca lira a disposizione, quasi sempre single perché Milano è una città di solitudini a due ma più spesso ad uno? Ascolta, col batticuore, le sirene delle autoambulanze che scorrazzano in una città finalmente liberata dal traffico e si dice: “se le sirene non sono per me questa volta, sarà la prossima”.

 

30 marzo 2025, il Fatto Quotidiano

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E’ di moda di questi tempi che quando c’è qualcuno che insidia il Potere in una dittatura in un’autocrazia ma anche in una democrazia si cerchi di fermarlo aggrappandosi a ogni sorta di cavillo giuridico che ne nega la legittimità e quindi autorizza di conseguenza contro costui e i suoi sostenitori la violenza. E’ successo in Romania dove Calin Georgescu, filorusso, sulla via di una sua probabile elezione a presidente è stato stoppato con l’accusa di aver utilizzato per la sua propaganda elettorale TikTok e quindi andando poi a vedere come si era procurato i mezzi per utilizzare TikTok. Ci sono state manifestazioni di massa a favore di Georgescu ma inutilmente. Succede in Ucraina dove Zelensky la cui popolarità è in netto calo per aver perso la guerra con la Russia si rifiuta di indire elezioni col pretesto che il Paese è in guerra, ma in Gran Bretagna Winston Churchill fu eletto Primo ministro nel pieno di una guerra ben più importante e devastante di quella russo-ucraina. E’ successo, in un certo senso, anche negli Stati Uniti dove Donald Trump è stato messo sotto inchiesta dalla Magistratura per aver pagato una showgirl e non aver preso le distanze da coloro che avevano assaltato Capitol Hill. Ma The Donald, è stato protetto dalla sua stessa elezione a Presidente per cui si è procurato un’immunità di fatto.

Succede in queste settimane nella Turchia del tagliagole Recep Tayyip Ergogan, che da quando è al potere ha messo in soffitta la Turchia laica di Atatürk. Ma in questo caso c’è qualche possibilità che il tiranno possa saltare perché l’ha combinata troppo grossa. Dico “qualche” possibilità, cioè una ridotta possibilità, perché la Turchia è membro della Nato e in Turchia a Incirlik c’è la più grande base aerea yankee. E quando ci sono di mezzo gli americani si sa come va a finire, quasi sempre, anche se non sempre perché in Afghanistan, dopo vent’anni di occupazione, gli yankee sono stati cacciati a pedate nel culo. Ma questa volta Erdogan l’ha fatta troppo grossa tanto da meritarsi, udite udite, una reprimenda della Ue: “Gli arresti del sindaco Imamoglu e di oltre 300 manifestanti sollevano seri interrogativi sul rispetto, da parte della Turchia, della sua consolidata tradizione democratica”. A parte quella “consolidata tradizione democratica”, che fa venire in mente il ridere perché la Turchia non è democratica dalla fine dei tempi di Atatürk, quasi un secolo fa. Ma Erdogan questa volta l’ha fatta troppo grossa. Ha arrestato per “corruzione e finanziamento al terrorismo” Ekrem Imamoglu che non è l’ultimo della pista visto che è stato eletto per due volte sindaco di Istanbul, una città di più di quindici milioni di abitanti. E dalla parte di Imamoglu stanno anche passando molti elettori dell’Akp, il partito di Erdogan che sorvolato l’acronimo vuol dire beffardamente “Partito della giustizia e dello sviluppo”. Particolarmente proterva è l’accusa a Imamoglu di “essere un finanziatore del terrorismo”. Ora proprio un mese fa il leader del Pkk, il partito indipendentista, di ispirazione laica e marxista, Öcalan, tuttora detenuto nelle prigioni turche, ha dichiarato la “smilitarizzazione” del suo movimento e quindi di conseguenza la rinuncia alla lotta armata. Anche se la questione resta incerta perché il Pkk è legato come dice il suo stesso nome, Partito dei lavoratori del Kurdistan, ai curdi, cioè i soli che avrebbero diritto a governare in quel territorio che non per nulla si chiama Kurdistan. Ma i curdi, anche per le loro divisioni interne, sono fragili e comunque come ha scritto sul New York Times il giornalista William Safire: “Svendere i curdi è una specialità del dipartimento di Stato americano”. Lo si è visto anche di recente quando furono determinanti, perché sul terreno sono fra i combattenti migliori del mondo, insieme all’aviazione americana, nello smantellamento del Califfato di al-Baghdadi (2019). Invece di ringraziarli, in Iraq, dove vive una consistente minoranza curda, furono ulteriormente oppressi dall’Iraq allora governato da un fantoccio americano, anche se di estrazione curda. Inoltre i curdi non hanno santi in paradiso, non sono ebrei, non sono cristiani sono sì islamici ma di un islamismo che si è sovrapposto e imposto su una cultura “tradizionale”, come è avvenuto in Afghanistan. E comunque si è mai sentita levarsi una voce nel mondo, Papa compreso, a favore dei curdi? (“Chi si ricorda dei poveri curdi?”, 2010).

Una divagazione a parte, se così si può dire, merita la storia di Abdullah Öcalan, il leader del Pkk. Dopo varie traversie, che lo spazio non ci consente di riassumere qui, Öcalan si era rifugiato in Italia. Presidente del Consiglio era Massimo D’Alema che si rifiutò di concedergli l’asilo politico e con l’appoggio degli americani e degli israeliani, che non mancano mai, questi ultimi, nelle operazioni più turpi, fu rispedito nel 1999 nelle prigioni turche. Che cosa siano le prigioni turche, e non credo proprio che la situazione sia migliorata con Erdogan, ce lo racconta benissimo il film Fuga di mezzanotte del 1978 per la regia di Alan Parker. Billy, un americano accusato di traffico di stupefacenti, passa anni nella prigione di Sağmalcılar dove ne succedono di ogni sorta, in un crescendo di violenza, fra guardie, kapò, chi tenta di fuggire e spie. Dopo un tempo di prigionia che sembra infinito, Billy può finalmente ricevere la sua fidanzata Susan. Ma al di là di un vetro di pesante cristallo. E allora lei, scostandosi la camicetta, gli mostra il bel seno nudo. Un’immagine commovente. Perché se è vero che la forza muove il mondo e non i sentimenti, sono i sentimenti, anche nei frangenti tragici, anzi proprio in questi, che danno un senso alla nostra vita.

 

26 marzo 2025, il Fatto Quotidiano

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C’è allarme per l’aumento del gioco d’azzardo determinato soprattutto dalla possibilità che oggi si può giocare online senza dover andare in sala corse o al Casinò o all’ippodromo. Oltre a ragioni fiscali che qui non ci interessano perché è presupposto che gli allibratori paghino le tasse come tutti gli altri, l’allarme è determinato dal fatto che il giocatore può diventare ludopatico cioè diventare un addicted del gioco. La ludopatia è una malattia molto moderna mai riconosciuta come tale fino a tantissimi anni fa. Le grandi organizzazioni dell’azzardo online per lavarsi la coscienza ed evitare ulteriori strette governative sul gioco ammoniscono di “giocare responsabile”. E’ un ossimoro perché l’azzardo è di per sé irresponsabile altrimenti non si chiamerebbe azzardo. Premetto che, secondo me, ciascuno è libero di rovinarsi la vita come più gli piace e non per nulla il Codice Penale non punisce l’ultima tappa di questa autodistruzione, il suicidio. 

Per capire il giocatore d’azzardo bisogna cercare di entrare nella sua psicologia. Anche se il gioco d’azzardo prevede l’impiego di soldi (altrimenti si trasforma in un gioco privo d’attrattive e per niente divertente, tipo burraco che lasciamo volentieri alle signore di una certa età) non vi si gioca per soldi, per guadagnare dei quattrini dato che il giocatore è necessariamente un perdente contro il banco il quale trattiene per sé circa il 60 per cento della vincita. 

Il poker, intendo il poker normale a cinque carte e non il texas hold ’em che abbiamo ereditato dagli Stati Uniti, è il meno d’azzardo dei giochi d’azzardo, perché vi contano la perfetta conoscenza delle regole e della tecnica del gioco, la psicologia, in un tavolo nuovo devi capire il più rapidamente possibile quella dell’avversario, quella cosa misteriosa che si chiama ‘presenza al tavolo’, misteriosa come il carisma per cui l’avversario ti deve temere sempre anche se non hai niente in mano, ed è quindi uno scontro di personalità, aggiungo anche che il vero giocatore deve giocare allo stesso modo, senza che sul suo viso, imperturbabile, appaia emozione alcuna, sia che la puglia sia di diecimila euro o di un milione (ho visto bravissimi giocatori, alcuni dei quali mi hanno insegnato il poker, perdere tutta la loro abilità man mano che si alzava la posta). In tutti i restanti giochi, roulette, chemin, blackjack, tutto è affidato al caso o a un fumosissimo calcolo delle probabilità, è chiaro che se alla roulette è uscito 18 volte il rosso alla diciannovesima la pallina volerà sul nero. 

Nel poker non hai mai un punto sicuramente vincente: la scala reale massima viene battuta dalla minima. C’è solo un caso, ma è di scuola, in cui esiste questa sicurezza: tu hai due dieci in mano, con gli scarti ti entrano altri due dieci e, poniamo, un asso mentre tu hai scartato un re, una regina, un fante e quindi tutte le Scale reali sono tagliate fuori non esistendo, a differenza del texas, la possibilità di un poker di cinque. 

Il vero giocatore, e questo apparirà ancora più curioso, non vuole vincere ma, almeno inconsciamente, perdere. Poiché questo gli movimenta la vita. Quante volte ho visto il mio ‘compagno di merende’ di allora, che chiamerò prudentemente DB, uscire dal casinò di Campione, passare deluso, perché aveva vinto, sotto quell’arco che sembra dire, quando lo si imbocca all’inizio della serata, “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

Comunque poiché gioca col denaro ma non per il denaro, ogni occasione sarà buona per sperperare subito quanto ha vinto. In altri giochi, alle corse dei cavalli, gli “stramaledetti quadrupedi”, e persino alla pelota. C’è poi una legge ‘gravitazionale’, per dirla con Battiato, per cui tu la prima volta che entri in un Casinò vinci e questo ti incoraggerà a giocare ancora e sarà la tua perdizione. Ho già raccontato la storia di “monsieur douze”, giocava solo sul 12 e vicini, che entrato la prima volta, titubante, al casinò di Campione vinse una cifra strabiliante e in seguito perderà tutto, non solo quello che aveva vinto, ma la casa, la famiglia, le figlie, tutto.

Il vero problema del gioco d’azzardo online non è che possa indurre alla ludopatia ma che rompe la comunità. Prima per poter giocare dovevi andare in Sala corse, per fare la schedina del Totocalcio dovevi andare al bar oppure per giochi più popolari, come i dadi, scendere in strada. Oggi stai a casa e giochi online. In un certo senso è la stessa storia del cinema e di Netflix dove puoi vedere tutti i film che vuoi restando a casa. E’ la storia del biliardo sostituito dalle slot. Ma sono fatti del tutto diversi, una cosa è giocare al biliardo con altri giocatori, altra è appiattirsi sulle slot che hanno sbaragliato il biliardo perché occupano meno spazio e rendono di più, una cosa è entrare in un cinema insieme ad altri spettatori di cui puoi sentire i commenti e poi magari continuare la chiacchiera fuori altra è farsi una solipsistica sega. E tutto questo ha a che fare con qualcosa di più grande, di più grave e di più serio: la solitudine dell’uomo moderno. 

 

23 marzo 2025, il Fatto Quotidiano