Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza (oltre ad aver lavorato per anni in Afghanistan come inviato di PeaceReporter è stato in Pakistan, Cecenia, Nord Ossezia, Bosnia, Georgia, Sri Lanka, Birmania e Filippine) ha scritto un libro Afghanistan 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio pubblicato dalla Casa Editrice Arianna, coraggiosa ma sufficientemente piccola perché questo libro possa passare quasi inosservato. Contiene infatti informazioni, puntualmente documentate, che dovrebbero far arrossire di vergogna i Paesi che hanno invaso l’Afghanistan e ancora lo occupano dopo oltre 14 anni di guerra.
Nel luglio del 2001 il Mullah Omar proibì la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio e poi, raffinato, l’eroina, un provvedimento che è noto a tutti gli addetti ai lavori ma che sui giornali occidentali e in particolare su quelli italiani è sempre stato ignorato o trattato di sfuggita (per quello che riguarda l’Italia mi ricordo solo un timido e anche un po’ contorto accenno di Sergio Romano sul Corriere). Da quando aveva preso il potere nel 1996 il Mullah Omar, interprete rigoroso del Corano, aveva dato una speciale licenza temporanea non per l’uso dell’oppio in Afghanistan, ma per la sua esportazione all’estero. Il ricavato serviva infatti al governo talebano per comprare generi di prima necessità dal Pakistan in un Paese che era stato impoverito da dieci anni di occupazione sovietica e dai quattro anni di conflitto civile cui gli stessi talebani avevano posto fine nel 1996 cacciando oltre confine i ‘signori della guerra’ cioè i vari Massud, Dostum, Ismail Khan e compagnia cantante. Ma riassestato un po’ il Paese Omar aveva deciso di farla finita col traffico dell’oppio di cui il Corano proibisce sia l’uso che lo smercio. Per Omar questa decisione era difficilissima perché colpiva soprattutto la base del suo regime cioè i contadini, cui andava peraltro solo l’1 per cento del ricavo del traffico e gli autotrasportatori. Però il grande prestigio di cui godeva in Afghanistan gli permise di prendere questa misura e di convincere i contadini, a volte con azioni assai spicce, a convertire la coltivazione del papavero con altre coltivazioni. Fatto sta che nel 2002 (anno in cui rileva la decisione del 2001) la produzione di oppio in Afghanistan crollò a 185 tonnellate. Oggi ci sono punte di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno e l’Afghanistan produce il 93% dell’oppio mondiale. Come mai visto che fra gli obbiettivi della coalizione Isaf, oltre a portare la democrazia, ‘liberare’ le donne, eccetera, c’era quello di sradicare il traffico di stupefacenti, cosa cui peraltro, come abbiamo detto, aveva già provveduto il Mullah Omar?
Le ragioni sono principalmente due. La prima è che per combattere i Talebani i contingenti Nato (soprattutto americani, inglesi, canadesi) non bastandogli l’enorme superiorità militare (aerei, droni, bombe all’uranio impoverito e sofisticatissimi strumenti tecnologici) si sono alleati con i ‘signori della droga’ che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese o innocuizzato, così come aveva fatto con le bande di predoni che durante la guerra civile avevano infestato l’Afghanistan (come mi ha raccontato Gino Strada nell’Afghanistan talebano si poteva girare tranquillamente anche di notte, bastava rispettare, com’è, o come dovrebbe essere, in ogni Paese, la legge).
La seconda, anche più grave, è che sono gli stessi militari Nato i protagonisti di buona parte di questo traffico di droga. I militari, insieme ai soldati del cosiddetto esercito ‘regolare’ e la corrottissima polizia (del resto tutto l’apparato istituzionale afgano oggi è corrotto, dal governo, ai ministri, ai governatori, ai magistrati giù giù fino all’ultimo funzionario) entrano nelle case e nei terreni dei contadini poveri, gli portano via l’oppio (unica risorsa rimasta a questi disgraziati) con la violenza, ma con la scusa che stanno facendo la lotta al traffico di stupefacenti, e poi vanno a raffinarlo in eroina nelle raffinerie che un tempo erano oltre confine e oggi sono a decine nello stesso Afghanistan. L’agenzia Fars News Agency ha dichiarato: “Nella sola provincia di Helmand è pieno di laboratori per la produzione di eroina, che prima dell’intervento americano non esistevano e che ora lavorano alla luce del sole”.
Naturalmente nella vulgata l’esponenziale aumento del traffico di droga è addebitato ai guerriglieri talebani. Certo, anche i Talebani, oggi partecipano al traffico della droga per procurarsi armi e mezzi di sostentamento, ma la loro partecipazione al traffico globale di stupefacenti in Afghanistan è del 2%.
C’è poi la famigerata Kandahar Strike Force, la milizia paramilitare addestrata e armata dalle forze speciali USA che ha sede nell’ex palazzo del Mullah Omar alla periferia di Kandahar e che dà la caccia ai talebani seminando il terrore tra la popolazione con rapimenti, torture, omicidi e stupri. Naturalmente anche questi ‘rapimenti, torture, omicidi e stupri’ vengono addebitati dai media occidentali ai talebani.
Enrico Piovesana ha focalizzato il suo libro su quanto è successo in Afghanistan dopo il 2001 solo sul traffico di droga. Questo era il suo obbiettivo. Ma naturalmente in un reportage più ampio ci sarebbero da documentare le centinaia di migliaia di civili uccisi sotto i bombardamenti Nato, le migliaia di afghani che si sono ammalati di cancro a causa dell’uranio impoverito e le altre migliaia di bambini nati focomelici.
Nel suo reportage Piovesana, forse per carità di patria, non ci dice se anche il contingente italiano partecipa a questo turpe commercio. Però cita un episodio che fa pensare che noi italiani non si sia affatto estranei. Nel 2011 le accuse dell’ex caporalmaggiore Alessandra Gabrieli “non solo rivelano l’uso di droghe tra i militari italiani di ritorno dal fronte, ma adombrano addirittura il loro coinvolgimento nel traffico di eroina dall’Afghanistan, l’imbarazzo della Difesa è forte, e l’allora ministro Ignazio La Russa, preferisce non rilasciare commenti, in attesa dello sviluppo delle indagini”. Di cui non si saprà più nulla.
Questa è la situazione dell’Afghanistan dopo 14 anni di guerra di ‘liberazione’. Noi l’abbiamo denunciata tante volte, in un libro (Il Mullah Omar, del 2011), in articoli sul Fatto e su altri giornali, ma preferiamo lasciare le conclusioni al giornalista americano Eric Margolis dell’Huffington Post: “Quando verrà scritta la storia di questa guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina e la sua alleanza con i signori della droga sarà uno dei capitoli più vergognosi”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2016
La Festa della Liberazione ha avuto quest’anno uno scarso seguito popolare (piazza Duomo, per fare un esempio, era ad esser generosi vuota a metà rispetto a certe adunate oceaniche di qualche tempo fa). Anche i giornali, in linea di massima, si sono adeguati a questo disinteresse e alcuni, come Il Tempo di Roma, hanno concluso drasticamente: “Liberateci dalla Festa della Liberazione”. La Resistenza, che va scritta rigorosamente in maiuscolo, è stata uccisa dalla asfissiante e per niente innocente retorica di cui è stata per decenni caricata.
Dal punto di vista militare la Resistenza, come il maquis francese, fu un fatto irrilevante all’interno di quella grandiosa e tragica epopea che è stata la Seconda guerra mondiale, costata 50 milioni di morti. Fu il riscatto morale di poche decine di migliaia di donne e di uomini coraggiosi, non di una popolazione e di una Nazione. Non siamo stati noi a liberarci dal nazifascismo, ma gli Alleati, gli americani, gli inglesi, i canadesi, i neozelandesi e persino i razzisti sudafricani (si vada a vedere il lindo e commovente Cemetery World a Milano che conserva le salme dei giovanissimi caduti del Commonwealth). La retorica della Resistenza, fattasi sempre più assordante man mano che ci si allontanava da quegli eventi (le pagine dell’Unità dei mesi immediatamente successivi erano molto più sobrie) ha permesso agli italiani di non fare i conti con se stessi e con il proprio passato.
Mi raccontava Arturo Tofanelli, il direttore di Tempo Illustrato, il primo settimanale italiano a colori, che il 25 aprile del 1945 stava viaggiando in treno da Torino verso Milano e sulla massicciata ferroviaria vedeva luccicare dei cerchietti di metallo. Ma per l’abbaglio del sole non riusciva a capire cosa fossero. Il treno si fermò in mezzo alla campagna e Tofanelli poté osservarli con maggior attenzione. Erano i distintivi del Pnf (Partito nazionale fascista) di cui i viaggiatori si stavano furtivamente liberando. Gli italiani da tutti fascisti, o quasi, che erano stati, erano diventati in un sol giorno tutti antifascisti. E poiché avevano la coda di paglia e il terrore che qualcuno li riconoscesse e li indicasse come i fascisti del giorno prima divennero di una ferocia bestiale. Lasciamo pur perdere le vendette personali a cui si abbandonarono dei partigiani dell’ultima ora nell’immediato dopoguerra descritte da Gianpaolo Pansa ne Il sangue dei vinti ma raccontate in modo molto più puntuale e coraggioso decenni prima da quel grande reporter che era Giorgio Pisanò e che allora furono passate sotto assoluto silenzio perché Pisanò era un fascista (per la verità era un mussoliniano, che è cosa leggermente diversa), basta pensare all’orrendo spettacolo di piazzale Loreto il 28/29 aprile del 1945. Gli uomini e le donne che sputarono e pisciarono sui cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei diciotto gerarchi stesi a terra sul piazzale e poi appesi per i piedi al traliccio del distributore di benzina di piazzale Loreto erano gli stessi che fino a qualche tempo prima avevano osannato il Duce e i suoi. E poiché alla Petacci le gonne, in quella posizione, le erano ricadute sulla faccia scoprendo il resto e non indossava le mutandine (era stato il ‘colonnello Valerio’, alias il ragionier Walter Audisio, a impedirle di cercarle quando era andato a prelevarla insieme a Mussolini nella cascina di Giulino di Mezzegra: “Tira via” le aveva intimato) qualche ‘mano pietosa’, come qualcuno scrive ancor oggi, gliele legò con una cinghia alle ginocchia. Impiccare una donna a testa in giù non era osceno, osceno era che mostrasse le pudenda. Fu il colonnello americano Charles Poletti a ordinare ai membri del Cln di por fine a quello scempio e di portare i corpi all’obitorio.
Tutti, se ne han voglia, possono vedere i filmati di piazza Venezia il 10 giugno del ’40 il giorno fatale in cui Mussolini dal balcone dichiarò formalmente guerra a Gran Bretagna e Francia. La piazza è gremita fino all’inverosimile e si possono sentire distintamente le voci della folla che prima che Mussolini pronunci la formula di rito grida “Guerra! Guerra!”. Pochi anni dopo non si trovava un solo italiano disposto ad ammettere che quel giorno stava su quella piazza. Tanto che Oreste del Buono affermò col sarcasmo che gli era consueto: “Va a finire che a piazza Venezia quel giorno c’eravamo solo io e Montanelli”.
Alla fine della guerra io avevo solo due anni e non potevo decentemente sostenere che avevo partecipato alla lotta partigiana. Ma i miei fratelli maggiori, quelli che avevano dodici o quattordici anni o poco più, compresa Oriana Fallaci, erano stati tutti perlomeno delle ‘staffette partigiane’. E io nella mia infantile innocenza mi chiedevo: “Ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani?”. E parte della mia vita è stata solcata, quando ero giovane, da questi soggetti che, inventatisi partigiani, mi guardavano in tralice perché io la Resistenza non l’avevo fatta.
Il 25 aprile è in realtà la festa dell’eterno opportunismo e voltagabbanismo italiano. Naturalmente la cosa riguarda innanzitutto le nostre classi dirigenti. Con quell’alleato non ci si doveva alleare, ma è troppo facile, troppo comodo, pugnalarlo alle spalle, in una lotta per la vita e per la morte, quando si avvicina la sconfitta. Anche l’8 settembre di recente è stato elevato a Festa Nazionale mentre è il giorno della nostra vergogna.
La principale responsabilità della guerra civile che ne seguì (fino a poco tempo fa era proibito chiamarla tale) ricade su Mussolini che non seppe dire di no a Hitler e creò la Repubblica fantoccio di Salò. Ma questa non è una buona ragione per infamare i ragazzi che per quella Repubblica andarono a morire (mentre il Capo tentava di fuggire travestito da soldato tedesco) in nome di valori come l’onore, la lealtà, la Patria che, almeno ai loro occhi, non erano meno importanti della libertà per cui si battevano i pochi, veri, partigiani. Io non ho aspettato Violante per dare a questi giovani la stessa dignità che do ai partigiani. L’ho scritto moltissimi anni fa.
Il mito e la retorica della Resistenza ci hanno poi convinto che in fondo avevamo vinto una guerra che invece avevamo perso nel più ignominioso dei modi (i francesi sono stati anche più abili, sono riusciti a passare per vincitori nonostante l’adesione al Governo di Vichy sia stata molto più ampia di quella degli italiani al regime fascista quando a guerra in corso cominciò a traballare). E questo mito e questa retorica hanno avuto conseguenze che si sono protratte nel tempo e forse durano ancora oggi. Basta pensare al fenomeno delle Brigate Rosse che proprio a quel mito e a quella retorica, spesso in buonafede, si richiamavano.
“Resistenza sempre” ha dichiarato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sì, ma contro i ben più concreti nemici di oggi e non contro gli sbiaditi fantasmi di ieri.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2016
Articolo di Pietrangelo Buttafuoco pubblicato sul Fatto Quotidiano il 18 aprile 2016
Metto le mani avanti e lo dichiaro il cortocircuito. Marco Travaglio, il direttore di questo giornale – giusto l’estate scorsa, alla Versiliana – parlando in pubblico diceva così: “Non ci sarebbe stato bisogno di fondare Il Fatto Quotidiano se uno come Massimo Fini, un uomo libero, oggi potesse scrivere i suoi articoli sul Corriere della Sera”.
Quest’affermazione è suonata disarmante e rivelatrice. Ed è, infatti, difficile da spiegare agli extraterrestri perché un Massimo Fini – cronista di solida scuola, uno che non hai mai lisciato il pelo dal verso giusto – nella stagione migliore della sua produzione intellettuale, abbia dovuto attendere la fondazione di questo giornale per restituirsi ai propri lettori.
Nessuna testata, infatti, può reggere il suo punto di vista – lo spirito critico tutto suo – con cui frantuma i totem dell’ideologicamente corretto.
Il totalitarismo liberale esiste, altro che, altrimenti non ci si accontenterebbe, come stucchevolmente accade sempre, di appaltare il dissenso ai pittoreschi idoli del pop pensando che già la battaglia a favore di Mika – il cantante dell’impegno omosessualista, a cui qualcuno fa la bua – emancipi l’Italia da tutti i medioevi.
Già è d’obbligo rivalutare Nerone – Fini docet – figurarsi il medioevo. E quando Nicola Lagioia dice – in un’intervista concessa a Libero – “oggi non sarebbe possibile avere l’equivalente degli Scritti corsari di Pasolini”, ecco, il cortocircuito, impone un altolà: l’equivalente di ciò che il luogo comune percepisce come “Pasolini” c’è, è appunto Massimo Fini, e lo è in una forma davvero ribelle e grandemente poetica se si pensa che già il suo Nietzsche è il romanzo che nessun scrittore della cerchia altolocata saprà mai scrivere.
Interpellato a proposito del Premio Strega, Lagioia, ultimo vincitore del più ambito tra i riconoscimenti letterari, ha dunque parlato di una cosa vera, verissima – “essere un intellettuale libero è complicato” – scivolando però nella botola del già detto: “Nessun direttore ti chiamerebbe nel suo giornale per offrirti, come successe a lui con il Corriere della Sera, il ruolo di ospite ingrato”.
Siamo al caro Lei, quando c’era Lui. Ma il Corriere che faceva scrivere Pasolini era quello dei cummenda: quelli che temevano gli espropri proletari e ben volentieri offrivano regalie per ammansire qualunque brivido rivoluzionario. Quelli dell’alta borghesia ai quali faceva fino aprire le dimore ai collettivi in cachemire.
Il ponte che traghettava il ’68 negli anni ’70 – al tempo in cui, caro Lei, c’era Lui – era un sottaciuto gioco di specchi tra le due Chiese, quella del sistema consociativo e quella del potere culturale, che andava a contenere tutte le ospitalità e tutte le gratitudini.
Ospiti ingrati, nella veneranda pubblicistica liberale, non ce ne sono mai stati altrimenti, quello stesso giornale, la prima vetrina del dibattito italiano, negli anni della peste terroristica non avrebbe cacciato Indro Montanelli per poi salutarlo nel giorno in cui lo gambizzavano le Br col famoso titolo “Ferito un giornalista”.
Proprio complicata – ha ragione Lagioia – la vita di un intellettuale libero. Sempre preda dei cortocircuiti. Altrimenti, per uno come Massimo Fini – la cui vita è una certa idea di Milano – l’indirizzo sarebbe stato solo uno: via Solferino.