Pochi giorni fa Angela Merkel ad Aquisgrana, dove accompagnava il presidente francese Macron che aveva ricevuto il Premio Carlo Magno, ha dichiarato: “Non ci si può trastullare nella convinzione che gli Usa ci difenderanno, dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani e poterci difendere da soli”.
La creazione di un vero esercito europeo è una necessità assoluta. La forza militare, usata naturalmente come deterrente, si trascina dietro tutto il resto a cominciare dall’influenza politica che un Paese, in questo caso un raggruppamento di Paesi, la Ue, può esercitare in campo internazionale. Di questo dovrebbe tener conto il premier (nel momento in cui scriviamo non ne conosciamo ancora il nome) del governo Cinque Stelle-Lega. Il latente antieuropeismo dei grillini e dei leghisti dovrebbe essere tenuto a bada, non per rassicurare Mattarella che su un programma di governo che presumibilmente ha l’appoggio del Parlamento non ha diritto di metter becco, ma perché nuoce al Vecchio Continente e ai suoi abitanti. In particolare il ‘sovranismo’ di Matteo Salvini è un’idiozia. A differenza degli anni Trenta, quando una semi autarchia fu attuata con successo da Mussolini, oggi nessun Paese europeo potrebbe resistere da solo ai grandi agglomerati statali, Stati Uniti, Russia, Cina, India e nemmeno ai potentati economici sovranazionali che sottotraccia guidano la danza, vale a dire il famigerato ‘mercato’.
La creazione di un esercito europeo ci permetterebbe di uscire, sia pur gradualmente, dalla Nato che dal dopoguerra è stato lo strumento con cui gli Stati Uniti hanno tenuto in condizione di minorità, militare, politica, economica e anche culturale, l’Europa. Ai ricatti economici di Donald Trump l’Unione europea è in grado di resistere perché ha più di 500 milioni di abitanti, cioè di consumatori che sono in linea di massima dei consumatori forti.
Il nuovo governo italiano dovrebbe quindi seguire le indicazioni molto esplicite, se le si mette a confronto con le abituali prudenze diplomatiche, di Angela Merkel e collaborare con tedeschi e francesi per un’Europa più forte, non più debole.
Altrimenti, ad andar tutto bene, l’Europa rimarrà un gigante economico, ma un nano politico, perennemente sotto scacco.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2018
Adesso che è finita la tragicommedia del governo, che di per sé sola dice di che pasta sia fatta in realtà la democrazia (trucchi, imbrogli, agguati, imboscate, menzogne, ricatti), col nano malefico che si è fatto da parte (apparentemente perché dai nani c’è sempre da attendersi il peggio per la fisiologica ragione, come scrisse Gianna Preda di Fanfani, che “hanno il cuore troppo vicino al buco del culo”) possiamo riprendere a parlare di cose serie. Di calcio.
Anche la Nazionale, come la nostra politica, non se la passa bene. Non è riuscita ad andare ai Mondiali. Ci sarebbe da stupirsi del contrario. Le squadre di A e anche di B sono zeppe di stranieri, spagnoli, brasiliani, argentini, colombiani, marocchini, egiziani e persino coreani del Nord (robb de matt) ma soprattutto serbi, croati, bosniaci che se ci fosse ancora la cara, vecchia e mai troppo rimpianta Jugoslavia formerebbero la Nazionale più forte del mondo. Il bacino in cui può pescare il nostro Ct, si tratti di Mancini o di chi l’ha preceduto, è estremamente ridotto. Ma anche le altre nazioni europee, a livello di club, non è che siano un granché. Il Barca, dopo il ritiro di Xavi e l’inesorabile declino di Iniesta, non è più quello. Il Madrid non è una squadra ma un insieme di singoli, alcuni anche scarsi. Il Bayern è il peggior Bayern della sua storia. Il Paris Saint-Germain, che ha speso una follia per Neymar (240 milioni) sottraendolo al Barcellona dove era inutile (molto meglio ‘Pedrito’ che adesso gioca nel Chelsea) non riesce ad emergere perché Edison Cavani non è mai diventato Van Nistelrooy, il suo idolo giovanile. Rimangono i velocissimi ragazzini del Liverpool che il 26 maggio, a Kiev, nella finale infilzeranno il borioso ed eternamente aiutato Real (puntate e vi sarà dato).
Ma la questione non è questa. Ci si diverte anche a vedere giocare gli scarsi. I problemi veri nascono altrove.
In Italia dal 1982, anno dell’introduzione del ‘terzo straniero’, il calcio da stadio ha perso il 40% degli spettatori. Chiunque abbia masticato calcio (e nella mia generazione lo abbiamo fatto tutti –tranne Mughini che preferiva le parallele- perché lo sci lo conosceva solo chi stava in montagna, il tennis era uno sport da ricchi o per raccattapalle, il basket era troppo americano) sa che differenza ci sia, dal punto di vista dell’atmosfera ambientale ma anche tecnico, fra il vedere una partita allo stadio e vederla in Tv.
Per ragioni televisive, quindi economiche, il calcio è stato spalmato sull’intera settimana e in ore diverse: venerdì ci sono gli anticipi di B, il sabato la B e due anticipi di A, al mezzogiorno della domenica una partita di cartello, il pomeriggio, alle tre, giocano gli sfigati, alle 18 e 30 altra partita, alle 20 e 45 il clou. Il lunedì il posticipo di A (addio, fra l’altro, al subrito della schedina giocata sabato al bar con gli amici). Al martedì e mercoledì la Champions che ha sostituito la Coppa dei Campioni (giocata, ad eliminazione diretta, solo dalle vincitrici dei rispettivi campionati europei) per poterla organizzare a gironi e quindi più partite, molte delle quali inutili, più televisione, più quattrini. Al giovedì la ridicola Europa League, ma son quattrini anche quelli. Un’abbuffata che stroncherebbe anche il più focoso degli amanti.
Squadre con dieci e anche undici stranieri, giocatori che, in un giro di valzer vorticoso, cambiano società ogni anno per fame di ‘novità’ (e spesso sono dei brocchi inguardabili) e anche durante la stagione, con tanti saluti alla regolarità del Campionato, per esigenze degli sponsor maglie diverse da quelle tradizionali, se la squadra gioca in trasferta, forsennata e costosa politica degli abbonamenti (denaro che arriva in anticipo) che schiaccia i ragazzi dietro le porte e nelle curve dove si vede poco o nulla ai quali quindi interessa tutto tranne il gioco e, raggruppati insieme, diventano dei teppisti di cui poi ipocritamente ci si lamenta.
L’economico (e anche la tecnologia, il famigerato Var) ha svuotato il calcio dei suoi contenuti identitari, rituali, mitici, simbolici, sentimentali che, al di là del gioco e dello spettacolo, hanno fatto la fortuna secolare di questo sport nazional popolare: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli ‘anziani’ e i giovani del vivaio e della Primavera.
Inoltre, ed è forse la cosa più grave, il calcio ha perso la sua funzione sociale, di sport interclassista dove allo stadio si trovavano insieme, fianco a fianco, tutti, l’imprenditore e il suo operaio, il manager e l’impiegato, l’artigiano e il suo ricco cliente.
Oggi nel calcio circolano cifre enormi e spropositate, per i giocatori, gli allenatori, i direttori tecnici, i procuratori. E naturalmente per i grandi network televisivi. Proprio in questi giorni MediaPro, Mediaset e Sky si stanno scannando con cifre che superano il miliardo di euro per i diritti televisivi della serie A.
Nel 1982, dopo l’introduzione del ‘terzo straniero’, scrissi per Il Giorno un articolo in cui dicevo che il calcio, ridotto da sport sul campo alla dimensione di uno spettacolino televisivo, che come tale, fra una telefonata al cellulare e l’altra, una visita al frigo, la moglie che rompe, perde quella concentrazione che in un rito (perché il calcio è innanzitutto rito) deve essere assoluta e quindi man mano interesse, sarebbe andato fatalmente a morire. E così sarà. Morirà per overdose. Come tutto il resto.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2018
“Caro Massimo,
ho cercato tra i volti delle tue età e subito ti ho riconosciuto e ricordato in una mattina del ’78, presso la redazione dell’Europeo su cui scrivevi Motivo: il confronto con un Camon arrabbiatissimo che ce l’aveva con l’’Albero degli zoccoli’.
Da quella volta, siamo diventati amici e in tutti questi anni non è mai venuta meno la salda stima delle ‘affinità elettive’.
Grazie dunque di non avermi dimenticato anche in questa occasione: un nuovo libro è un po’ come un nuovo bambino che c’è in noi e vuole essere riconosciuto. Mi terrà buona compagnia.
Specialmente adesso, che per me sono cominciati i tempi della sofferenza senza ritorno. Malattie subdole, diaboliche che cercano le loro vittime ignare e sprovvedute d’ogni difesa.
Così è andata e così sarà per i prossimi giorni.
Ti abbraccio
Ermanno”
(Asiago, 16 febbraio 2015)
Questa è l’ultima lettera che ho ricevuto da Ermanno Olmi. Seguiva un lunghissimo silenzio. Gli avevo mandato la mia autobiografia che in copertina ha le immagini delle varie fasi della mia vita, da me piccolissimo all’atras senectus che lui, ormai più che ottantenne, stava vivendo nelle condizioni più difficili e direi atroci. E’ da quelle fotografie che Olmi mi aveva “riconosciuto”, come scrive nella lettera, non in un senso banalmente fisico, da uomo anche d’immagine, ma spirituale.
Ero andato a vedere Il posto, il suo primo, vero film (in seguito sarebbero arrivati i due grandi capolavori, L’albero degli zoccoli e Il mestiere delle armi) in un cine di ‘terza’ a Milano. Era il 1961. Avevo 17 anni. L’atmosfera del film, ambientato in un grande luogo di lavoro abitato da impiegati, è di una malinconia dolce, delicata (come delicato è il rapporto tra i due ragazzi) e insieme dolorosa che culmina nella festa aziendale “con ricchi premi e cotillon”. Quell’atmosfera l’avrei ritrovata otto anni dopo, nel 1969, quando entrai come impiegato di seconda alla Pirelli. Ma nella realtà l’atmosfera aziendale era molto più vicina alla crudeltà dei film di Paolo Villaggio. Mi ricordo la scena della festa per gli “anziani Pirelli”, gente che aveva lavorato in azienda per quarant’anni e che si faceva docilmente seppellire.
Il primo incontro con Ermanno Olmi, come lui ricorda, avvenne all’Europeo in un confronto con un altro cattolico, sia pur a sua volta molto singolare, Ferdinando Camon. Ma mi riesce difficile definire Olmi ‘cattolico’. Dei cattolici non ha la crudeltà, che è di un altro regista, anch’egli mio amico, Pupi Avati o, per salire ai piani più alti, del Manzoni (il lettore ricorderà forse la lunga agonia di Don Rodrigo da quando esce dalla festa con i suoi pari, premonendo, nella sua mente alterata dall’ubriachezza, i sintomi della peste e finisce nel modo più miserabile al lazzaretto). Olmi lo assimilo molto di più all’Idiota di Dostoevskij o ad Alioscia uno dei fratelli Karamazov. Ermanno non è cattolico e forse nemmeno religioso, è qualcosa di molto di più: è spirituale.
Dopo quell’incontro all’Europeo divenimmo amici. Andavo a trovarlo ad Asiago dove viveva con la moglie Loredana Detto, incontrata sul set de Il posto, e il figlio allora poco più che adolescente. Ma la cosa durò pochi anni. Nel 1981 Olmi fu colpito da una malattia cui oggi si saprebbe probabilmente dare un nome ma che allora appariva misteriosa: la pellicola che ricopre i nervi si ritirava gradualmente scoprendoli e paralizzandolo. Si arrestò, alla fine, prima di attaccare i centri nervosi nevralgici ma lui ne uscì gravemente menomato. La malattia per lui non era un cattolico ‘dono di Dio’ per espiare e riscattare chissà quale colpa o un terreno esistenziale fecondo come per Nietzsche. Era sofferenza e basta, “diabolica” come la chiama nella lettera. Da allora non lo cercai più. Mi pareva una indelicatezza vederlo in quelle condizioni. Ma evidentemente un filo sottile mi legava a lui. Lo seguivo attraverso i suoi film. Olmi aveva sicuramente nostalgia del mondo contadino o, per essere più precisi, di un mondo più semplice. Lo conferma una cartolina che mi inviò pochi giorni dopo quella lettera. Dice: “Giuseppe Verdi raccomandava: ‘torniamo all’antico sarà un vero progresso’”. Ma Olmi non era nel suo essere un radicale e tantomeno un intellettuale, nulla di più lontano da lui. Conosceva o riconosceva le durezze del mondo contadino. Nell’Albero degli zoccoli c’è una scena estremamente significativa quando si ammala la mucca e il contadino entra in uno stato di disperazione, come e forse più se si trattasse di un figlio, perché la morte della mucca vuol dire la rovina.
Nel Mestiere delle armi la scena cruciale, almeno secondo me, è quando Giovanni delle Bande Nere, un uomo coraggioso, forte, con un grande senso della propria dignità, si cala la celata e a cavallo si avventa contro i nemici. Ma è stato inventato il fucile, Giovanni è ferito gravemente, gli si dovrà amputare una gamba. E’ finito. Come finisce in quel momento, simbolicamente e concretamente, un’epoca, l’epoca della cavalleria per avventurarsi in un’altra, la nostra, dove coraggio, forza, fisica e morale, dignità, i valori preideologici, prepolitici, prereligiosi non contano più nulla sostituiti da droni e, più in generale nella vita civile, dalle macchine.
Io non riesco a considerare Ermanno Olmi semplicemente un regista anche se era quel grande regista di cui oggi tutti van scrivendo. Era qualcosa di più, di molto di più. Era un uomo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2018