Renato Vallanzasca è stato pescato a rubare in un Supermercato, l'Esselunga di viale Umbria a Milano. L'ho ha fatto nel modo più ingenuo. Una parte della merce l'ha pagata, l'altra, un paio di boxer, cesoie e concime per piante, l'aveva nascosto in un borsone. Beccarlo è stato un gioco da ragazzi. Bottino 70 euro.
Chi non ha rubato in un Supermarket alzi la mano e gli sarà tagliata per menzogna manifesta. Il Tribunale lo ha processato per direttissima e gli ha revocato il regime di semilibertà. Sulla revoca della semilibertà niente da dire, era un provvedimento inevitabile. Sul processo per direttissima ho invece qualche perplessità. E qui usciamo, per un momento, dal personaggio Vallanzasca, che i suoi debiti con la giustizia li ha pagati fino in fondo con quarant'anni di carcere di cui undici in isolamento (le 'anime belle' di Amnesty International, dei 'diritti umani' affini, i difensori professionali dei diritti dei cani, dei gatti e delle lucertole hanno un'idea di che cosa significhino undici anni in isolamento?) ed entriamo in quelli di un cittadino comune che avesse commesso lo stesso reato. Per un furto di 70 euro si può essere processati per direttissima, per i grassatori di milioni di euro ci vogliono decine di anni prima che si arrivi a una sentenza definitiva, che in genere non arriva perché è stata tagliata dalla prescrizione. E se caso mai arriva, dopo sforzi inumani della magistratura, per i 'ladri in grande stile' ci sono gli 'arresti domiciliari' in lussuose ville, che proprio con i loro latrocini si sono fatte, o la beffa dei 'servizi sociali' dove si fa finta, per quattro ore alla settimana, di imboccare degli ammalati di Alzheimer che vomitano quel cibo non perché incapaci di ingurgitarlo, ma disgustati da colui che glielo dà.
No, non infierirò su Vallanzasca e non cederò alla tentazione di irriderlo perché da bandito che seminò il terrore a Milano, negli anni Settanta e in parte degli Ottanta, si è ridotto a essere un 'ladro di ruote di scorta di micromotori' per dirla alla Jannacci. Non lo farò perché ho un debito con lui. Gli devo la sua onestà intellettuale. Quando fu catturato per la prima volta, a Roma, e portato, in manette, sul famoso balconcino, sotto c'era una folla di fotografi e giornalisti (la difesa della persona esiste solo per i delinquenti di grosso calibro, per gli altri valgono gli 'schiavettoni'). Uno dei giornalisti, nel clima sociologicizzante dell'epoca, gli chiese: «Vallanzasca, lei si ritiene vittima della società?». E lui rispose: «Non diciamo cazzate». Lo avrei graziato solo per questo. Ha sempre ammesso le sue responsabilità e se ne è assunte anche altre che erano pur sue ma che i magistrati avevano erroneamente attribuito ad altri. In quarant'anni di carcere ha subito i pestaggi più selvaggi da parte degli agenti di custodia (chi avrebbe mai difeso un 'pendaglio da forca' come lui?) e non se nè mai lamentato. Non ha invocato Amnesty International, come hanno fatto i ladri di Tangentopoli per poche settimane di detenzione preventiva, e nemmeno difeso i suoi più elementari diritti di detenuto (si rifaceva scopandosi tutte le direttrici, se carine, dei 36 penitenziari in cui è stato recluso, oh yes). Solo una volta, dopo un pestaggio più violento del solito, scrisse una lettera di protesta. Ma al solito giornalista che gli chiedeva: «Vallanzasca, lei è stato torturato?» rispose: «Beh, adesso non esageriamo».
No, non infierirò su Renato Vallanzasca. Come scrissi in un articolo sull'Europeo del primo agosto 1987, lo considero «un bandito onesto in una società dove, troppo spesso, gli onesti sono dei banditi».
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2014
Oggi è di moda sparare sulla burocrazia. Non c'è uomo politico, non c'è partito che non accusi la burocrazia, per le sue complicatezze, soprattutto in materia fiscale, di essere un peso insopportabile per l'imprenditoria italiana oltre che un angoscioso tormento per la vita del singolo cittadino. Bene, secondo uno studio della Confartigianato negli ultimi sei anni, da metà aprile del 2008 a marzo di quest'anno, il Parlamento ha approvato 629 norme in materia fiscale, di queste solo 72 semplificano le procedure, 389 le complicano. Ed è pressoché certo che se analoghi studi fossero fatti su altri rami della Pubblica Amministrazione il risultato sarebbe più o meno lo stesso. Che c'entrano i burocrati? I burocrati applicano le leggi e le leggi, sotto la guida del governo, le fa il Parlamento cioè proprio quegli uomini politici e quei partiti che puntano il dito contro le complicazioni burocratiche. Il dito dovrebbero puntarlo contro se stessi.
Lo stesso avviene con i magistrati, odiati dalla classe dirigente da quando, con Mani Pulite, hanno osato chiamare anche 'lorsignori' al rispetto di quella legge cui tutti siamo tenuti (come conferma il voto trasversale dell'altro giorno alla Camera in favore della responsabilità civile dei giudici, norma che paralizzerebbe psicologicamente ogni magistrato). Se in via preventiva mettono in galera dei 'pezzi grossi' (che quasi mai è vera galera -questa tocca ai poveracci- ma i più comodi 'arresti domiciliari' in lussuose ville) li si accusa di volersi fare pubblicità. Ma a parte il fatto che se si seguisse questo ragionamento nessun uomo politico potrebbe essere mai indagato, la discrezionalità del Pubblico ministero nel decidere o no un arresto (discrezionalità peraltro correggibile dal Gip e dal Tribunale della libertà) gli viene dalle leggi e le leggi le fa il Parlamento, cioè proprio quegli uomini politici che, a seconda dei casi, si scandalizzano per quegli arresti. Se si ritiene che quella discrezionalità sia eccessiva, la si limiti con una nuova legge, altrimenti il magistrato non può che applicare quella vigente. Uomini politici e partiti gridano all'infamia quando delinquenti notori vengono liberati per la decorrenza dei termini della carcerazione preventiva. Ma chi, in questi anni, ha inzeppato il Codice di procedura penale di leggi cosiddette 'garantiste' tanto da allungare all'infinito i tempi del processo, se non il Parlamento, cioè quegli uomini politici e quei partiti che poi gridano all'infamia? Se i termini sono decorsi il magistrato non può e non deve far altro che applicare la legge, che non lui ha fatto, ma altri, non può dire, alla Jannacci, «no tu no» perché sei cattivo e malfamato.
Il Italia è costume, o piuttosto malcostume, dare sempre la colpa agli altri. Quando è scoppiato lo scandalo Mose il premier Renzi ha affermato «sono cose raccapriccianti che fanno malissimo all'immagine dell'Italia». Ma questa 'Vispa Teresa' che è in politica dall'età di 22 anni non sapeva che queste 'cose raccapriccianti' sono il metodo usuale per finanziare, oltre ai manigoldi propriamente detti, i partiti e quindi indirettamente anche lui che ne fa parte da vent'anni? E' inutile e volgare fare la faccia feroce («li cacceremo a pedate nel sedere») quando i buoi sono scappati. Altre stalle vuote si chiuderanno se i partiti italiani, che sono il vero cancro del sistema, rimarranno quello che sono. Pare che il Pd abbia accumulato 10 milioni di debiti. Ora, per avere dieci milioni di debiti bisogna che per le sue casse siano passati centinaia di milioni. Un cittadino normale, che non sia un ladro, di debito può avere solo qualche migliaio di euri.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 15 giugno 2014
Che futuro può avere un Paese dove i controllori sono corrotti quanto e più dei controllati? Il ministro dell’Economia Padoan si è affrettato a esprimere la sua “totale fiducia nella Guardia di Finanza e nei suoi membri” e Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità anticorruzione, recentemente nominato da Renzi, ha affermato: “Una parte della Nazione è sana. E’ stata la stessa Guardia di Finanza che ha proceduto nei confronti di altri esponenti del corpo”. Peccato che i finanzieri non abbiano proceduto in modo autonomo ma su ordine dei magistrati, quei magistrati cui adesso il Parlamento vorrebbe tagliare definitivamente le unghie imponendo loro la responsabilità civile diretta (Il che vuol dire paralizzarli perché nessun giudice oserà più emettere un provvedimento se per un suo errore può vedere azzerato, economicamente, il lavoro di una vita. Cosa diversa è se un magistrato, nella sua attività, commette un reato, allora deve essere denunciato al Tribunale competente e, se riconosciuto colpevole, andare in gattabuia come qualsiasi altro cittadino. Ma questa possibilità esiste già, ovviamente, nel nostro ordinamento). Nulla vieta di pensare che quegli stessi finanzieri che hanno arrestato i loro colleghi vengano, un domani, a loro volta arrestati per reati consimili. La Gdf “è sana”. Non diciamo sciocchezze. Sono decenni che grandi e medi imprenditori pagano i finanzieri perché chiudano un occhio sulle loro evasioni fiscali. Berlusconi docet. Ma non è stato certamente l’unico, solo il più spudorato. Raffaele Cantone mi pare una persona perbene, ma dovrà servirsi di 26 controllori e chi ci assicura che fra questi non ci siano dei corrotti o dei corruttibili? ‘Qui custodiet custodes’? Anni fa si scoprì che il capo della Guardia di Finanza, un certo Del Giudice (nomen non omen), era anche il capo dei contrabbandieri. Questo è un Paese marcio fino al midollo, il più pulito c’ha la rogna.
Due cose giuste comunque Cantone le ha dette. Nella vecchia Tangentopoli gli imprenditori e a volte anche i politici si presentavano spontaneamente ai magistrati e confessavano, qualcuno si vergognava persino. Oggi questo non avviene. Ha detto poi Cantone che per corrotti e corruttori “il rischio vale la candela” perché la probabilità di finire in carcere è risibile rispetto ai guadagni milionari. E infatti, nella Tangentopoli d’antan e in quelle successive, a parte qualche breve periodo di detenzione preventiva nessuno ha fatto veramente il carcere (A parte Sergio Cusani, cui la lezione è servita e oggi è un uomo nuovo. Quel Cusani che nel breve periodo di libertà, fra carcerazione preventiva e condanna, veniva quasi ogni giorno a casa mia rannicchiato sul divano, alto com’è, con le ginocchia quasi sul mento, a liberarsi e confessarsi). Oggi si fa le meraviglie perché la corruzione è peggio che ai tempi di Tangentopoli. E come poteva essere diversamente? Era passato pochissimo tempo da Mani Pulite che la classe politica, ripresasi dallo choc, e i media sempre compiacenti, hanno trasformato i magistrati nei veri colpevoli e i ladri nelle vittime e spesso in giudici dei loro giudici. Che cosa si poteva ricavare da questa pedagogia se non la garanzia di un’impunità perpetua per i mascalzoni? E così sarà anche questa volta. C’è già chi, sia pur con cautela, prepara il terreno. Era appena scoppiato lo scandalo Expo che l’insolvente Sallusti scriveva che i giudici agivano per avere ‘i titoloni’ sui giornali (Il Giornale, 9/5/2014). Tranquilli, i felloni di oggi ve li ritroverete, bel belli, insieme a delle ‘new entry’, fra dieci anni. Ma la colpa è nostra. All’epoca di Tangentopoli ci furono almeno delle manifestazioni di piazza e di rabbia. Oggi siamo inerti, mitridatizzati. Mentre ci vorrebbe ben altro che le cesoie evocate da Erri De Luca.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2014