Sul Corriere della Sera Francesco Alberoni se l' è presa con i carrieristi, con gli sfrenati arrivisti, con tutti coloro che perseguono il successo senza avere un'adeguata etica del lavoro, del dovere, del merito. È come se un vampiro si scandalizzasse per un prelievo di sangue: perché di questi cultori del successo facile Alberoni è il riconosciuto prototipo avendo egli, che di mestiere fa il sociologo, scritto libri dove non s'avverte la minima traccia di studio, di lavoro, di ricerca, libri che si basano esclusivamente su un titolo ammiccante e sull'incessante ed accomodante grancassa dei mass-media. In realtà Alberoni contesta il meccanismo che lo ha messo in orbita ora che se ne servono anche altri. Sulla scia di Alberoni il settimanale Panorama s'è scagliato contro i rampanti, gli emergenti, i presenzialisti da salotto ed anche questa è una bella performance perche costoro sono esattamente i lettori che, da anni, Panorama si viene educando e crescendo con la massima cura, solleticandone le ambizioni, fornendo loro regole di arrampicamento e manuali di abbigliamento, miti da seguire, salotti da ammirare. Per sopramercato, Panorama ha chiamato ad esprimersi su questo tema Lina Sotis ed Enrico Vanzina che, senz'ombra di imbarazzo, si sono messi a moraleggiare sul successo facile come se il loro fosse dovuto a qualche dote titanica, a qualche sofferta disciplina interiore. Sull' Espresso di un paio di settimane fa si poteva leggere un illuminato e profondo articolo di Giorgio Bocca, «Signori, qui c'è poco da ridere», che, facendo giustizia di tutti i luoghi comuni del e sul riflusso, riportava l'edonismo straccione con i piedi per terra, ma chi in quei giorni avesse aperto la televisione avrebbe potuto vedere lo stesso Giorgio Bocca, tutto sorridente, far propaganda ad un libretto di Valentina Crepax, Uomini: istruzioni per l'uso, il cui unico merito è quello di inserirsi in una manualistica demenziale. Il direttore de la Repubblica, Eugenio Scalfari, noto per la destrezza e la velocità nel cambiare opinione facendo finta di nulla, ha raggiunto qualche tempo fa un record crediamo difficilmente battibile sostenendo, in uno stesso articolo, a proposito di Craxi, una tesi ed il suo opposto. Nei mesi scorsi Claudio Martelli minacciò, se non ricordiamo male, un referendum che abrogasse il servizio televisivo pubblico perché terreno della più efferata lottizzazione, dimenticandosi di esserne l'artefice più assatanato. Di fronte a questi esempi, fra i tanti che si potrebbero fare, di protervia intellettuale e di disprezzo dell'intelligenza del pubblico, indignarsi, forse, non basta. Bisognerebbe cercare di capire perché simili comportamenti siano oggi possibili, unanimemente praticati e in fondo accettati. Essi infatti indicano che una profonda trasformazione, morale, culturale, sociologica, è avvenuta nella nostra società rispetto ad un passato abbastanza recente. Se infatti negli anni '50 Liala, poniamo, si fosse messa a pontificare contro l'editoria di bassa lega sarebbe stata sommersa dal ridicolo. Se in quegli stessi anni il direttore di un grande giornale si fosse platealmente contraddetto non da un giorno all'altro, ma da un anno all'altro, senza preavvertirne il lettore, avrebbe perso ogni credibilità e sarebbe stato espunto dal consorzio di coloro che fanno opinione. Evidentemente nella società attuale non sono più valori né la coerenza morale, che vuole che alle parole tengano dietro fatti conseguenti, ma nemmeno quel minimo etico che è la coerenza intellettuale, che vuole che alle parole tengano dietro almeno parole conseguenti. Come mai? Ecco una bell'indagine per sociologi. Ma poiché questi sono impegnati a scriver d'erotismo e di innamoramento, proveremo noi, in mancanza di meglio, a buttar là qualche spunto. La prima considerazione è che oggi è possibile praticare la malafede intellettuale perché contro di essa non esiste più sanzione morale. Infatti è venuta a mancare, nella struttura sociale, un'elite, intellettuale, culturale e morale, quella che Giorgio Bocca in tempi di maggior lucidità ha chiamato la «società degli eccellenti», capace di far da filtro alle sguaiataggini più impudenti e con un peso sufficiente nella società, nei suoi mezzi di comunicazione, per imporsi. Inoltre oggi coloro che violano il codice della coerenza sono gli stessi, e gli unici, che avrebbero i mezzi per applicare la sanzione, detenendo il monopolio assoluto del sistema dei mass-media. Manca cioè una cultura d'opposizione che abbia possibilità di esprimersi al di fuori dei samizdat e dei fogli marginali (cosa che non era nei '50 dove esisteva ancora un'opposizione). Questa profonda malafede, che dai «maestri pensatori» discende giù per li rami ed impregna di sè tutto il tessuto della società italiana, rappresenta una degenerazione grave del nostro vivere civile di cui coloro che ricoprono ruoli intellettuali hanno la pesante responsabilità. Anzi, secondo noi, la vera e determinante «questione morale» italiana più che nella notoria corruzione della classe politica sta proprio qui nella corruzione degli intellettuali, nella loro abdicazione, per opportunismo, viltà e tornaconto, alla coerenza, nell'aver eletto la malafede a principio o, quantomeno, a modo di vita. Perché una società i cui politici sono corrotti può recuperare, ma una società in cui gli intellettuali ed i moralisti sono più corrotti di coloro cui pretendono di far la morale non può che precipitare nel caos.
In Italia parlar bene dei morti. quando son personaggi pubblici, è quasi un dovere istituzionale. Se poi uno di questi ha la ventura di morire, per cosi dire, «sul campo», allora lo facciamo santo. Non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di una forma di rispetto nei confronti del morto, ma di uno dei tanti travestimenti assunti dall'ipocrisia e dalla cattiva coscienza collettive. Nei tempi recenti oggetto di questa pelosa canonizzazione furono, per esempio, Enrico Berlinguer ed il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ma sicuramente la più straordinaria forma di beatificazione riguarda Aldo Moro. Non c'è evidenza, per quanto macroscopica, non c'è fatto, per quanto miserando, che inducano a rivedere il giudizio sul leader democristiano. E fosse, perlomeno, un pietoso velo di silenzio quello che è stato steso su Aldo Moro. No, egli ci viene a tutt'oggi riproposto come «statista insigne», come «figura nobilissima», come esempio di preclare virtù politiche e morali. In realtà è tutto l'establishment che fa da sempre quadrato intorno a lui. Quando la Tribuna di Treviso e il Candido cominciarono, nella primavera dell'80, a scoperchiare quello che sarebbe diventato lo «scandalo dei petroli». ci vollero cinque mesi perché la stampa nazionale, di solito così avida di scoop, si degnasse di accorgersi che esisteva una truffa di più di 300 miliardi perpetrata ai danni dello Stato, e che in questa vicenda era implicato fino al collo l'uomo di fiducia di Moro, Sereno Freato. E quando non si poté più far finta di nulla tutte le colpe furono riversate su Freato, il demonio, come se il segretario del leader democristiano avesse fatto quello che ha fatto di sua iniziativa e solo per se stesso e non anche per finanziare Moro e la sua corrente. Adesso, dal processo di Torino vien fuori che con parte dei soldi della truffa sui petroli Freato aveva costituito, tramite Musselli, un «fondo nero» in Svizzera per conto di Moro. E la strabiliante giustificazione che ne vien data dalla moglie. Eleonora, e che viene recepita senza batter ciglio, è che «Aldo temeva un colpo di Stato». Ma via! E come se la cosa avesse poi la minima rilevanza. E si può continuare a far finta di credere che Aldo Moro ignorasse quel che faceva il suo braccio destro e da dove provenissero le centinaia di milioni, i miliardi che questi gli passava? Eppure, parlando del processo, il Giornale scrive che Moro «non meritava certi eredi» e la Repubblica parla di lui come di «una delle figure più nobili e disinteressate della classe dirigente repubblicana». No, signori: il problema non è Freato, non è Musselli, non sono i piccoli e grandi untorelli presi con le mani sul tagliere dello «scandalo dei petroli». Il problema è Aldo Moro. Moro non è il santino immaginario della interessata iconografia ufficiale. ma quello che risulta dai fatti della sua vita. Un uomo al centro, come principale beneficiario, di intrallazzi vergognosi, di alleanze equivoche, di truffe clamorose. Moro è quello che vien fuori dalle sue lettere, quelle lettere che scrisse quando era prigioniero delle Br e che sono quanto di più penoso ed umiliante sia mai uscito da una prigione. Lo «statista insigne» che, al momento del dunque, sconfessa tutti i principi dello Stato di diritto, sembra considerare lo Stato ed i suoi organismi come un proprio patrimonio privato, invita gli amici del suo partito ed i principali rappresentanti della Repubblica a fare altrettanto. L'uomo che chiede pietà per sé ma, in novanta lettere, non ha una parola per gli uomini della sua scorta, morti ammazzati per lui e, anzi, l'unico accenno che ne fa è gelidamente burocratico per definirli «amministrativamente non all'altezza». Il politico che conferma la tradizione della classe dirigente italiana pronta a chiedere tutto, anche la vita, agli umili, ma mai disposta, le poche volte che capita, a pagare di persona (si pensi a Mussolini in fuga sotto un pastrano tedesco, al modo con cui il re e Badoglio abbandonano Roma). Dire queste cose d'un uomo che è morto come è morto Moro può apparire, anzi è, crudele. Ma è la verità. E poiché ho scritto queste cose quando Moro era ancora vivo («Statista insigne o pover'uomo?». Il Lavoro 4 aprile 1978) non ho alcuna remora a ripeterle ora che è morto e che altri tasselli vengono a completarne la figura.Del resto, per un crudele contrappasso, Moro fu, in un certo senso, vittima di se stesso. Infatti si deve «anche» ad Aldo Moro, al suo millenarismo cattolico, alla sua politica di tutti i rinvii, di tutte le scelte mancate, di tutte le irresolutezze, di tutte le paure, di tutte le mediazioni, di tutte le ambiguità, di tutte le ipocrisie se in Italia poté allignare per tanti anni un terrorismo come quello delle Brigate rosse. E la definizione più calzante e involontariamente spietata della figura di Moro, che spiega forse anche la natura dei suoi rapporti con Freato, l'ha data la moglie Eleonora quando, deponendo ad uno dei tanti processi. affermò: «Moro era un uomo che conosceva molti modi per non dire la verità, senza per questo dire una bugia».
È stato svoltando in via Dante che mi sono imbattuto in quel vecchio. Stava seduto su un triciclo a motore accostato al muro, sul marciapiede, e suonava la fisarmonica. Quando gli sono passato accanto ho infilato tremila lire nella fessura d'un sacchetto di cuoio nero che pendeva dal manubrio. «Ah, ma allora gliene do tre» ha detto il vecchio e mi ha teso tre «pianeti della fortuna», tre foglietti colorati con gli ingenui oroscopi della «sibilla», i numeri del lotto e, tocco di attualità, la schedina del totocalcio. Qualcosa mi deve aver incuriosito nel vecchio e l' ho guardato meglio: aveva una testa forte, imponente, un cranio semi-calvo, robusto, i capelli biancogrigi pettinati di lato, con cura, una bella faccia distesa, serena, tagliata in due da un naso forte e irregolare, occhi d'un azzurro tenue, slavato dall'età, dolcissimi. Questa testa si innestava su due spalle larghe e un tronco ampio che terminava confusamente in due monconi di legno che spuntavano dai vecchi pantaloni. Gli avrei dato qualcosa di più di sessant'anni. Ci siamo messi a chiacchierare. Sul manubrio del triciclo era posato un giornaletto parrocchiale con un grosso titolo sugli handicappati. «Eh, tutti ci tirano di qua e di là per averci dalla loro parte, nonostante tutto un voto lo valiamo» ha detto il vecchio, ma con tono bonario, come di cosa risaputa. Dopo qualche altra parola fra di noi gli ho chiesto della sua disgrazia. «Avevo dieci anni. Una mattina mi sono svegliato e non muovevo più le gambe. Allora si chiamava paralisi infantile, adesso la chiamano poliomielite». Il fatto che non fosse invalido dalla nascita, come, chissà perchè, avevo creduto, mi turbò ulteriormente. Quel tronco d'uomo non era sempre stato cosi, era esistito un bambino che aveva conosciuto la gioia della corsa, dei salti, delle capriole, delle ruzzole. E tutto ciò s'era interrotto, improvvisamente, proprio agli albori, quando si comincia ad assaporare questa gioia, a rendersene conto, nell'età magica in cui si fila veloci come il vento, a perdifiato, le gote infuocate, il cuore che pompa generoso, il respiro che si libera. Se la felicità di un bambino ha un nome questo è: correre. «Sono del sette, sa?» ha aggiunto Riccardo (così si chiama). «L' anno prossimo faccio gli ottant' anni. E' da quasi settanta che sono seduto». Intorno a noi trascorreva la folla ansiosa e frenetica di Milano alle quattro del pomeriggio: manager con gli orologi di marca e valigetta, pubblicitari dalle giacche sgargianti, modelle dal volto duro, giovanotti con i capelli raccolti a codino. A pochi metri da noi un ragazzo giovanissimo copiava su un taccuino i risultati della Borsa dal monitor posto all'ingresso d' una banca. «Ma non mi sono mai scoraggiato, sa? -riprese il vecchio-. Sono nato a Castell' Arquato Piacentino, io e i miei tre fratelli eravamo figli di contadini, braccianti, e il colpo fu duro anche economicamente. I miei genitori non potevano mantenermi. Ma, in qualche modo, me la sono cavata. A me piaceva il violino fin da piccolo, prima della disgrazia andavo a imparare da un vicino di casa che me lo prestava. Quando mi ripresi un po' dal colpo tornai da quell' uomo, ma mi disse: «Adesso il violino non lo puoi più suonare. Prova con la fisarmonica». Cosi imparai la fisarmonica e mi sono sempre mantenuto suonando. Ho anche girato un po' il mondo: Liguria, Piemonte, i laghi della Lombardia. Tiravo la cinghia, spesso dormivo all'aperto, ma ce la facevo. Sono stato anche fortunato. Durante la guerra, quando iniziarono i bombardamenti, provai, la prima volta, ad andare in rifugio come gli altri ma per poco non mi ammazzano, la folla rovesciò la carrozzina e mi calpestò. Cosi, quando sentivo l'allarme, scendevo giù e me ne andavo allegramente per le vie, sotto le bombe, nella Milano deserta. Ma sono qui, vivo. Oggi abito alla Baia del Re, un quartiere di case popolari, con una sorella che ha due anni più di me, l'unica che mi è rimasta e che purtroppo è malata di artrosi. Siamo tutti e due, come si dice... non autosufficienti. Così dobbiamo pagare una persona che venga ad aiutarci e ci costa 500mila lire al mese. Per questo sono ancora qui in strada con la mia fisarmonica. Ma non mi dispiace: guardo la gente, la città». Questo diceva il vecchio, ma non aveva assolutamente il tono lamentoso, pietistico, cosi consueto e, in fondo, giustificato, in casi del genere; raccontava semplicemente delle «tranches» della sua esistenza e, anzi, da tutto il suo atteggiamento traspariva una straordinaria serenità. «Adesso la vita si è fatta molto più cara di una volta. Ma soprattutto è diventato tutto più burocratico, più difficile, per ogni cosa ci vogliono le carte. Io e mia sorella siamo al limite, l'anno prossimo dovremo lasciare la nostra casa ed entrare in un gerontocomio. Ma si sa che se vai lì muori dopo una settimana. A me piacerebbe raggiungere gli ottant'anni vivendo come adesso. E' una bella età, ottanta, non avrei mai creduto di arrivarci. Poi... poi succeda quel che deve succedere, mi portino al gerontocomio, alla Baggina, dove vogliono... Quelle che sparo adesso sono, come si dice... sono le ultime cartucce». E il vecchio mi sorrise d'un sorriso bellissimo, dolce e ironico. Poi aggiunse: «Dio mi ha dato una grande disgrazia, ma mi ha dato anche la forza di superarla». Prima di andarmene volli dargli cinquantamila lire. In fondo avevamo chiacchierato per mezz'ora, lui non aveva potuto suonare e nessuno gli aveva allungato una lira. Ma il vecchio mi prese dolcemente il polso e rifiutò: «Sarebbe un' elemosina, -disse- non posso accettare». A quel punto mi venne l' impulso, stranissimo, di inginocchiarmi davanti a lui e di baciare quelle mani grandi, forti, ruvide, rimaste contadine anche se non avevano mai toccato una vanga ma solo i tasti di una fisarmonica (in quel momento, credo, parlava in me il mio sangue mezzo russo: in tutti i romanzi di Dostoevskij o di Gogol o nelle novelle di Cechov c'è sempre qualcuno che si inginocchia e bacia, per gratitudine, le mani di un altro). Mi contenni perchè compresi che la gente (il vecchio no) mi avrebbe preso per pazzo. Gli diedi la mano e mi incamminai per via Dante. Grosse lacrime mi scendevano giù per le guance, senza ritegno. I passanti non mi badavano, ma in quei pochi che lo facevano colsi uno stupore misto a riprovazione, perchè in questo mondo, sempre più colmo di orrori, manifestare la propria angoscia è tabù, è considerato cosa indecente (a meno che non si presti a qualche spettacolarizzazione televisiva). Questa è una società di vincenti, che diamine. Del resto, i nostri rampanti manager editoriali non ci ammoniscono di continuo a fare giornali non «ansiogeni» e nemmeno, Dio guardi, «problematici»? Comunque non piangevo per il vecchio. Piangevo per me. Per il disgusto che provavo di me stesso, per le mie piccole ambizioni, i miei miserabili traffici, per il mio inutile sbattermi. Per il mio quotidiano buttarmi via mentre, mai come in quel momento, sentivo in modo così preciso che l' unico scopo degno d' una vita è lottare per raggiungere quell'equilibrio interiore, quel successo su se stessi che è il solo successo che conti e che il vecchio aveva mostrato, con tanta semplicità, di aver trovato nonostante la sua disgrazia (o in virtù anche della sua disgrazia, ma non solo per quella). Ma il mio disgusto verso di me era anche, devo dirlo, il riflesso del disgusto più generale che in modo sempre più acuto provo per la società che ci circonda, per gli yuppies, per i preppies, per gli emergenti, per l'edonismo straccione, per la vita misurata in oggetti, cose, consumi, status symbol, audience, ridotta alla affannosa rincorsa d'un successo tanto materiale quanto immaginario cui basta nulla, tre millimetri della nostra carne segreta che si rompono, per frantumarsi anche come miraggio. Camminavo per il centro di Milano e pensavo che una metà d'uomo è sempre meglio di un mezzo uomo.
Karl D. Bracher interpreta la storia del nostro secolo («Il Novecento, secolo delle ideologie», Laterza, lire 38.000) come lotta mortale fra dittatura e democrazia, fra le ideologie di tipo totalitario, fascismo, nazionalismo, comunismo con le loro più recenti varianti terzomondiste, e la democrazia liberale che egli sembra considerare quasi una non-ideologia o quantomeno la più pragmatica delle ideologie, la meno ideologica, sicuramente la meno intollerante (anche se è costretto ad ammettere che è proprio con la Rivoluzione francese -che sta alla fonte della democrazia liberale -che si inaugura l'era delle ideologie e dei totalitarismi moderni attraverso le pretese universalistiche, di proiezione oltre i confini dello Stato francese, che quella rivoluzione ebbe). La lotta fra totalitarismo e democrazia, secondo Bracher, ruota a sua volta intorno all'idea, tutta moderna, di progresso. «Il liberalismo» scrive «è cresciuto insieme alla moderna idea di progresso». Perciò ad ogni crisi del progresso o dell'idea di progresso corrisponde una crisi della democrazia ed una crescita delle “seduzioni totalitarie”, come è avvenuto fra le due Guerre con la nascita del comunismo, del fascismo, del nazismo, e come si è ripetuto con i movimenti giovanili del '68. I totalitarismi di destra e di sinistra hanno in comune il disprezzo per la democrazia, ritenuta inadeguata a i fronteggiare le enormi lacerazioni sociali prodotte dalla modernizzazione, ma si distinguono per l'atteggiamento che assumono di fronte al progresso. Le ideologie di destra, irrazionalistiche, sono pessimiste nei confronti del progresso, non ci credono (anche se lo usano, il nazismo si distinse per l' uso della tecnologia nella propaganda oltre che, naturalmente, nel settore militare). Le ideologie totalitarie di sinistra, razionaliste, almeno in origine, credono al progresso, però non a quello reale, concreto, acquisito, ma a quello a venire ed esse rilanciano a tal punto su un progresso futuro da diventare, a loro volta, delle utopie irrazionalistiche o dei puri strumenti di potere e di sopraffazione. Secondo Bracher l'unica ad aver un rapporto realistico, concreto, razionale col progresso è la democrazia liberale, in particolare nelle forme che assume negli Usa, «il più grande presidio del progressismo e la democrazia liberale più avanzata dal punto di vista tecnologico». Il risultato della impostazione di Bracher è che qualsiasi critica al progresso, al razionalismo e persino all'americanismo si trasforma per lui in un attentato, tout court, alla democrazia. Bracher diventa così una sorta di Lukacs liberale che ficca nell'inferno antidemocratico non solo Nietzsche, Pareto, Mosca, Ortega y Gasset, Bergson, Spengler, come è comprensibile, ma onesti e democratici critici di alcuni aspetti della democrazia liberale come Durkheim, Tonnies, Simmel, Kelsen, Carl Schmitt e addirittura Max Weber; scrittori come Mann, Gide, Hemingway, Pound, Joyce, Eliot, Hamsun, Steinbeck, Dos Passos, Malraux, Kierkegaard e l'intera scuola di Francoforte, Adorno, Horkheimer, Habermas. Nella Cayenna antidemocratica, del liberale Bracher, finiscono, in quanto dubbiosi nei confronti del progresso, anche Tolstoi, Gandhi, i “verdi” e tutti i movimenti ecologisti e pacifisti moderni. In questo modo Bracher finisce per contraddire clamorosamente il suo assunto e dimostrare, non volendolo, che anche la democrazia liberale, se assunta come bene assoluto, diventa totalitaria o quantomeno intollerante come un' ideologia totalitaria.
In un articolo comparso sulla prima pagina del Corriere della Sera del 13 ottobre («Ma dietro la volgarità c'è solo violenza»), Francesco Alberoni denuncia la «grossolanità», la «volgarità», la «mancanza di creatività» dell'«epoca presente». lo spegnersi di «ogni luce ideale» in una società dominata dal materialismo. In un'epoca come questa, scrive Alberoni. «la gente finisce per credere che tutto sia apparenza, effimero. Si crede saggia ed è soltanto cinica, si crede forte ed è soltanto grossolana. Il politico delle epoche grossolane ignora l'elettorato. Ignora la società. Non parla nemmeno più di riformare o migliorare il Paese. Il suo unico problema è il potere... Nel cinema i registi perdono ogni creatività e si convincono che il cinema è morto, mentre sono morti solo il loro cuore e la loro mente... La gente delle epoche grossolane vuole fare in fretta. Vuol avere subito successo, senza porsi il problema di meritarselo. Non sente il bisogno di fare le cose bene». E fin qui niente di nuovo. sono sentimenti nell'aria da qualche tempo. Solo che appena sette mesi fa esatti, il 13 marzo 1986, lo stesso Alberoni ha scritto sullo stesso Corriere, sulla stessa prima pagina e addirittura nella stessa posizione (taglio basso a destra) un articolo, «La vita è bella, siamo nei dorati anni Ottanta». in cui sosteneva la tesi precisamente opposta. In quell'articolo Alberoni affermava che gli anni che stiamo vivendo sarebbero stati ricordati nei secoli a venire appunto come i «dorati anni Ottanta», in senso materiale e morale. Partendo da un turibolante elogio dell'apparenza e dell'effimero per eccellenza, la moda, Alberoni si prosternava, sbigottito e grato, davanti alle «pellicce voluttuose... le paillettes, la bigiotteria sfarzosa, i gioielli, l'oro... i tappeti preziosi... i cibi squisiti, i liquori. gli amari, gli aperitivi, i vini pregiati... la Borsa». Poi, venendo al sodo, scriveva: «Ma vi è, nel contempo, il gusto del successo sociale, dell'eleganza, il gusto di piacere. Sono ritornate le feste, i ricevimenti, le buone maniere. Lo slancio vitale, però, si esprime anche in forme scatenate, come nell'amore per le macchine veloci, per le potenti fuoristrada... Anche il nostro cinema è in ripresa dopo la stagnazione degli anni Settanta. Sono apparsi nuovi registi e nuovi attori... Sul piano politico la conflittualità è diminuita e abbiamo un governo incredibilmente stabile. Vi è anche un fermento di opere pubbliche, di grandi progetti. Si diffonde l'insofferenza per il brutto. per il malfatto, per il mediocre, per il press'a poco...». Tutto questo dorato splendore degli anni Ottanta, secondo l' Alberoni di sette mesi addietro, derivava dal fatto che «anche nel nostro Paese si sta affermando, in modo irreversibile, lo spirito del capitalimo ed il gusto della modernità». Fino a poco tempo fa pensavo che Alberoni fosse, tutto sommato, un personaggio innocuo, il capostipite di quella sociologia dell'ovvio (da affermazioni ovvie si traggono conseguenze altrettanto ovvie) che, per quanto acqua fresca, è sempre meno perniciosa della sociologia dell'arbitrio (la linea, per intenderci, Ida Magli-Roberto Guiducci: si parte da una premessa del tutto arbitraria per trarne una serie di conseguenze altrettanto arbitrarie quanto perentorie). Insomma un personaggio solo folcloristico. Ma guardando la sua ormai lunga carriera sono propenso a credere che Alberoni sia il prototipo infantile di qualcosa di molto serio e significativo. Negli anni della contestazione e del Sessantotto, Alberoni è stato uno dei più illustri «cattivi maestri». Allora sosteneva, e guai a contraddirlo, che «tutto è politico». Con il riflusso è diventato uno dei vessilliferi del «privato», dell'edonismo straccione o del «Nuovo Rinascimento», com'egli lo definisce. Adesso, avvertendo che le cose potrebbero ancora mutare, cambia nuovamente le carte in tavola senza dare il minimo segno di turbamento e di resipiscenza. In realtà il prototipo-Alberoni si inserisce in uno dei due grandi filoni del trasformismo intellettuale italiano: quello di chi, dopo aver fatto di tutto per tenerle chiuse, sfonda le porte aperte dagli altri. L' altro filone è quello del «pentitismo», che ha caratteristiche solo in apparenza diverse perché il «pentito» riconosce gli errori di ieri solo per poter continuare a dare lezione agli altri. Comunque sia il trasformista italiano, a quale dei due filoni appartenga, ha questo di parti- colare: che non si accontenta di passare, al momento opportuno, nel campo avverso, ma suole, come dire, «scavalcare a sinistra» gli avversari di ieri. Diventa, per dirla con Nenni, «il più puro dei puri» che epura tutti gli altri. Insomma, anche come trasformista è un estremista. Ciò spiega, tra le altre cose, lo straordinario caso di quaranta milioni di italiani fascisti che divennero, in un sol giorno, quaranta milioni di antifascisti cosi intransigenti e settari da sembrare dei fascisti (da cui la memorabile frase di Mino Maccari: «I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti». E viene l'amaro sospetto che non ci sia speranza per le buone cause. Le buone cause possono essere solamente quelle perdute. Altrimenti vengono inesorabilmente impugnate e sventolate come bandiere vittoriose da chi, avendole in ogni modo avversate, se ne appropria e le usa proprio contro coloro che per esse si erano battuti.