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Il Cairo, febbraio.Il cane color sabbia, scheletrico, le rosse orbite infossate, aveva azzannato la vittima al collo, aprendogli un largo taglio boccheggiante, come d'una branchia di pesce, e se lo stava trascinando al riparo d'un sarcofago per banchettare in pace. Lì per lì pensai che il nero fagotto agonizzante che gli pendeva dalle fauci fosse un gatto o un coniglio, ma avvicinandomi mi avvidi che era un altro cane, più piccolo. La mia presenza disturbò l'assassino che lasciò la presa e si mise ad ululare lamentosamente. Fu allora che le bambine raccolte intorno alla donna con la gellabeya nera, accucciata per terra, fin lì indifferenti alla scena, mi scorsero e mi si fecero incontro, esitanti. Una, più audace delle altre, fece altri due passi in avanti, fin quasi a toccarmi, stese la mano e gridò qualcosa. Fu come un segnale, da dietro le decine di sarcofaghi, sormontati alle estremità da due alte lastre di pietra (gli spiriti che, nella religione musulmana, hanno il compito di scortare in cielo il defunto), spuntarono frotte di altre bambine e si vennero ad unire alle prime. Ero a Bab el Ghaifa, la città dei morti (il cimitero dei mammalucchi, tuttora operante, che si stende per chilometri su una leggera collina sabbiosa ad est del Cairo) dove si sono rifugiati i vivi che non hanno casa. I mammalucchi, infatti, in questo continuatori delle tradizioni dell'Egitto dei faraoni, si facevano costruire, accanto alle tombe, una piccola stanza di pietra, alta quanto un uomo, a simboleggiare la dimora che avevano avuto da vivi. In questi cubi, senza luce, senz' acqua, senza fognature, senza niente, abitano oggi intere famiglie. Mi addentro nella città dei morti, fra la selva di lapidi. Qua e là negli spiragli delle porte aperte sui cubicoli colgo qualche scena di vita familiare: una madre che pettina e spulcia la figlia, una bimba che dorme, una donna appoggiata al muro. Ogni tanto i tortuosi sentieri fra i sarcofaghi si allargano in vere e proprie strade di terra battuta che separano un camposanto dall'altro. Qui si è ricostituita una sorta di vita di villaggio, bambini in pigiama giocano a calcio negli spazi delimitati dalle grigie dimore sepolcrali. Ad un angolo un baracchino, che inalbera una stinta pubblicità del 7UP, vende bibite, qualche pacchetto di sigarette, semi di sesamo. Un vecchio costruisce, con antica perizia, gabbiette di vimine per polli e conigli. Gli chiedo da quanti anni viva qua: «Quindici» risponde: «Sono uno dei più vecchi. Ma c'è anche gente giovane giunta da poco, gente che viveva in città ed è venuta qui perché gli è crollata la casa». Di giorno a Bab el Ghaifa ci sono solo donne, vecchi e bambini. Tutti gli uomini validi sono giù in città ad ingrossare l' impressionante, enorme, variopinta, brulicante folla del Cairo. In compenso vi spadroneggiano i cani, centinaia di cani di ogni genere e tipo, ma soprattutto i magri cani color sabbia, i cani del deserto, col muso di iena e gli istinti divenuti assassini nella lotta per l'esistenza. A Bab eJ Ghaifa, ed in altri cimiteri del genere che cinturano Il Cairo, vivono tre milioni di persone, due volte una città come Milano. Salgo su un cumulo di sabbia, sassi e spazzatura. Di fronte al cimitero si stende un quartiere della periferia, tirato su a casaccio, le case sbilenche, accatastate una sopra l'altra, alcune mai finite, i tetti scoperchiati. Verso sud vedo la grandiosa moschea di Muhamed Alì, con le sue quattro cupole d'argento e, più in là, sulla sabbiosa e desertica collina del Muquattam, gli alti ripetitori della televisione. Sempre nella stessa direzione c'è una sorta di piccola Manhattan: è Maadi, il quartiere che gli americani si sono fatti costruire a loro immagine e somiglianza, gli stessi grattacieli, gli stessi supermercati, gli stessi drugstore, le stesse abitudini, lo jogging, il tennis, la piscina a cuore. Oltre Maadi, lontane ma nitidissime, si stagliano le piramidi e si intravede il lunghissimo vialone che le congiunge al Cairo, costeggiato di ristoranti e di night club che si chiamano Las Vegas, Arizona, Andalos (dove, peraltro, si fan spettacoli per educande, a cui gli egiziani assistono con la famiglia intera, bambini compresi) e che arrivano fin sotto le piramidi (proprio davanti alla Sfinge c'è un ristorante e centinaia di sedie disposte in fila, come a teatro). È questo l'Egitto finto. L' Egitto delle feluche ricostruite che solcano il Nilo stracolme di turisti. L' Egitto che sembra uscito pari pari da una sua parodia, da «Asterix e Cleopatra». Più vicino, sotto di me, si stende l' aggrovigliato ed immenso centro del Cairo. Vedo l' isola di Zamalik, uno dei quartieri della Cairo bene, e il Gezira Club. dove l'alta borghesia cairota va a giocare a tennis, a golf, a cavallo e le mamme, per badare ai bambini, si portano dietro le cameriere filippine mentre le figlie più grandi, carine, eleganti. vestite all' occidentale, addirittura antropologicamente mutate, bionde, slanciate, flirtano con la gioventù internazionale che lì si dà convegno. Vedo il Mariott Hotel, la grande villa che il nonno di Faruk fece costruire appositamente per ospitare la principessa Eugenia, e che oggi è il più caro albergo del Cairo, pieno zeppo di arabi sauditi, grassi, lascivi nello loro lunghe vesti che ne mettono in risalto il ventre gonfio, impudico,  ricchissimi, che comprano tutto, senza badare a spese, senza trattare sul prezzo come gli americani e che sono odiati quasi quanto gli americani (il mese scorso ne han fatto fuori tre, per rapina). Poi, di fronte a Zamalik. lungo il Nilo, il possente palazzo della televisione e i grattacieli della Cairo moderna già illuminati nonostante che la luce del tramonto infiammi ancora l'orizzonte. E sotto questo gruppo di grattacieli non ci sono le enormi bidonville, come capita di vedere in molte altre capitali dell' Africa o del Medio Oriente, ma solidi palazzi inglesi e francesi della fine del secolo scorso e dell' inizio di questo, appesantiti da ornamenti turcheschi e baroccheggianti, nei quali oggi abita la ricca e media borghesia dei commerci. Eppoi in un paesaggio futuribile che piacerebbe a Wim Wenders, ponti poderosi raddoppiati da sovrapponti, sopraelevate, passaggi aerei, svincoli giganteschi, superstrade che sventrano la città vecchia e nuova, quella araba, quella europea, quella modernissima, nel tentativo impossibile di smaltire un traffico impressionante di enormi vetture americane, di Mercedes e di Bmw, di medie cilindrate sferraglianti con i segni di precedenti vite in ogni parte del mondo, di camion americani col muso lungo come si vedevano in Italia nel primo dopoguerra, di trattori, di biciclette, di carrette, di cavalli, di asini. Città contraddittoria, se mai questa parola ha voluto dir qualcosa, è Il Cairo. Salgo su uno di quei terribili autobus bianchi e rossi, lerci, su cui bisogna saltar su al volo perché non fanno fermate, pieni zeppi da far paura, con la gente appesa sui predellini e i bambini in bilico sui finestrini e, appena riesco a farmi un po' di largo in quella calca inverosimile, l'occhio mi cade su un cartello pubblicitario dei Tops (preservativi) il cui slogan dice, pressappoco: «Meno bambini, vita migliore». Il principale, enorme problema di questo Paese, da cui discendono tutti gli altri, è infatti l'incredibile esplosione demografica. Gli egiziani erano 17 milioni nel 1973 e sono 49 milioni oggi nel momento in cui scriviamo, ma è una cifra che non è affatto sicura e comunque del tutto provvisoria perché la popolazione cresce di un milione ogni dieci mesi, nasce un bambino ogni venti secondi. Insomma l'incremento demografico dell'Egitto, il 2,7%, è, al momento, il più alto del mondo. La città è tutta un cantiere, che martella furiosamente, incessantemente, anche di notte. Si costruisce in modo selvaggio, dovunque; si alzano di cinque o sei piani i vecchi palazzi del centro; appena il primo piano è costruito, è già occupato; ma non c'è niente da fare, li fabbisogno resta sempre abissalmente indietro alle necessità. Anche perché queste case tirate su in fretta crollano alla prima occasione. Dieci giorni fa, nell'antico quartiere di Muski, è crollata una casa vecchia, ma il fatto è che, nella caduta, ne ha trascinate tre nuove. La mancanza di alloggi, più che quella del lavoro, è ciò che più spinge i giovani egiziani ad abbandonare il Paese (negli ultimi anni hanno lasciato l'Egitto sette milioni di persone, per andare nel Kuwait, in Arabia Saudita, in Giordania, ovunque). La mancanza di una casa significa infatti non potersi sposare e, in un Paese religioso anche se ipocrita come questo, significa avere delle grosse difficoltà nelle relazioni sessuali. Mi racconta Samir Gabyer, un giovane egiziano di religione cristiana, che mi ha fatto da guida in questo viaggio: «La situazione è arrivata ad un parossismo tale che l'altro giorno, dopo che era apparsa sul giornale un'offerta di lavoro nel sultanato di Brunei, in Indonesia, un posto infame, trentamila persone si sono precipitate all'ambasciata d'Inghilterra ed hanno travolto le transenne ed i poliziotti di guardia finche è dovuto intervenire l'esercito». Una notte, verso le due, che m'ero quasi perso passeggiando lungo il Nilo, vidi in lontananza un lumicino verso il quale mi diressi con la stessa ansia di  Pollicino. Era un baracchino sperduto,  lercio, miserando, che vendeva dolci inavvicinabili, davanti al quale la solita vecchia, in gellabeya nera, aveva acceso un fuocherello per scaldarsi mentre, dentro, il figlio se ne stava rintanato sotto una sudicia coperta. Ma in fondo al bugigattolo brillava lo schermo d'un televisore portatile. La televisione è l'unico elemento veramente unificante di una società caotica e babelica come quella cairota. Non si tratta, come dice qualcuno, di un segno di americanizzazione (nonostante tutto, al Cairo non si avverte una forte spinta americanizzante, forse perché la città è talmente magmatica da assorbire qualsiasi influenza) e neanche in senso stretto, di un segno di modernizzazione (la televisione convive qui con le più antiche usanze). Semplicemente, a noi pare, la televisione è il mezzo scelto dal potere egiziano per collegarsi con le masse e per meglio influenzarle. «Il governo egiziano dà un'estrema importanza alla televisione. Spende per la Tv tre o quattro volte tanto di quanto spende per la salute che pure, qui in Egitto, è un problema colossale. La televisione qui non si ferma mai, per nessuna ragione. Capitò una sola volta, per Sadat, e da questo capimmo che era morto» mi dice Mustafà Oarvish, giudice del Consiglio di Stato e a tempo perso cinefilo, una figura abbastanza tipica di intellettuale egiziano, cinico, disincantato, intelligente, astuto, che detesta i militari ma è al loro servizio, che disprezza i leader egiziani, Mubarak non meno di Sadat e Nasser («tre uomini vergognosamente incolti») ma che si è ben sistemato sotto ognuno di loro. Ma torniamo a Kahn el Kalili. Se l'antico souk, proprio in virtù della sua celebrità, è diventato un luogo turistico, il resto del Cairo è tutto un immenso, autentico mercato. Perche questa resta una società essenzialmente commerciale, di traffici infiniti, capillari, minuti. Lo si vede, all'impronta, dai soldi, soprattutto da quelli di piccolo taglio che sono degli straccetti fradici, unti, bisunti, consumati dal passaggio per milioni di mani. Nondimeno, se ha perso la sua autenticità, Kahn el kalili è diventato uno dei polmoni finanziari del Cairo. Perché qui si riversa tutto il turismo internazionale. Sono questi grandi commercianti, insieme ai finanzieri, che han fatto la loro fortuna sotto Sadat, fautore, dopo gli anni di Nasser, di un liberismo ad oltranza. Si calcola che il regime di Sadat abbia creato qualcosa come 150 mila miliardari. Sotto questa classe straricca sta la piccola borghesia del Cairo, una piccola borghesia dignitosa, discretamente evoluta, quella che si vede passeggiare la sera, fra le otto e le nove, prima dell'ora del cinema (famigliole con i bambini più piccoli in braccio, ragazzi, coppie giovani e anche qualche ragazza sola) per la Talal Harb o per la Kasr el Nil  dove ci sono negozi di livello europeo (molto più che a Tel Aviv) e dove, ad ogni passo, trovi una bottega di scarpe o una farmacia perché le scarpe sono il primo segno del benessere per chi è sempre andato in giro a piedi nudi o con le babbucce, così come lo è la cura della salute (o quantomeno l'illusione). La classe dirigente che esce dall'università è pessima. «Tranne rare eccezioni, il livello dei medici qui è assolutamente spaventoso», mi dice il dottor Alberto Pedrini, medico dell'ospedale Umberto I. «E lo stesso si può dire degli ingegneri, dei geologi e degli altri laureati che escono dalle facoltà scientifiche». Del resto, qui, un medico prende dai 70 ai 90 pounds al mese, cioè l'equivalente di 70/90 mila lire che sono poche anche nella realtà egiziana. Più o meno allo stesso livello sono gli altri laureati che, in genere, vanno ad ingrossare i pletorici organici della pletorica burocrazia egiziana (35 ministeri) vera disperazione per chiunque debba averci a che fare. Ma nonostante gli stipendi bassi e la nessuna realizzazione professionale questi posti sono ambitissimi. Quello della dequalificazione professionale è infatti l'ultimo gradino decente della società cairota. Sotto c'è l'abisso, c'è la città dei morti. Ci sono i ghetti diseredati della periferia, ci sono i regimi di pura sopravvivenza dei vecchi quartieri della Cairo araba. Oppure ci sono situazioni per certi versi ancor più spaventose. «Guarda: uno Zebala», mi dice Samir, indicandomi un ometto sudicio, sudicio anche per i benevoli standard cairoti, un vero monatto uscito dalle bocche dell'inferno che guida un carretto di legno, colmo di immondizia, trainato da un asino scheletrico. Sul carretto, seduti sull'immondizia, ci sono una donna e un bambino. Sono gli spazzini, un popolo di quindicimila persone, nella stragrande maggioranza sono di religione cristiana, che vive sotto la gialla e farinosa collina del Muquattam, in una specie di valle della morte dove le case sono costruite in mezzo alla discarica, fra l'immondizia in cui si avvoltolano i maiali, in un tanfo insopportabile e nugoli di mosche. L' uomo, in genere, è adibito al recupero e al trasporto della spazzatura (ma non sempre, spesso si vedono i bambini condurre questi carri infernali), ma la moglie e i figli hanno il compito più delicato: quello di scegliere, a mani nude, fra l'immondizia, ciò che può ancora servire. La mortalità fra questa gente è altissima. «Eppure, tu non ci crederai, ma gli Zebala sono ricchi», mi dice Samir. Costeggiamo lentamente con la macchina questa città spaventosa e dalle automobili posteggiate fra l'immondizia mi rendo conto che Samir ha detto la verità. È mezzogiorno di venerdì, il giorno santo dei musulmani. Per la Ataba. per la Kasr el Nil, per la centralissima e moderna Talat Harb, per tutto Il Cairo gli altoparlanti ed i nastri registratori rimandano la voce lamentosa del muezin. Centinaia, migliaia di musulmani, chi vestito secondo tradizione chi all'europea, stendono il loro tappetino di paglia, di plastica o, in mancanza di meglio, un giornale, si tolgono le scarpe e si inginocchiano, la fronte a terra. In questa folla eterogenea si distinguono i Fratelli musulmani, la setta integralista, perché, oltre alla gellabeya, portano la barba. Sono soprattutto giovani che frequentano, perlopiù, l'università islamica di El Azhar  o sottoproletariato disperato che guarda in cielo perché non ha niente in terra. Dopo l'assassinio di Sadat i Fratelli musulmani, che percentualmente qui in Egitto non sono molti ma sono aggressivi e attivissimi, ebbero il loro grande momento. Ingaggiarono una lunga battaglia col governo perché fosse reintrodotta la Shariah, la legge islamica. «Furono momenti duri», dice Samir, che è cristiano, «all'università gli integralisti ottennero di chiudere il piccolissimo bar perché lì si creava promiscuità e che gli studenti e le studentesse entrassero da due porte diverse. E ci sono stati attentati, bombe perché qualcuno progettava di fare un film su Cristo». Per un po' Mubarak ha lasciato le briglie sul collo ai Fratelli musulmani ed ha fatto loro delle concessioni, anche importanti come il decreto che impedisce ai copti (cristiani), che qui han sempre avuto in mano l'economia, di accedere a certi posti perché riservati ai musulmani. Ma sulla Shariah, la legge islamica, Mubarak non ha ceduto (significherebbe, tra le altre cose, la fine del turismo che è una delle poche risorse autoctone dell'Egitto) ed il giugno scorso, dopo un discorso televisivo in cui ammoniva contro gli eccessi religiosi e che terminava con queste tre parole, «Attenzione, attenzione, attenzione», ha fatto arrestare gli integralisti più scatenati. «Il giorno dopo -mi dice Samir, ghignando- non si vedeva più in giro una barba». Del resto qui l'integralismo religioso, fortissimo in altri paesi del Medio Oriente (si pensi all'Iran), va a scontrarsi con la tradizionale tolleranza degli egiziani, il loro vivi e lascia vivere. La religione musulmana proibisce il gioco d'azzardo, ma basta entrare in qualsiasi grande albergo del Cairo per vedere in qualche sala appartata i ricchi musulmani al tavolo della roulette o del Black and Jack. C'è, nell'egiziano, una profonda ambiguità, un qualcosa di subdolo che si esprime anche nella mollezza femminea dei gesti e che lo rende inafferrabile. L 'egiziano dice una cosa e ne pensa un'altra, è amico di tutti e di nessuno. L' altra caratteristica fondante del carattere egiziano è il profondo fatalismo che si esprime linguisticamente nell'uso incessante della parola Malesh: pazienza. Due auto si strisciano in uno dei tanti sorpassi impossibili del traffico cairota? Malesh. L'importante uomo d'affari non è venuto ad un appuntamento decisivo? Malesh. Il paziente è morto perché nessuno si è curato di lui? Malesh... «Soliman is a good man», Solimano è un buon uomo, mi dice il tassista appena metto piede all'aeroporto; sono le prime parole che sento dire in Egitto e che sentirò ripetere ossessivamente, per tutto il periodo che starò qui. Soliman Khater è il soldato di guardia alle piramidi che ha ucciso sette turisti israeliani (fra cui quattro bambini) senza nessuna ragione plausibile. Il tribunale egiziano l'ha condannato all'ergastolo e Soliman in prigione si è ucciso (o è stato ucciso, non si sa) e in Egitto è diventato una specie di eroe nazionale. Tutto ciò naturalmente in odio agli israeliani. Per vedere quanto siano amati qui gli israeliani basta andare davanti alla loro ambasciata difesa da militari armati fino ai denti ed appostati dietro sacchi di sabbia, come in guerra. Ma è un odio razziale, religioso, non politico. Qui nessuno pensa più di far la guerra ad Israele. Anzi quella con lo Stato ebraico è considerata la frontiera oggi più sicura, anche se, naturalmente, l'aggressività di Israele verso gli altri Stati arabi mette in costante difficoltà il governo egiziano sia di fronte ai confratelli arabi sia davanti al suo popolo. «Mubarak è un uomo privo di qualsiasi carisma», mi dice Mustafà Darvish, «ma bisogna anche dire che l'Egitto è in una posizione di estrema debolezza. Se gli israeliani provocano, Mubarak deve far la faccia feroce, ma sa benissimo che non ha nessuna possibilità di reagire». Se i Rambo americani compiono uno dei loro atti di arroganza, tipo il sequestro dell'aereo egiziano, Mubarak può far fare anticamera all'inviato di Reagan per ventiquattr' ore ma poi tutto torna come prima. Come si può mettersi contro gli americani quando questi armano il nostro esercito, la nostra marina, la nostra aeronautica, quando ci fanno prestiti a fondo perduto, quando, per i soli aiuti alimentari, ci danno oltre due miliardi di dollari l'anno (3.400 miliardi di lire)? Se l' America chiude i rubinetti, questo paese crolla in un giorno. In questo modo si spiega la politica di Mubarak: non può far altro che destreggiarsi. Naturalmente il popolo che nutre sentimenti profondamente antiamericani non lo ama. Come non amava Sadat perché divenne, in economia ed in politica, più americano degli americani, un servo, e perché s'è comportato come un faraone rendendo più ricchi i già ricchi e accendendo gli appetiti dei più poveri senza aver la possibilità di soddisfarli. In fondo, il popolo, almeno il popolino disperato, quello che vive nella miseria, ama ancora Nasser. Non perché Nasser abbia poi fatto molto per lui, ma perché, quando la gente non possiede niente, ha pur bisogno di un idolo». E Gheddafi, cosa pensano gli egiziani di Gheddafi? «Qui sono pronti a schiacciarlo in tre giorni. Tutti», mi dice Rita Pedrini, una italiana che vive AI Cairo. Del resto anche qui, come in Israele, quello che si teme, o, per meglio dire, che Mubarak teme, non è il nemico esterno, ma quello interno. Qualche generale fellone o un colpo di mano dei Fratelli musulmani. Basta vedere com'è protetto il palazzo della televisione, nel pieno centro del Cairo: una garitta ogni dieci metri, decine di soldati e di poliziotti dentro e fuori e, sui lati dell'edificio, dietro sbarramenti, cavalli di frisia, sacchi di sabbia, un paio di piccoli accampamenti militari con mezzi blindati. Chi infatti, in un paese come questo, si impadronisce della Tv si impadronisce dello Stato.