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Era da anni che attendevamo un atto come quello con cui il presidente della Repubblica ha irrevocabilmente richiamato il Consiglio superiore della magistratura alle sue funzioni, che non sono né di far politica né, tantomeno, di sindacare atti di un altro organo istituzionale quale la presidenza del Consiglio, ma sono quelle stabilite dall'articolo 105 della Costituzione che dice: «Spettano al Consiglio superiore della magistratura... le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni ed i procedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Questa norma assicura che la carriera dei magistrati dipenda esclusivamente dal proprio organo di autogoverno, che è appunto il Consiglio superiore, e garantisce così l'assoluta autonomia del potere giudiziario da ogni altro. II Consiglio superiore della magistratura ha quindi una funzione fondamentale, che però è quella, e solo quella, stabilita dalla Costituzione. Che se ne arroghi altre è inammissibile, come ha fatto notare Cossiga. Ma l'atto del presidente della Repubblica va ben oltre la diatriba sul Consiglio superiore. Con esso, Cossiga ha mandato un esplicito messaggio che vale per tutti gli organi istituzionali italiani: è venuta l'ora che questi organi rientrino nel loro alveo, nel loro ruolo, nelle loro funzioni, che sono solo quelle previste dalla Costituzione. Per anni ed anni infatti abbiamo visto organismi istituzionali (o, per meglio dire, coloro che, di volta in volta, li impersonavano), magistrati, ministri, presidenti del Consiglio e persino presidenti della Repubblica. debordare platealmente dalle proprie funzioni. tentare di surrogare quelle altrui, invadere competenze, creare una sovrapposizione ed una confusione di poteri inammissibili in uno stato di diritto che si basa sulla loro nitida e inequivocabile distinzione. Del resto lo scontro Cossiga-Csm non trae origine proprio da uno sconfinamento della presidenza del Consiglio dai propri poteri? Perché, se è vero che il Consiglio superiore della magistratura non può sindacare «atti, comportamenti o dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri» come ha richiamato Cossiga, è altrettanto vero che il presidente del Consiglio non può sindacare una sentenza della magistratura, come invece ha fatto Craxi. Ma questo non è stato che l' ultimo o il penultimo di una serie di sconfinamenti reciproci. Per anni i magistrati invece di applicare le leggi se le sono inventate (si pensi, fra gli altri, al pretore Paone) ed hanno preteso di surrogarsi al legislatore colmandone le lacune, vere o presunte. Per anni un presidente della Repubblica, che pur dovrebbe essere il massimo garante della Costituzione, ha esorbitato quasi quotidianamente dalle sue competenze fra il plauso generale della stampa. Esisteva addirittura una cultura per cui un personaggio istituzionale era tanto più simpatico quanto più usciva dal suo ruolo e la Repubblica inneggiava trionfalmente a Pertini «perché sarà ricordato come il primo presidente della Repubblica che non fa il presidente» (la Repubblica, 20-1-83). Poi c' era il «Papa che non fa il Papa» perché portava «scarp de tennis». Wojtyla dimostrerà in seguito di fare anche troppo bene il suo mestiere, ma quello che qui mi preme notare è che nella cultura laica c'era l'aspettativa che il Papa uscisse dal suo ruolo, condizione perché potesse essere accettato dalla retorica del tempo. Si dice, ora, che queste confusioni di ruolo erano in qualche modo legittimate dalla cosiddetta «fase dell'emergenza». A mio avviso non c'è emergenza al mondo che consenta di violare principi fondamentali dell'ordinamento giuridico anche se è vero, purtroppo, che la cosiddetta «legislazione d'emergenza» ha contribuito, attraverso l'impunità concessa ad autori di feroci assassinii, purché «pentiti», ed il sostanziale rovesciamento dell'onere della prova, a scardinare parecchi di questi principi ed ha fatto perdere agli italiani quel poco senso del diritto che ancora loro restava. Si è creduto così che lo stato di diritto fosse ormai una finzione, buona per i gonzi, da sacrificare ad ogni esigenza di realpolitik. Invece Cossiga, che non a caso è stato docente di diritto costituzionale, ha dimostrato di credere ancora, fino in fondo, allo Stato di diritto, alla Costituzione, alla divisione dei poteri su cui è fondata. Ed ha cominciato da se stesso impedendosi atteggiamenti men che formali anche se gli avrebbero conquistato facili applausi. Per esempio, nei giorni dell' Achille Lauro si è fatta della larvata ironia sull'«assenza» di Cossiga, ma il presidente della Repubblica, non interferendo in alcun modo in quella vicenda, non fece altro che il suo dovere perché si trattava di una vicenda squisitamente politica, la cui gestione spettava esclusivamente al governo. Ma quando il presidente della Repubblica ha constatato che il Consiglio superiore della magistratura stava per violare la lettera e la sostanza della Costituzione, garantire la quale è il suo compito primario, ha mandato un messaggio che per chiarezza giuridica e durezza ricorda quelli di Luigi Einaudi. Anche se era un atto «dovuto» ci voleva del coraggio e Francesco Cossiga questo coraggio lo ha avuto. Noi gli auguriamo, e ci auguriamo, che continui ad averlo e che riesca anche a sottrarsi al nuovo culto della personalità che ora cercano di cucirgli addosso, con lodi smodate, quegli stessi giornali e quegli stessi giornalisti che ieri si entusiasmavano per gli atteggiamenti, del tutto antitetici, del suo predecessore. È  una questione che non ci riguarda. Chi segue Battibecco, sempre così aspro con tutti, a cominciare dai potenti, sa che non è per piaggeria se, una volta tanto, abbiamo lasciato la critica per un doveroso e rispettoso consenso.

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Mosca, dicembre. Ogni mattina uscendo dal mio albergo, il Metropol, a due passi dalla piazza Rossa, venivo fermato all'altezza della stazione del metrò del Museo di Lenin da alcuni ragazzi che volevano vendermi caviale, salmone siberiano, pellicce, colbacchi e scambiare rubli contro dollari. Con uno di questi, un bel biondino molto sveglio che parlava bene l'Italiano ed una mezza dozzina di altre lingue, avevo finito per fraternizzare un poco anche se non gli avevo comprato mai nulla perché desideravo evitare ogni tipo di possibili grane con le autorità. Anche la mattina successiva al furto il biondino mi abbordò, testardo. Gli dissi: «Caschi male, carino, perché proprio ieri mi hanno “ripulito”. e gli raccontai la cosa. «Ah, allora avrai bisogno di soldi. Potresti vendermi il tuo orologio, disse lui adocchiando il mio modesto Seiko. «l 'orologio non te lo vendo, perché mi serve, risposi «però ho dei maglioni, dei jeans e delle cravatte che forse ti possono interessare». Rientrai in albergo e ritornai, poco dopo, con un sacchetto in cui avevo messo i vestiti. Il biondino cercava un posto tranquillo dove trattare la cosa. Provammo ai giardinetti di piazza Sverdlov, ma secondo lui c'era troppa gente. Finì per condurmi nei gabinetti d'un grande albergo e ci infilammo, insieme, in un cesso. Mi fece segno di far silenzio mentre esaminava la roba. A gesti concordammo il prezzo. Furtivamente uscimmo con i nostri sacchetti, proprio mentre un corpulento signore, vestito di grigio, entrava nell'androne dei gabinetti. l 'uomo mi guardò fisso. Io impallidii. Poi arrossii violentemente, ma respirai di sollievo. Dal suo sguardo di rimprovero avevo capito che non era un agente del Kgb, ma solo un bravo borghese russo molto indignato: m'aveva preso per un «uomo azzurro».  Di polizia a Mosca se ne vede pochissima, molto meno che a Roma o a Milano o a Parigi o a New York. Sì, ci sono molti miliziani in divisa in giro, ma hanno la cartella e l'aria frettolosa di chi sta andando a far compere. Polizia schierata non ce n'è, neanche davanti ai grandi palazzi governativi del Cremlino dove bastano un paio di poliziotti col fischietto a far tenere alla gente la distanza di rispetto (una cinquantina di metri, del resto nell'area del Cremlino, come sulla piazza Rossa, bisogna muoversi su percorsi obbligati segnati, in calce bianca, sull'asfalto). Un miliziano monta la guardia, infreddolitissimo, davanti ai quartieri-ghetto dove sono concentrati i giornalisti e i diplomatici occidentali ed un miliziano, piazzato a gambe larghe nel centro della strada, controlla che sulle grandi arterie di Mosca le macchine dei comuni mortali non invadano la corsia di centro riservata alle Zil, alle Caika, alle Volga della nomenclatura. Ma, a parte questi casi, è abbastanza raro vedere un poliziotto nell'esercizio delle sue funzioni. La vera polizia è Quella che non si vede Però, a Mosca, la vera polizia è proprio quella che non si vede, è nella ragnatela fittissima degli agenti in borghese, nelle finte guide dell'lntourist, nei giornalisti, negli impiegati degli alberghi, nei telefonisti, nei falsi operai che fan finta di riparare qualcosa. È  una presenza impalpabile. ma che si sente, che si sa che c'è e la cui forza non sta tanto nell'efficienza (volendo controllare tutto e tutti infatti la polizia sovietica finisce, di fatto, per non controllare niente), ma nella paura che riesce ad incutere e che paralizza la gente, la rende timorosa di tutto. Due sere prima di partire una delle mie amiche russe mi chiese se potevo portare con me una lettera che, arrivato in Italia, avrei dovuto spedire a Roma. Era stata molto gentile e non potevo dirle di no. Ma, per prudenza, una volta in albergo, lessi la lettera con un po' di tremarella ed un pizzico di curiosità: era una lettera d'amore, anzi l'anticamera d'una lettera d'amore. Il giorno dopo chiesi alla mia amica se pensava che tutta la posta in uscita dall'Urss fosse controllata e se era proibito corrispondere con gli stranieri. Mi rispose di sì, che riteneva che le lettere per l'estero fossero tutte controllate. La corrispondenza con gli stranieri non era formalmente vietata, ma si sapeva che le autorità non la vedevano di buon occhio e che potevano venirne delle grane. Infatti un'altra delle grandi forze del sistema di polizia sovietico sta nella indeterminatezza di ciò che è lecito e di ciò che non lo è, per cui il cittadino vive in uno stato di perenne senso di colpa e, proprio per questo, finisce spesso per smascherarsi da sé.Ma in realtà tutto è indefinito a Mosca. Non esiste una guida del telefono, non esiste uno stradario. Anche le mappe più complete di Mosca, quelle che riportano le vie più piccole, ne dimenticano però delle altre molto più grandi. Per cui, molto spesso, bisogna affidarsi ai sentito dire, alle indicazioni vaghe, agli amici, ai taxisti se ne han voglia. Sulla guida stradale di Mosca cercavo appunto la via Granovskij e non la trovavo. I taxisti la ignoravano e anche Masha diceva di non saperne nulla. Perché cercavo proprio via Granovskij? Perche Hedrick Smith, nel suo libro l russi, scrive che al numero 2 di questa via c'è un magazzino dove i dirigenti del Comitato centrale e le loro famiglie si possono rifornire d'ogni ben di Dio. E naturalmente volevo verificare. Alla fine Masha decise di ricordarsi dove era questa via Granovskij e mi ci portò. Ma aveva talmente paura che le dissi di lasciarmi solo e di tornare a casa. Mi inoltrai per la via Granovskij, una delle strade-bene di Mosca, non lontana dal Cremlino. Sulla facciata d'una stupenda casa barocca, d'un rosa cupo, una lapide ricordava che lì aveva abitato Kossighin (per la verità in quella casa aveva vissuto anche Trotskij, nel 1927, quando era stato espulso dal partito e aveva dovuto lasciare il suo alloggio al Cremlino). Davanti a questa storica casa e fino all'angolo della via stazionavano una ventina di Volga nere e qualche grossa Mercedes. Di fronte, sul lato opposto della strada, c'era un nudo e grigio edificio sulla cui porta d'ingresso era scritto semplicemente: «Ufficio lasciapassare». Gli autisti delle Volga uscivano da questo edificio con dei grossi pacchi, li caricavano sulle macchine e partivano. tra un movimento continuo. alle Volga e alle Mercedes che se ne andavano se ne sostituivano altre in arrivo. A volte sui sedili posteriori erano sedute delle eleganti signore. Su una limousine intravidi un uomo di mezza età con un bel cappotto grigio ed il cappello. Faceva una certa impressione, devo dire, vedere quella gente che si portava via, in tutta tranquillità, quello che I'enorme folla di Mosca cerca affannosamente, e spesso inutilmente, per tutta la sua giornata oltre a generi di lusso come caviale, salmone, storione in scatola, carne scelta, vini pregiati della Georgia e della Moldavia e prodotti d'importazione inabbordabili per le masse russe: cognac e profumi francesi, whisky scozzese, sigarette americane, cravatte italiane, radio tedesche, apparecchi stereo giapponesi. La società sovietica è divisa in caste che hanno vite diverse, regole diverse, negozi diversi, soldi diversi e quasi nessun contatto fra loro. Le tre caste più evidenti sono: la nomenclatura (cioè il vasto ceto politico), gli stranieri, la gente comune. Poi ci sono una serie di sottocaste, i militari, gli artisti, gli scienziati, gli sportivi, la potentissima unione scrittori, ognuna con i suoi privilegi particolari. «Superato il cancello grigio trovai tre miliziani...» Anche i cimiteri sono divisi in caste, ci sono i cimiteri popolari, quelli un po' più su, come il Vagankovskoie, e quelli della gente-bene, come il cimitero del Novodievici Monastir, dove si entra solo se muniti di lasciapassare. Proprio qui, al Novodievici, volevo recarmi perché ci sono la tomba di Kruscev, quella di Allelujeva Stalina, l'ultima e infelice moglie di Stalin, quella del musicista Scriabin e, secondo mia madre, ci dovrebbero essere anche le tombe dei miei bisnonni. Ma Masha me lo disse subito: «Guarda che non ti faranno entrare, ci vuole il lasciapassare». «Figurati se ci vuole il lasciapassare per entrare in un cimitero». «Prova...». Ed infatti provai, ma avevo appena superato il grigio cancello socchiuso che tre miliziani mi si fecero incontro e mi allontanarono in modo duro, sgarbato, respingendomi su] portone proprio mentre vi entrava una bionda signora esibendo il lasciapassare marrone avvolto in una elegante custodia di pelle. Gli stranieri hanno i loro negozi, i beriozka, e, fra le altre cose, godono del curioso privilegio di non far le lunghissime i file che si creano davanti al mausoleo di Lenin o per entrare alla galleria Tretiakov o in qualsiasi altro museo di Mosca. Per essere più precisi gli stranieri possono, mostrando il passaporto, inserirsi a metà della fila. Non è una forma di cortesia nei confronti dell'ospite venuto da lontano, come si potrebbe pensare, è che gli stranieri appartengono ad una casta diversa, che ha un regime particolare e fra i cui diritti c'è anche quello di fare mezza coda. Come vivono i russi questo sistema che ha istituzionalizzato il privilegio e il principio di un doppio livello di vita, uno per l' elite, l'altro per le masse? Lo subiscono passivamente, con fatalismo, cercando di non vedere. Del resto la nomenclatura è sufficientemente accorta per non ostentare i propri privilegi (l'atmosfera di discrezione in cui sono avvolti i traffici di via Granovskij ne è un esempio), cerca di farsi vedere il meno possibile in giro, ha calato fra sé e la gente una parete di segretezza: vive in ghetti residenziali, frequenta club riservati. ha le sue cliniche, addirittura i suoi aeroporti (il Vnukovo II), gira per Mosca solo in macchina e con le tendine grigie perennemente abbassate per sottrarsi agli sguardi. La gente comune, come si è detto, subisce tutto questo con una certa indifferenza. Del resto l'indifferenza, almeno così mi è sembrato, è il sentimento che la maggioranza dei russi nutre nei confronti del regime. Non c'è adesione, ma non c'è nemmeno rifiuto. Ogni russo cerca di arrangiarsi come meglio può sotto il regime, gli rende l'omaggio formale che viene richiesto, e che è utile per non aver grane, eppoi si fa i fatti suoi. Un pomeriggio, con Masha, entrai in un negozietto del vecchio Arbat che vendeva poster. C'erano manifesti.di Lenin, di Marx, di Engels, del Politburo al completo e altri che raffiguravano “il lavoratore socialista”, il volto scolpito e severo, in quegli atteggiamenti scultorei così cari alla retorica sovietica. «Ma chi li compra?»,  chiesi a Masha, «nelle vostre case non ne ho mai visti». «Li compriamo noi», rispose lei, «quando ci sono feste nazionali e li mettiamo nei nostri uffici». A parte i dissidenti, che comunque sono un gruppo ristrettissimo, i russi non hanno una coscienza politica come la intendiamo noi. Proteste politiche contro il regime non sono nemmeno pensabili da parte della maggioranza e non solo per una questione di polizia. Il dissenso, quando c'è, si esprime semmai in forme molto indirette come al cimitero di Vagankovoskoie dove la tomba di Vladimir Vissozkij, un cantore di ballate che sotto Breznev conobbe la prigione per ii suo spirito anticonformista, è letteralmente sommersa dai fiori, mentre, proprio accanto, quella di un famoso partigiano moscovita che si immolò contro le truppe tedesche è lasciata desolantemente abbandonata (cosa che ha provocato, a quanto pare, l'ira di Gorbaciov). Ma tutto si ferma qui. Del resto di politica e di storia i russi conoscono quello che gli hanno insegnato la scuola e la propaganda. Di Trotskij non sanno che fu il comandante dell' Armata Rossa, ma che litigò con Lenin e che non volle firmare la pace con i tedeschi, cosa che provocò grandi lutti. E tutto va di conseguenza. Così Masha, che è una ragazza intelligente, colta, sensibile, che non è iscritta al partito, che vive anzi ai limiti consentiti dal regime, una volta che le chiesi cosa pensasse dell'intervento sovietico in Afghanistan, rispose: «Hanno fatto bene». In un'altra occasione mi disse: «In un libro giallo italiano ho letto che il Kgb tortura la gente e mi sono indignata. Queste cose da noi non succedono».Dei protagonisti recenti della storia sovietica sanno con infallibile sensibilità qual è la loro esatta collocazione negli umori attuali del Cremlino. Dopo aver visitato il mausoleo di Lenin si gira dietro, dove ci sono le tombe dei più alti dirigenti del partito sormontate dai loro busti. La prima è quella, recentissima, di Cernenko, poi viene Andropov e così via. Quando, seguendo la fila, arrivammo alla penultima vidi l'effigie inconfondibile di Stalin. Mi fermai un attimo, stupito di trovarlo lì. Ma Masha mi spinse subito avanti: «Per carità. Via, via. Non fermarti proprio qui». Stalin infatti oggi è parzialmente riabilitato anche se non è più il «piccolo padre». Ma la consegna tacita è che meno se ne parla e meno lo si nota e meglio è. I russi sono nazionalisti. Ma in modo ingenuo, quasi candido. A differenza degli americani non si inorgogliscono della potenza militare, del prestigio, delle ricchezze ma d'altro: loro sono più belli, sono più generosi, sono più buoni, la Russia è il Paese più vasto del mondo e così via. Degli americani hanno paura e non si può dire, dal loro punto di vista, che abbiano tutti, i torti. Parlo della gente. Un picchetto di soldati fisicamente identici Di qualità tutta diversa è, naturalmente, il nazionalismo del regime il cui carattere è bene espresso, simbolicamente, dall'impressionante cambio della guardia davanti al mausoleo di Lenin. Ogni giorno una folla enorme si raccoglie sulla piazza Rossa per assistere a questa cerimonia, una folla che s'ingrossa man mano che si avvicina il momento del cambio, allo scadere di ogni ora. I soldati, due reclute giovanissime, il viso arrossato dal freddo, il fucile imbracciato, stanno immobili, impassibili, uno di fronte all'altro, davanti all'ingresso del mausoleo, mentre il vento gelido fa oscillare le lunghe palandrane grigie. Pochi minuti prima dello scadere dell'ora si sentono dei forti e cadenzati passi di stivali: al di là della folla che preme si vede venire avanti un ufficiale con i due soldati destinati a dare il cambio alle sentinelle. Il picchetto sale i gradini del mausoleo, si ferma per qualche secondo davanti alla porta chiusa, le spalle rivolte alla folla. Quando la Spasskaia, la torre del Cremlino, suona l'ora, con un movimento rotatorio quasi impercettibile avviene il cambio: i soldati del picchetto sono ora al posto delle sentinelle e queste ai fianchi dell'ufficiale, il viso verso la folla. I soldati sono scelti fisicamente identici, o molto simili, in modo da accentuare la spettacolarità del cambio. C'è ancora un momento di pausa, poi l'ufficiale ed i soldati del picchetto alzano a dismisura la gamba stivalata e la tengono così, alta, rigida, puntata verso la folla, per un istante interminabile, calandola poi di colpo, con un tonfo di stivale, per alzare l'altra. La folla si scioglie, ridendo di nascosto. L 'immensa piazza si fa quasi deserta, ma là sotto la Spasskaia le tre figurette continuano a marciare rigide nel loro grottesco passo dell'oca, burattini tragici mossi da fili invisibili. È la stessa rigidità, se si vuole, che si trova nei cosiddetti «russi ufficiali», cioè i russi del regime. Sono stato un tardo pomeriggio da Cecilia Kin, italianista insigne, membro dell' Unione scrittori. Ho bevuto il tè nella sua bella casa, protetta dalle file di aceri e di tigli della Crasnoarmescaia, una delle vie più belle di Mosca, una casa che si può permettere anche il lusso della portinaia (una vecchina, l'Unione Sovietica si regge sulle vecchine, che dorme in una brandina piazzata in un sottoscala). La Kin, una piccola e anziana signora, conosce tutti in Italia, da Sciascia ad Einaudi, da Scalfari a Montanelli, ed è straordinariamente addentro alle cose italiane, alle beghe italiane, agli intrallazzi italiani. Mi chiese del Corriere, del Giorno, di Zucconi («democristiano, ma grande giornalista»). Ma ogni volta che io spostavo il discorso sulle vicende russe mi rispondeva: «Non ricordo, non so. lo vivo ormai chiusa in casa, vado pochissimo fuori». Le chiesi allora di Giuliano Gramsci, il figlio di Antonio che vive qui a Mosca (quel Sulik a cui Gramsci, dal carcere, spediva a Mosca, dove la moglie s'era rifugiata, lettere splendide e strazianti, sforzandosi di mantenere, nonostante tutto e contro tutto, un rapporto col figlioletto separato da lui dalle mura del carcere, dal regime, da migliaia di chilometri, da molte frontiere, e da anni di lontananza). Mi disse che Giuliano fa il musicista e mi parlò della.sua ammirazione per Antonio Gramsci che fonde in sé, cosa rarissima, le qualità del grande politico e del grande scrittore. Le dissi che ero d'accordo e che un altro caso del genere mi pareva essere quello di Trotskij. «Trotskij? Ho letto molto poco di lui, non saprei dirle». La Kin si disse entusiasta di Gorbaciov (che del resto qui piace anche alla gente comune se non altro perché quando parla «non legge la lista, come facevano quelli di prima» ). «Noi intellettuali ci attendiamo molto da Gorbaciov» mi disse la Kin, ma quando le chiesi che cosa non funzionasse prima di lui disse che anche prima andava tutto benissimo. Le  chiesi di Tichonov. «Credo alla versione ufficiale. Era malato». Un'altra cosa che piaceva molto a Cecilia Kin era la campagna lanciata da Gorbaciov contro l'alcolismo e la vodka. Molti negozi di alcolici sono stati chiusi a Mosca, agli altri è stato imposto un orario rigido: dalle due alle sette del pomeriggio. Anche i ristoranti vi si devono attenere ( è il motivo per cui ristoranti normalmente zeppi ed inabbordabili come il georgiano Aragvi sono insolitamente vuoti se ci si va verso mezzogiorno e mezzo, l'una). Per ora la campagna contro la vodka ha avuto come unico risultato quello di allungare le già poderose file davanti agli spacci di alcolici, file che adesso si attorcigliano come la coda di un serpente intorno ad interi isolati. In queste file ci sono uomini, ci sono donne, ci sono casalinghe, ci sono vecchi, ci sono operai, ci sono impiegati, c'è tutto il popolo minuto di Mosca. Alla fine quando escono dagli spacci, chi stravolto, chi trionfante, chi con l'aria furtiva ed un po' vergognosa davanti agli occhi del miliziano che vigila, consegnano due delle tre bottiglie che hanno comprato (il massimo consentito) agli amici in trepida attesa e i più spudorati vanno a tracannarsele subito in qualche deserto giardino dei paraggi. Una delle primissime misure prese da Lenin e Trotskij appena giunti al potere fu quella di combattere con i mezzi più drastici «la piaga dell'alcolismo, questa vergognosa eredità della Russia zarista». Ma, come si vede, nemmeno loro arrivarono a capo di nulla. Quella domanda fatta all'improvviso Eravamo seduti sulla panchina di legno di uno di quei graziosi cortiletti d'aceri e di pioppi scampati alla distruzione dell'antica Mosca, in un quartiere di vie strette e di casette liberty, desolato e semidisabitato, che sta alle spalle del vecchio Arbat e del terrificante viale Kalinin. I rumori dell'incessante folla di Mosca ci giungevano attutiti, lontani, estranei. Su uno degli angoli del cortile si alzava una vecchia fabbrica, con le grandi vetrate opache tipiche degli inizi del secolo e la scala di ferro antincendio che si inerpicava su per i muri esterni fino alla ci- miniera spenta. Un bimbetto giocava solitario attorno a una pozzanghera tirando la sua barchetta. Guardavo in silenzio il profilo immobile di Masha, i suoi occhi verdi, melanconici. Era la sera degli addii, partivo l'indomani. All'improvviso Masha mi chiese: «Tornerai ancora a Mosca?». Non era una domanda formale. Dieci giorni fianco a fianco avevano creato fra di noi un'intesa, forse l'abbozzo di un sentimento. Era comunque, come diceva lei, una «tranche de vie», una fetta di vita, che ci lasciavamo alle spalle. Alla sua domanda volevo perciò dare, a mia volta, una risposta che non fosse convenzionale, di circostanza, che riassumesse il senso di quello che avevo vissuto e visto nel mio soggiorno a Mosca. Ma non trovavo le parole e tacevo. Masha chiese di nuovo: «Allora, tornerai a Mosca?». «Sì, con gioia», risposi «quando non ci sarà più bisogno del lasciapassare per entrare in un cimitero».

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Mosca, novembre. I due sordomuti mi avvicinarono in uno dei rarissimi caffè di Mosca, in via Pianetcka, di fronte al Beriozka, che è uno di quei magazzini dove solo gli stranieri, o quei russi che sono in possesso dei cosiddetti «rubli certificati» (otto volte il valore del rublo normale, al mercato nero), possono comprare merci di importazione o articoli di fabbricazione sovietica difficilmente reperibili sul mercato (hanno diritto ai «rubli certificati» i russi che guadagnano denaro all'estero, artisti, scrittori, diplomatici, sportivi, marinai, o che godano, per imperscrutabili motivi, di questo privilegio: militari, giornalisti, guide dell'lntourist, dirigenti governativi di rango inferiore). Masha, la mia guida, era alla cassa per pagare mentre io stavo in piedi davanti a un alto tavolino self-service. I sordomuti presero a tirarmi il paltò e i pantaloni, accompagnando i gesti con rauchi suoni gutturali e cercando di farmi capire che desideravano acquistare abiti occidentali. Li lasciavo fare, incuriosito. Temendo che, a causa della loro menomazione, non avessi capito bene, i due strattonavano i miei abiti sempre più forte sfregando contemporaneamente il pollice contro l'indice nel gesto internazionale che significa denaro. Alla fine arrivò Masha e minacciò di chiamare la polizia, al che i due, dimostrando di sentirci benissimo, si dileguarono. Portai la mano alla tasca destra dei pantaloni: il portafoglio non c'era più. Mi precipitai fuori del caffè all'inseguimento dei falsi sordomuti, ma naturalmente erano già svaniti nel nulla. A parte la mia alloccaggine, dovuta anche alla curiosità professionale, un colpo magistrale. A Napoli non avrebbero fatto meglio. Quando chiesi al dottor Mattiolo, console dell'ambasciata d'Italia, cosa dovessi fare, mi rispose che una denuncia alla polizia era del tutto inutile. «Già», dissi io, «tanto non ne caverebbero nulla». «No, non è per questo», mi rispose il console, «è che non accetterebbero la denuncia, non ammetterebbero mai che un furto del genere possa avvenire a Mosca e lei perderebbe solo del tempo». In cucina, al caldo, fra amici, batte il vero cuore della casa Comunque il furto mi diede modo di entrare meglio nel carattere e nella vita dei russi. Innanzitutto mi accorsi che, paradossalmente, a Mosca si vive più facilmente da poveri che da ricchi. Dico questo in due sensi. Il primo è che, effettivamente, avere molto denaro serve a poco, perché mancano i beni in cui spenderlo (qui la vera ricchezza è data dai privilegi di cui godono gli strati superiori di questa società rigidamente divisa in caste). In secondo luogo, la vita di Mosca è ritmata su una dignitosa povertà per cui, se uno si adegua, non ha problemi. lo ero rimasto assolutamente senza denaro, a parte i 60 rubli di sussidio ( circa 130 mila lire), che mi aveva dato l'ambasciata. Se una cosa del genere mi fosse capitata a Parigi, a Londra, a New York, sarei dovuto tornarmene subito a casa. A Mosca restai invece ancora una settimana senza grandi sforzi e senza sottopormi a particolari privazioni. Infatti i prezzi dei servizi essenziali, trasporti, comunicazioni, telefoni, cibo, se uno si accontenta di quello che c'è nei negozi o nelle stalovaie, le mense popolari, sono bassissimi. L 'assistenza medica è gratuita. Di affitto si pagano dai sei agli otto rubli, e anche meno, al mese su stipendi che sono, al livello più basso, di 125 rubli. Certo, i servizi non sono granché ( oltretutto i medici, chissà perché, sono fra i lavoratori meno pagati), gli appartamenti sono piccoli e modesti. In genere le case russe si presentano meglio all'esterno che all'interno. Per esempio i grandi quartieri satellite della periferia di Mosca, il Krilazkoie, il Matvieieskoie, sono del tutto simili ai nostri, al Gratosoglio di Milano, alla Magliana Nuova di Roma, al Cem di Bari, per le dimensioni disumane, le torri di quindici, venti piani allineate in interminabili file o ammucchiate a casaccio o, peggio ancora, messe in modo, come al Krilazkoie, da formare un grande anello chiuso. Questi quartieri sono, anzi, ancor più smisurati, più impressionanti di quelli italiani, però non hanno quell'aspetto scrostato, disfatto dei nostri (in genere gli edifici sono rivestiti di piastrelle bianche e azzurre, di dubbio gusto ma solide) e, soprattutto, hanno attorno boschi di aceri, di betulle, di tigli e non il desolante terrain vague e il paesaggio di sfasciume industriale, cimiteri di macchine, discariche, capannoni, eccetera, che caratterizzano i quartieri-ghetto popolari delle grandi città italiane (sia detto di passata, Mosca è una città pulitissima: non solo perché i suoi abitanti la tengono pulita, ma perché i moscoviti, da bravi ex contadini, non buttano via nulla, come invece succede, anche da parte dei poveri, nelle società opulente). I problemi cominciano all'interno, nelle rifiniture, nelle infrastrutture, nei servizi, nei bagni e soprattutto negli spazi. In questi quartieri, i giovani operai (si tratta infatti di quartieri operai) sono costretti a dividersi un appartamento di tre stanze in sei o sette. Stanno invece gradatamente sparendo le situazioni, comuni anni fa, delle coabitazioni coatte fra famiglie diverse. Il fenomeno della coabitazione rimane nel caso, frequente, di figli che si sposano e restano nella casa dei genitori perché non riescono a trovare un appartamento. Ma questa non è certamente una cosa che possa scandalizzare chi vive oggi in Italia. Ci sono anche delle soluzioni abitative diverse da quelle delle case statali. Marica, la ragazza che lavora alla radio di cui ho parlato nella prima puntata, abita in un edificio in cooperativa con proprietà a riscatto. Ciò le costa 50 rubli al mese su uno stipendio di 250, ma le dà il privilegio di avere due camere, una per sé, una per il figlioletto, Sasha, di dieci anni, il che, nella situazione sovietica, è un lusso. Siamo sempre al di sotto degli standard occidentali perché il bagno è minuscolo. proprio uno sgabuzzino, e manca, rispetto a noi. la sala da pranzo. Per cui la vita di relazione dei russi si svolge in cucina, è lì che si riceve, che si ospita, che si chiacchiera, che, se non è giornata di lavoro, si passano interi pomeriggi, è lì che, naturalmente, si mangia, però non ad orari fissi, ma spiluzzicando, facendo il tè, assaggiando un pezzo di torta, facendo cuocere ogni tanto qualcosa. Nell'atrio dell'università l'albo d'onore per i professori In realtà la cucina dei russi, nella sua sgangheratezza, è un luogo infinitamente più caldo, più intimo, più accogliente dei nostri salotti piccolo-borghesi, pretenziosi e freddi. Ero appunto nella cucina di Marica quando, verso le due, vi piombò, affamato come un lupacchiotto, Sasha che usciva allora da scuola. Era vestito nella divisa regolamentare, giacchetta azzurra e pantaloni dello stesso colore, ed in più al collo aveva il fazzoletto rosso dei pionieri (vi si iscrivono i ragazzi dai nove ai quattordici anni, dopo quell'età si passa al Komsomol rispetto al quale i pionieri sono un po' come i balilla nei confronti degli avanguardisti). Sasha mi mostrò i suoi giochi, che erano i giochi di tutti i bambini del mondo, macchinine, soldatini, e sua madre mi disse, con orgoglio, che andava molto bene a scuola. E questo è fondamentale per ogni giovane russo. Infatti, come è noto, la scuola sovietica è basata su criteri di selezione inflessibilmente meritocratici. Basta fare un salto all'università di giornalismo, che è una dependance della gigantesca università Lomonossov costruita sulle colline Lenin (cinquanta edifici, cinquantamila locali), per capire il clima. Nell'atrio, in bella evidenza, sono esposte le fotografie dei migliori professori del momento. Provate a pensare ad una cosa del genere in una università italiana. Anche la storia di questo Lomonossov, che fondò l'università nel 1756, e che ogni brava guida Intourist non omette di raccontare, con molta enfasi, ai visitatori stranieri, è emblematica ed edificante. Racconta, la guida, che Lomonossov viveva nella lontana Arkhangel'sk, sul mar Bianco, ed era il poverissimo figlio d'un poverissimo pescatore. Lomonossov venne a piedi da Arkhangel'sk a Mosca su delle povere scarpe di tela che, in breve, si sfaldarono e quindi continuò a piedi nudi, sanguinanti. Ma nulla poté fermarlo, arrivò a Mosca lo stesso, fece i più umili mestieri, patì, studiò e divenne un grande scienziato. E così dovrebbero fare oggi tutti i giovani sovietici. Certo Lomonossov, di cui, di fronte all'immancabile busto di Lenin, campeggia un ritratto in ricchi abiti settecenteschi che pare uno di quei personaggi prediletti da Brulov (pittore principe dell'aristocrazia, e che fu poeta ufficiale della zarina Elisabetta) forse oggi si stupirebbe un poco a sapere d'essere indicato come esempio ai figli della rivoluzione d'Ottobre. Una volta finiti gli studi, il posto è garantito. Meno noto è che ai medi e bassi livelli esiste una notevole mobilità del lavoro. Si può cambiare occupazione con una certa facilità e si possono trovare soluzioni non necessariamente irreggimentate. Masha, per esempio, che lavora in fabbrica, medita di lasciarla presto per un lavoro a casa ed essere così più libera. E pensa che ce la farà. Il furto, come dicevo, mi diede modo di conoscere il carattere dei russi più da vicino. La loro generosità, per esempio. Non avevo ancora fatto in tempo ad essere derubato che Masha rovesciava le tasche e mi dava tutto quello che aveva, trenta rubli, un quarto del suo stipendio (l'ambasciata italiana, ricordo, me ne diede 60 che naturalmente dovrò restituire). Quel furto, in realtà, danneggiava più lei che me perché io non avevo più i soldi per pagare il suo lavoro, una somma considerevole. Ma lei non sembrava minimamente preoccuparsene. «Me li darai» diceva «quando tornerai a Mosca». Ma, a parte Masha, tutti i russi che conoscevo fecero a gara per offrirmi rubli e persino dollari (la comunità italiana, naturalmente, non mosse dito). Hanno le mani bucate anche quando non possiedono nulla È che i russi hanno col danaro un rapporto molto diverso dal nostro. Non lo rifiutano, tutt'altro, ma pensano che sia fatto per essere speso. Sono avidi di mance, ma ne danno di altrettanto laute. E si meravigliano che gli italiani siano sempre lì a guardare il resto. È  assolutamente abituale a Mosca chiedere ad un passante i due copechi necessari per telefonare. Come è abituale, per loro, prestar rubli e farsene prestare. Cova in ogni russo, per stracciato che sia, l'animo di un principe, c'è sempre un pizzico di simpatica megalomania in quel che fanno, sono scialacquatori ed hanno le mani bucate anche quando non posseggono niente. I russi inoltre si fanno in quattro per aiutarti. Questo stupirà chi ha sperimentato la leggendaria scortesia dei moscoviti sui luoghi di lavoro, negli uffici, nei negozi, sui taxi. Ma bisogna pensare che Mosca è, come Roma, una grande città ministeriale, sia in senso stretto, perché è la capitale e vi han sede gli uffici amministrativi, sia perché ognuno, qualsiasi mestiere faccia, è in realtà un impiegato dello Stato. Sul lavoro quindi l'atteggiamento dei russi è assolutamente lo stesso degli impiegati dei ministeri romani, anzi ancora più indolente e strafottente, se possibile. Ma basta che una cosa non sia per lavoro, per dovere, che ridiventano immediatamente gentilissimi, affettuosi, partecipi. I russi non sono allegri. Possono avere improvvisi scoppi di allegria, soprattutto se c'è di mezzo l'alcool, ma non sono allegri. E anche dai loro scoppi di allegria c'è sempre da aspettarsi il peggio, qualche furore autodistruttivo, la violenza improvvisa, il passaggio repentino all'umore opposto, la malinconia che è il loro tono di fondo e più vero. La loro allegria, quando c'è, è sempre legata a qualche autolesionismo e non è davvero un caso che un tempo, dopo aver brindato, rompessero i bicchieri contro gli specchi e che, in Guerra e Pace, Pierre tracanni l'intera bottiglia di vodka seduto in bilico sul davanzale della finestra. In ogni caso, è un popolo tragico, cui manca la leggerezza del sorriso. Non per niente il loro autore è Ciaikovski, non è Mozart. È un popolo che ha conservato tutta la gravità dell'800 senza aver mai avuto la levità del '700. In tutto il periodo in cui sono stato a Mosca non ho mai sentito un uomo russo ridere, solo le donne e raramente. «I nostri uomini,» dice Masha «sono bespecniè, indolenti, lasciano passare le cose, non se ne curano, rinviano sempre a domani. L 'uomo russo fa fare alla donna sulla quale grava tutto il peso della vita in comune anche perché, molto spesso, gli uomini sono ubriachi» La donna è fondamentale nell'economia della società sovietica. Ne è il vero pilastro, molto più dell'uomo. La donna russa è impegnata su parecchi fronti, a cominciare da quello del lavoro. In Urss lavora l'85% della popolazione femminile in età per farlo, la percentuale più alta di tutti i paesi industrializzati (negli Stati Uniti, paese dell'emancipazione femminile, è del 50%). E si tratta spesso dei lavori più pesanti. Hendrick Smith parla della meraviglia per lo spettacolo «di donne che spaccano a picconate l'asfalto delle strade gettandolo a badilate sui camion (mentre il camionista se ne sta a guardare), donne che col piede di porco divelgono le rotaie del treno, scopano le strade, spazzano la neve, rompono il ghiaccio che si forma d'inverno, trasportano secchi da muratore, zappano campi, imbiancano le facciate degli edifici, buttano carbone nelle caldaie dei treni». Poi, naturalmente ci sono la famiglia, i figli, la casa, cui la donna, per l'indolenza, l'ubriachezza, le abitudini dei maschi russi e la mancanza di qualsiasi forma di assistenza domestica e di babysitteraggio, deve far fronte completamente da sola. Dice Marica: «A trentacinque anni qui la donna è già finita, una vecchia. Perche lavora, perché deve occuparsi della casa, dei bambini, del marito e non ha nessun aiuto. Eppoi anche queste code quotidiane logorano. lo mi sento eternamente stanca». I russi sono infidi. È il rovescio della medaglia del loro sentimentalismo. È un popolo molto facile ad abbandonarsi, ma altrettanto pronto a pentirsi dei propri abbandoni. E questa tendenza naturale è accentuata ed aggravata dal regime che crea un pesante clima di sospetto reciproco. C'è sempre la possibilità che un russo sia un informatore della polizia o che, all'occasione, possa diventarlo. Un giorno che non aveva potuto accompagnarmi perché doveva avviare le pratiche per poter andare in vacanza in Crimea (non solo gli occidentali, ma anche i russi sono sottoposti a vincoli per i loro sposta menti nei territori dell'Unione Sovietica, esiste un passaporto interno), Masha mi mandò, in sostituzione, una sua amica, Anna, una bella ragazza con la quale mi intesi bene. Lavorammo insieme intensamente per tutto il giorno, ma sul far della sera Anna cominciò ad incupirsi, a dirmi che ero un tipo strano perché non volevo vedere le cose che interessavano gli altri come i teatri, i musei o i grandi empori per gli stranieri, e che, insomma, lei pensava che non fossi un vero turista, ma che ero a Mosca per altre ragioni e che questo era pericoloso. «Oh caro, caruccio, ti prego, dimmi il cognome di tua madre» Mi inquietai un poco e risposi: «In ogni caso non stiamo facendo nulla di male, giriamo per Mosca come fan tutti gli altri. Che ci possono fare?». «Oh» disse lei «vedremo come andrà a finire. Tu conosci questo paese: può sempre succedere di tutto». Poi cominciò a chiedermi qual era il cognome russo di mia madre, con un'insistenza che mi parve eccessiva e rifiutai di dirglielo. «Non ti fidi?». «No». Anna scoppiò a piangere: «Oh caro, caruccio, lo so che non sei un turista, lo so, l'ho visto. Non ti preoccupare non ne farò parola con nessuno. Ma tu dimmi il cognome di tua madre». Fu allora che mi allarmai sul serio. Quando i russi ti piangono addosso, e non sono ubriachi, c'è sempre da temere il peggio. Capii che la piccola voleva vendere qualche informazione alla polizia, magari con qualche opportuna esagerazione. Eppure le lacrime di Anna erano vere, le scendevano a gocce lungo il viso sconvolto, sincere. E mi venne in mente, fatte tutte le debite proporzioni, un vecchio episodio che riguarda Bucharin e Trotskij. Era il '22, Lenin aveva appena avuto il primo colpo apoplettico ed era già iniziata la sorda lotta per la successione fra Stalin e Trotskij. In quel periodo Bucharin si recò da Trotskij, che era leggermente indisposto e, dopo avergli fatto un resoconto dettagliato della malattia di Lenin, cadde sul letto e, abbracciandolo con la coperta e singhiozzando, gli disse: «Babuska caro, carissimo, non ammalarti anche tu, per favore, non ammalarti... Sono due le persone alla cui morte penso sempre con orrore. Lenin e te». E così dicendo, Bucharin piangeva sulla spalla di Trotskij, il quale lo consolò e lo mandò via un po' più tranquillo. Ma Bucharin non fece in tempo a voltar l'angolo che già correva trafelato da Stalin, stringeva alleanza con lui e tradiva il «babuska carissimo». Ma la cosa straordinaria come racconta lo stesso Trotskij in Ma vie è che, nel momento in cui piangeva sulla sua spalla, Bucharin era assolutamente sincero.

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Ancora una volta John McEnroe, il giovane tennista americano d'origine irlandese, numero uno del mondo, ha dato in escandescenze. In questo caso però non si è trattato di una palla contestata finita indecifrabilmente vicino alle linee, ma d'altro. Mentre si aggirava nella hall del lussuoso Regency Hotel di Melbourne, braccato da decine di giornalisti di cui non riusciva assolutamente a liberarsi, McEnroe ne ha alla fine aggredito uno, il più insistente, Geoff Easdoff del Melbourne Herald, pigliandolo per il collo e sollevandolo di peso. Poi, spintonandone un altro paio, si è scagliato addosso ad un fotografo che aveva ripreso la scena. Quando ad un Mc Enroe più calmo è stato chiesto perché avesse aggredito il giornalista ha risposto: “Continuava a chiedermi se Tatum O' Neal [la ragazza del tennista, ndr] è incinta e se è vero che, per questo, l'ho sposata segretamente». Naturalmente il comportamento del bollente McEnroe è stato duramente stigmatizzato dalla stampa australiana e da quella internazionale che si è occupata dello spiacevole episodio. lo credo invece che John McEnroe abbia ragione, anche se l'ha fatta valere a modo suo che è poi quello di un ragazzo di ventisei anni che ha dimostrato più volte di non essere disposto ad accettare fino in fondo le spietate regole del business tennistico internazionale che impongono di ingoiare qualsiasi cosa in nome del dio quattrino. Infatti ci sono dei limiti che la stampa, sportiva e non, non dovrebbe superare: e sono quelli che riguardano la sfera intima di una persona quando le notizie relative non assumono nessun rilievo pubblico. Se Tatum O' Neal è fidanzata di McEnroe, se è incinta, se i due si sono sposati in segreto sono cose che non ci interessano o, se anche ci interessano, non ci riguardano e non ci devono riguardare. Tanto più quando i protagonisti dimostrano di voler mantenere private cose che sono private (se invece si è come Pippo Baudo che, sotto l'occhio della Tv, intervista la propria fidanzata, si perde il diritto alla decenza).Si obietta che è proprio grazie a questa ossessiva attenzione dei mass media che i McEnroe, i Lendl, i Becker guadagnano miliardi di lire e che quindi non hanno diritto di lagnarsi. lo credo invece che sia venuta l'ora che i tennisti guadagnino di meno, ma che tornino ad essere osservate alcune fondamentali regole di convivenza civile e di reciproco rispetto. Così come credo che non siano accettabili certe forme di aggressione propriamente fisica che assume oggi l'informazione, con fotografi, cameramen, cronisti che braccano da presso le persone, le inseguono, le toccano, le tirano, mettono sotto il loro naso microfoni e registratori e non li tolgono più finche i poveracci non rispondono (è quanto ha cercato di far capire, sempre a modo suo, McEnroe al giornalista australiano che lo importunava come lo stesso ha raccontato: «McEnroe si è messo a starmi addosso e ha continuato a farlo venendomi dietro anche quando sono fuggito via. E, seguendomi passo passo, mi continuava a domandare come ci si sente ad essere seguiti, che se glielo dicevo andava via»). Queste aggressioni non risparmiano neanche personaggi con funzioni pubbliche che spesso, peraltro, invece di esserne infastiditi, mostrano di compiacersene, dando un cattivissimo esempio. lo ho ancora negli occhi il ministro della Difesa Giovanni Spadolini che esce da palazzo Chigi, all'epoca dell'affaire Achille Lauro, letteralmente circondato e fisicamente toccato, per quanto è larga la sua circonferenza, da fotografi e giornalisti con microfoni e registratori, e in particolare ricordo un cronista che, da dietro, facendosi appoggio col braccio della spalla del ministro, gli ficca un microfono in bocca. Beh, io un ministro che si fa brancicare in questo modo, non riesco a prenderlo del tutto sul serio. Questa non è, come si crede, democrazia, è solo sbraco. Ed è uno sbraco pericoloso. Perché anche la democrazia, come tutte le finzioni umane, ha bisogno di una certa parte di forma, di rito, di sacralità, di cerimoniale, e sì, diciamolo pure, di ipocrisia. Perché nei tribunali si impone ai giudici di indossare la toga? Non certo perché, con la toga addosso piuttosto che senza, i giudici emetteranno sentenze più giuste. Ma perché è solo attraverso. la sacralità conferita dalla toga che si può credere a questa finzione: che degli uomini, fatti di carne e di sangue, possano davvero giudicare delle azioni di altri uomini, fatti anch' essi di carne e di sangue. Questa finzione è, appunto, tale, ma poiché, quando c'è un agglomerato di uomini che vivono insieme, è socialmente indispensabile ecco che la si ammanta di ritualità che la rendano credibile. La società attuale, naturalmente, ha perso del tutto il senso di queste sfumature, essa opera ormai in nome di un solo e unico dio: lo spettacolo. A questo nuovo moloch si sacrificano il rito, il mistero ma anche, più semplicemente, la dignità e la riservatezza. In suo nome si osano le domande più intime, si vanno a mettere registratori fra i piedi degli allenatori delle squadre di calcio, negli angoli dei pugili sfiniti e, via via in crescendo, si ficcano obiettivi fra le gambe delle ragazze incinte, si osservano gli ultimi istanti di bambini in agonia, si filmano trapianti di cuore, si strappano confessioni agli ammalati di cancro, si scrivono libri sui propri figli drogati. Si dirà che, in fondo, non sta accadendo nulla di nuovo: il dio-Spettacolo, coniugato col dio-Quattrino, non fa che sostituire altri dei che non erano meno falsi. E questo, probabilmente, è vero. Ma ci si consenta perlomeno di dire che si tratta d'un dio stupido ed estremamente volgare.

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Mosca, novembre. Tornavo una sera dal terrificante quartiere Ismailova, cinque altissime torri di vetro, esclusivamente di alberghi e ristoranti, ai limiti dell'Ismailoski Park, uno stupendo bosco di betulle alla periferia di Mosca (sia detto di passata, i boschi, i parchi, i giardini non mancano nella capitale sovietica e sono forse la cosa più gradevole di questa città di piombo: 26 metri quadrati di verde per abitante, là dove Londra ne ha 9, Milano 5, Parigi 4). C' ero andato per cercarvi una discoteca, che, secondo alcune indicazioni dei miei amici russi, molto vaghe (le indicazioni sono sempre vaghe a Mosca), avrebbe dovuto stare ad un piano imprecisato di qualcuno di quei falansteri. Naturalmente non avevo trovato nulla, a parte un tassista esoso che, per riportarmi in centro, voleva dieci rubli (ci accordammo poi su tre). Del resto. vere discoteche, a Mosca, non esistono, le poche sono per gli occidentali, come quella del gigantesco albergo Cosmos (3.500 posti) dove, oltre ai turisti, vanno i diplomatici e i giornalisti stranieri portandosi i dischi ed estasiandosi per la presenza di un gruppetto di patetici punk sovietici per lo più informatori della polizia. In realtà, i giovani russi, la sera, fanno quello che fanno tutti gli altri russi quando vogliono divertirsi un po': si invitano l'un l'altro nelle proprie case. Ero dunque tornato nel centro di Mosca, deserto come al solito, e m'ero seduto sui gradini del Museo di Lenin, a due passi dalla piazza Rossa, quando da un anfratto sbucò una vecchia e mi chiese una sigaretta. I capelli bianchi, candidi, le uscivano di sotto l'immancabile berretta, la faccia aveva liscia, pulita, gli occhiali quasi eleganti. Però sentiva fortemente di vodka. Una «bolgia dantesca» vicino al Bolscioi Fumando ci mettemmo a parlare, come potevamo, in russo. Mi disse di chiamarsi Tamara. Quando le raccontai che mia madre è una russa che emigrò, di Saratov, si mise affettuosamente a chiamarmi con dei nomignoli. Misca, Mamisca che erano, più o meno, gli stessi vezzeggiativi che mi dava mia madre da piccolo. Mi permise di guardare nella sua avoska, la sporta a rete: c'era un grappolo d'uva, un barattolo vuoto, alcuni fazzoletti bianchi bordati di rosso. Alla fine le diedi tre rubli. E la vecchia, tutta allegra, chinò tre volte il corpo faticoso quasi fino a terra, come fan le donne nelle chiese ortodosse, e per tre volte mi baciò la mano. Entrai così diritto e di filato nella Russia di Dostoevski. Nonostante la sovietizzazione, nonostante il regime, nonostante l'occidentalizzazione, nonostante la tecnologia, nonostante l'Ismailova, il Cosmos e il prospekt Marxa, la Russia esiste ancora. Esiste nei russi. In questo popolo immenso, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospItale e infido, orgoglioso e  servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo, supremamente bugiardo, e comunque in ogni cosa eccessivo. Basta solo grattare un poco la patina piccolo borghese e tecnologica, avvicinare i russi là dove possono essere se stessi, nelle loro case, nei banja, nei mercati, e la vecchia Russia, anche se non più santa, la Russia contadina, barbara, profonda, salta subito fuori. Il banja, un incrocio fra la sauna finlandese ed il bagno turco, è un'antica tradizione russa. La maggior parte di quelli di Mosca risale al periodo zarista. lo sono andato in uno poco lontano dal Bolscioi, un edificio a due piani, che portava l'insegna: «Bagni per uomini-Di prima qualità». Sulla strada, a una bancarella tenuta dall'immancabile vecchia, si comprano i fasci di betulle. Poi si entra in un atrio di marmo bianco e di gesso che ricorda un po' gli ingressi dei postriboli d'una volta. Si salgono le scale di marmo e, pagati 60 copechi, si arriva alla prima parte del banja, una grande sala i cui soffitti e pareti sono interamente rivestiti di legno scuro finemente intarsiato ed arabescato. Alle finestre spessi vetri liberty, ma con motivi moreschi, in luogo delle tende. Dal soffitto pendono splendidi lampadari di cristallo. I posti a sedere sono meno sontuosi: delle specie di panconi ferroviari con un alto schienale a cui si appendono i vestiti, a parte alcuni separé a quattro posti nascosti dietro una tenda araba a strisce d'un giallo e d'un marrone molto carichi. In questa sala ci si spoglia, si affitta un lenzuolo bianco di tela ruvida e, con questo drappeggiato addosso, ma più spesso senza, ci si siede sui panconi. Chi sta lì, nudo, in completo relax, ad occhi chiusi, chi gioca a carte con un compagno, chi fuma, chi taglia un cocomero, chi fa uno spuntino con birra, pane e voblà. un pesce affumicato cui si stacca la testa a morsi e si mangia così com'è. Al banja vanno tutti: operai, impiegati, militari, manager, giovani, vecchi, padri con i loro bambini, è l'unico posto veramente interclassista d'una società che, come vedremo meglio in seguito, è rigidamente divisa in caste. Qui invece la promiscuità è assoluta (a parte, naturalmente, la nomenclatura vera e propria, l'alta burocrazia di Stato; che non si fa mai vedere in giro). Nudi, i russi rivelano dei corpi bianchi, tozzi, muscolosi, con dei sessi relativamente piccoli rispetto alla stazza. Molti hanno le braccia ed il torso tatuati. Lontano dai niet, dai divieti, dai lacci burocratici Quando da questo camerone si passa nel bagno turco si apre una scena dantesca: in una grande sala di marmo, sorretta da ampie colonne, fra vapori roventi ed il profumo penetrante delle betulle, uomini nudi siedono completamente immobili su delle panche di legno, altri saltellano sotto docce caldissime, altri rovesciano sulle piastrelle del pavimento, da certe fetide bacinelle, un'acqua scura per alimentare i vapori, altri si fustigano a vicenda, duramente, metodicamente, con le betulle, sul petto, sulla schiena, sulle gambe, come flagellanti medievali, altri si sferzano il corpo da soli con rapidi contorcimenti. Su un sopralzo in marmo, ornato da colonnette sottili, che sta in fondo alla sala e che è il punto più caldo della sauna, un giovane ne insapona un altro, sdraiato a pancia sotto, lentamente, dolcemente, minuziosamente, il collo, le spalle, la schiena, le natiche, le cosce, la pianta dei piedi. Eppure i banja russi, a differenza, poniamo, delle saune di New York, non sono luoghi di omosessuali (gli «uomini azzurri» come li chiamano qui). La gente dei banja è normalissima, il clima cameratesco, virile. Nondimeno da questa promiscuità, dal tormento del calore, dal rito della fustigazione affiora il profondo masochismo dei russi (che spiega anche, in parte, l'acquiescenza alla lunga teoria di feroci dispotismi, fino all'attuale, di cui è fatta la loro storia) e, legata a questo, la nascosta omosessualità, o, se si preferisce, la componente di femminilità, morbosa e crudele, che c'è in ogni maschio russo. Su un piano più convenzionale il banja è un luogo dove il russo viene per rilassarsi, un rifugio dove assaporare per qualche ora una libertà continuamente minacciata dai niet, dai divieti, dai lacci burocratici, dalle corvee defatiganti di cui è intrisa la vita della società sovietica. Al mercato degli uccelli come a Marrakech Una mattina che m'ero alzato prestissimo e mi trovavo in strada prima delle sei, sentii, nel pieno centro di Mosca, un gallo cantare. Mi voltai per vedere dove fosse in quell'oceano di cemento quando un altro gallo gli rispose in lontananza. Così un terzo e un quarto. Chiesi che cos'era a Masha e Masha decise che quel giorno mi avrebbe portato al «Mercato degli uccelli». Prendemmo il tram. Era domenica ed il tram era zeppo in modo indescrivibile, non si potevano muovere né braccia né gambe e ad ogni fermata continuava a salire gente. Noi eravamo in fondo alla vettura. Masha si fece dare da me cinque copechi e li passò a quello che era davanti a noi e costui a quello successivo: dopo trenta secondi arrivò, di ritorno, il biglietto. Notai che la stessa cosa faceva ogni persona che saliva, se non aveva l'abbonamento. Pensai che non solo a Napoli, ma neanche a Milano quei soldi sarebbero mai arrivati a destinazione. Finalmente il tram si svuotò e ci trovammo davanti al «Mercato degli uccelli». Il «Mercato degli uccelli» si tiene all'aperto, su un vasto spiazzo recintato e, oltre agli uccelli, vi si vende di tutto: gatti bastardi e gatti di razza, pesci, galli, galline, oche, tartarughe, serpentelli, lucertole, conchiglie, gusci di molluschi, pietre, da quelle di un minimo di pregio, come l'opale, a quelle di nessun valore ma belle per il colore o la forma. E cani, cani d'ogni tipo, bastardissimi e di razza, compreso lo stupendo lupo siberiano dal muso nero ed il resto del corpo chiarissimo, dal pelo argenteo o color sabbia. E certi pani gialli maleodoranti, che si muovono, si sformano e continuamente vengono riassestati, tagliati a spicchi e cubetti dai banditori, e che ad un esame più attento si rivelano essere grumi di piccolissimi vermi, cibo per i pesci d'acquario. Ma la cosa più singolare è che pochi sono i venditori per così dire professionali, la maggioranza è gente qualunque, è lì per vendere un cane, un gatto, una gallina che, nel freddo autunno russo, tiene in qualche borsa sdrucita o al riparo del bavero del cappotto o addirittura in tasca o che, come ho visto per un cagnolino, fa spuntare dal collo della camicia. Sembra di stare al mercato di piazza Djamnà el Fna a Marrakech, dove chiunque stende il suo tappeto e vende un chiodo, un paio di slip, una bottiglia vuota. «Vedi» mi dice Masha «chi compra quei galli, quelle galline, quelle oche non lo fa per tirargli il collo e cucinarli, ma per tenerli come animali domestici, sul balcone di casa.  Ecco perché hai potuto sentire cantare il gallo in piena Mosca». Il fatto è che anche nei russi di città, come i moscoviti, è rimasto un profondo legame con la campagna, da cui l'amore per gli animali rustici, ed il bisogno di tenerseli accanto pur in un habitat così diverso è solo uno dei segnali. Del resto sono molto spesso nipoti o figli di contadini o ex contadini essi stessi. Basta pensare che, negli anni della collettivizzazione forzata delle campagne attuata da Stalin, 18 milioni di contadini fuggirono in città e, nel periodo 1959-'70 se ne trasferirono altri 21 milioni (il che spiega le dimensioni mostruose prese da una città come Mosca). Ad ogni buon conto, 100 milioni di contadini restano ancora nelle sterminate campagne della Russia europea ed asiatica. Ed è su di essi e sul loro sfruttamento che per decenni ha vissuto, e ancora in parte vive, l'Unione Sovietica; è grazie a loro che può esistere una città come Mosca con i suoi assenteismi, le sue inefficienze. i suoi parassitismi e anche con le sue grandiosità ed i suoi lussi. Scrive il dissidente Lev Timofeev in L 'arte del contadino di far la fame: «All'improvviso, con stupore. ho capito che tutto il sistema sovietico, a partire dal nostro presuntuoso governo fino agli scienziati atomici ed ai poeti-parolieri, vive alle spalle della famiglia contadina, come una sanguisuga avvinghiata all'economia contadina. Per decenni infatti il contadino ha lavorato praticamente gratis per il kolchoz, cioè per la collettività. mentre per mantenere sé e la sua famiglia doveva contare sul suo appezzamento personale, non più di mezzo acro (un quarto di ettaro), perché così impone la legge». «Che tu viva soltanto del tuo stipendio» In pratica il contadino svolgeva un doppio lavoro, uno pagato e uno no. Negli ultimi tempi, soprattutto con Breznev, le cose sono migliorate per i contadini: continuano ad avere un doppio lavoro ma quello del kolchoz viene, sia pur miseramente, remunerato e, soprattutto, l' estensione dell' «appezzamento personale» è stata portata ad un acro (in compenso han preso a peggiorare condizioni dei cittadini, i quali, per poter vivere decentemente, hanno tutti, a loro volta, un secondo lavoro, tanto che, come racconta Hedrick Smith, per anni corrispondente del New York Times a Mosca, una delle maledizioni più feroci che si scambiano sovietici è: «Che tu viva solo del tuo stipendio»)Di questo immenso mondo contadino, per lo più negato agli occidentali, si può avere una qualche idea anche a Mosca andando nei mercati kolchosiani, i mercati cioè dove i contadini, che arrivano da quasi tutte le repubbliche dell' Unione, dall' Uzbekistan, dalla Georgia, dall' Azerbaigian, dalla Lituania, dall'Estonia, dalla Lettonia, dalla Bielorussia, vengono a vendere, a prezzo libero, gli ortaggi e gli altri prodotti della terra coltivati appunto sul proprio «appezzamento personale». Il mercato kolchosiano è uno spazio rettangolare, al coperto, molto simile ai nostri se non fosse per le linee arabeggianti delle porte e delle finestre e per qualche scarno fregio di stile anch'esso moresco. Dietro i banchetti stanno in piedi le vecchie e tozze contadine, col classico platok, il fazzoletto dai colori vistosi annodato dietro la testa (i pochi uomini portano invece la tubiteka, un cappello nero, quadrato, di tipo arabo), vestite di un grembiale bianco che copre una serie incredibile di gonne e sottogonne corte che lasciano vedere grossi polpacci fasciati da calze grigie di lana. Pagata sottobanco la visita a domicilio Vendono melograni, cetrioli, funghi, barbabietole, finocchi, rapanelli, il kizil che è un rosso frutto di bosco, cavolfiori, pomodori, mele, formaggio e la panna acida tipica della mensa russa. Mentre le commesse dei negozi di Mosca sono indifferenti e, più spesso, scostanti e maleducate, le vecchie contadine sono amabili e coinvolgenti. E si capisce facilmente il perché: le prime vendono per lo Stato, queste per se stesse. Così, quando ti avvicini, quei volti rugosi, scolpiti, si illuminano, bocche sdentate si aprono: «Vieni caruccio, piccolino, non avere paura, assaggia». L' assaggiare, lo spiluzzicare è uno dei riti del mercato kolchosiano. Le contadine non s' arrabbiano, paiono anzi compiaciute, poiché i prodotti dei mercato kolchosiano sono più freschi e molto migliori di quelli dei negozi di Stato ed il prezzo è libero (mentre nei negozi è fissato, appunto, dallo Stato), i prezzi sono molto più alti, fino a quattro volte quelli dei negozi (per tre mele rosse ho pagato la bellezza di tre rubli). Succede così che, a differenza di quello che accade negli analoghi mercati dei paesi europei. il mercato kolchosiano, sia per i prezzi, sia per il conseguente privilegio di non far la coda, è frequentato soprattutto dai russi-bene, e solo qui si vedono certe eleganti signore di cui vanamente si cercherebbero le tracce negli altri negozi di Mosca. I mercati kolchosiani a Mosca sono trenta. Ma capita spesso di vedere nei sottopassaggi, all' uscita delle stazioni del metro o di quelle ferroviarie, la donnetta che ha improvvisato un banchetto e vende pesce o carne o mele o magari pochi mazzi di rapanelli. Questo mercato libero dei generi alimentari è ufficiale e legittimo, ma non è che la piccolissima punta di un sommerso enorme, di una miriade di commerci privati semilegali ed illegali. A Mosca si scambia assolutamente di tutto, spesso nella forma primitiva del baratto: il biglietto di teatro con la bottiglia di vodka, lo sconto ferroviario con le scarpe occidentali, il caviale contro il registratore a cassetta. Vuoi fare un viaggio in Cecoslovacchia senza sottoporti alla lunga trafila burocratica? Lo compri da un amico che ce l'ha già, naturalmente a prezzo maggiorato. Vuoi avere la Zigulì senza aspettare i due-cinque anni che normalmente occorrono? La paghi 50 mila rubli invece dei 7 mila che è il prezzo fissato dallo Stato. Eppoi c'è il medico che, se lo paghi sottobanco, viene a casa. Il macellaio del negozio statale che vende la carne di nascosto. Ci sono idraulici privati, sarti privati, dentisti privati, asili privati. Il paese che ha abolito ufficialmente il mercato è, in realtà, tutto un mercato, un enorme, vorticoso bazar. Lo scambio diventa frenetico con gli occidentali da cui si comprano pantaloni, maglioni, scarpe, orologi, sciarpe, cravatte, macchine fotografiche, registratori, dischi, cassette e con i quali, soprattutto, si scambiano rubli con gli ambitissimi dollari ad un prezzo quattro volte superiore al cambio ufficiale (cioè quattro rubli per un dollaro là dove lo Stato sovietico stabilisce autoritariamente che il rublo vale sempre e comunque un 10 per cento più del dollaro. Ma non sono solo questi i traffici fra russi ed occidentali. Una sera mi trovavo a casa d'una simpatica signora che lavora nella redazione d'un giornale moscovita. Saputo che ero anch'io giornalista mi disse: «Fantastico. Ce n'è del materiale d'inchiesta a Mosca». «Certamente, ma son cose che poi si possono scrivere?» dissi io, alludendo al suo mestiere. «Sì, da voi» rispose lei, ridendo. Una lezione alla sposina che in Italia prenderà il volo In genere io non dicevo ai miei conoscenti russi d'essere giornalista. Mi trovavo infatti a Mosca con un visto turistico e avrei potuto avere delle grane. Ma di quella signora ritenni di potermi fidare perché la vidi impegnata in una serie talmente impressionante di traffici, di scambi, di baratti che sicuramente aveva altro per la testa che pensare a me. Beh, a cena con noi c'era una coppia, un italiano residente in Italia e una russa, che s'era sposata proprio quella mattina. Lui, Giovanni, sulla soglia dei cinquanta, calabrese, piccolo, atticciato. Lei giovane, alta, slanciata, bionda, due stupendi, profondi occhi scuri, oci ciornia davvero. Nessuno dei due sapeva una parola, o quasi, della lingua dell'altro. Ma Giovanni, il tipico masculo italiano d'una volta, un po' a gesti, un po' a parole, un po' con l'aiuto di Masha, impartiva alla sposina, già da quella prima sera di nozze, le regole sacre secondo le quali avrebbe dovuto d'ora in avanti comportarsi: pudicizia, occhi bassi, ordine in casa, il dentifricio si mette lì, lei in cucina, lui al lavoro, un figlio presto. E si infervorava, il poveretto, non sapendo, o non volendo sapere, che la giovane e bella russa, appena messo piede in Italia (il matrimonio le consente infatti l'espatrio), si sarebbe involata per sempre. (2- Continua)