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È stato detto che per commentare serenamente la sentenza che, alla fine del maxiprocesso di Napoli contro la malavita organizzata, ha condannato Tortora ed un altro centinaio di imputati, bisognerà aspettare la pubblicazione della motivazione, fra un paio di mesi. Nondimeno anche dal semplice dispositivo di condanna emerge un dato certo, almeno per Tortora: l'ex presentatore di Portobello è stato condannato solo sulla base delle accuse dei pentiti (ed uso il termine accusa e non quello di testimonianza a ragion veduta, per i motivi che vedremo fra poco). Riscontri obbiettivi, infatti, non erano emersi, né in istruttoria, né in dibattimento e non è possibile che siano saltati fuori in camera di consiglio che non è un magico cappello a cilindro, ma il luogo dove i giudici valutano gli indizi e le possibili prove emerse durante le altre fasi del processo. I magistrati di Napoli, qualsiasi sia la motivazione della sentenza, hanno quindi giudicato valide e sufficienti le accuse dei coimputati di Tortora, i cosiddetti camorristi pentiti. E questo è un fatto nuovo che ci riguarda tutti. Questo fatto nuovo, cioè il principio che si può essere condannati sulla base delle sole accuse dei coimputati, è conforme alle regole del nostro ordinamento giuridico o no? Per rispondere a questa domanda non ci si può accontentare di affermazioni generiche ed emotive, come troppe volte è accaduto durante questo processo, ma bisogna addentrarsi in un discorso tecnico e giuridico. Me ne scuso con i lettori, ma la posta in gioco è troppo importante, si tratta della nostra libertà, e vale, forse, un piccolo sforzo di attenzione. È innanzitutto assolutamente fantasioso che, come è stato scritto da più parti, esista una legge o una qualsiasi disposizione secondo la quale tre testimonianze incrociate hanno valore di prova. Questa è una voce nata chissà come e chissà perché fra i cronisti giudiziari. In passato si considerava prova la testimonianza diretta, de visu o de auditu, come si diceva, di due persone, ma si tratta della preistoria del nostro diritto. Il codice attuale non fa alcuna menzione del genere. Ma anche se, per assurdo, così fosse, resta il fatto che il nostro codice esclude esplicitamente che la deposizione del coimputato, e quindi la chiamata di correo, possa avere valore di testimonianza. Dice l' articolo 348 del Codice di procedura penale: «Non possono essere assunti, a pena nullità, come testimoni gli imputati dello stesso reato o di un reato connesso» e ribadisce l'articolo 465.  «È permessa la lettura degli interrogatori d'imputati dello stesso reato o di reato connesso... ma tali persone non possono, a pena nullità, essere assunti come testimoni». Non si potrebbe essere più chiari. Del resto il nostro ordinamento non considera come prova, di per sé sola, la confessione dell'imputato, come potrebbe considerare prove le accuse dei coimputati, quando, a lume di logica, chi confessa non ha, in genere, nessuna ragione di mentire (perché una confessione falsa non può recargli che danno), mentre chi accusa un coimputato può farlo nella speranza di trarne concreti vantaggi soprattutto oggi che è in vigore la cosiddetta legislazione premiale? La chiamata di correo, sia essa una sola, siano dieci siano cento, non ha quindi valore di testimonianza e a maggior ragione non ha valore di prova. Quale valore bisogna allora dargli? Molti giuristi, e fra questi c'è un nome autorevolissimo come Gian Domenico Pisapia, ritengono che la chiamata di correo abbia il valore di notizia di reato, sia cioè semplicemente una base di partenza per il magistrato (come una lettera anonima) che dovrà vagliarla e verificarla attraverso tutta una serie di elementi diversi {e non solo con altre chiamate di correo perché la somma di molti zeri dà ancora come risultato zero). La conseguenza più grave dell'introduzione della regola che la chiamata di correo, sia pur incrociata con altre, può di per sé sola costituire il fondamento di una sentenza di condanna è che inverte il fondamentale principio dell'onere della prova che spetta all'accusa (che deve provare la colpevolezza dell'imputato) e non alla difesa (che non ha l'obbligo di provare la propria innocenza). Questo principio è fondamentale sia perché è sancito dalla nostra Costituzione {articolo 27, comma 2: «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») che lo ritiene evidentemente un elemento imprescindibile di civiltà giuridica, sia per ancora più importanti ragioni tecniche e logiche. Come infatti ho già scritto in un'altra occasione, se è possibile provare con ragionevole certezza la colpevolezza di un imputato, molto più difficile, e spesso impossibile, è provarne l'innocenza soprattutto nei reati associativi dove nessun delitto specifico viene addebitato. La prova della propria innocenza è una probatio diabolica, una sorta di tela infernale dove più uno si agita per discolparsi, più finisce per rimanerne impegolato e, alla fine, strangolato. E quanto è accaduto al povero Tortora che, essendo obbligato a tentare di provare la propria innocenza di fronte alle accuse dei suoi coimputati, ha dovuto agitarsi tanto fino a dar l'impressione d'essere colpevole (dovendo scendere sul terreno dell'avversario, i camorristi pentiti, egli si è per ciò solo sporcato). Dopo la sentenza di Napoli siamo tutti cittadini in libertà provvisoria.