Ha suscitato scalpore la vicenda della ragazza che ha prestato il proprio utero alla madre per permetterle di avere un figlio. Per la verità il caso non è nuovo, ma ha un precedente, in Sudafrica, anche se in quell'occasione i ruoli erano invertiti ed era stata la madre a dare l'utero alla figlia. A prima vista questo scalpore può apparire incomprensibile poiché sono ormai migliaia, nel mondo, i bambini nati con le tecniche della fecondazione artificiale. Inoltre, in genere, la cessione dell'utero avviene per denaro mentre nei casi citati è stata fatta, presumibilmente, per amore e, quindi, per un motivo più nobile. E, allora, che cos'è che disturba? Il fatto, credo, che in casi come questi viene definitivamente scardinata l'immagine della famiglia cosi come eravamo abituati a concepirla: un uomo, una donna e, se il buondio voleva, dei figli. Qui c'è una madre, quella uterina, che è anche sorella di suo figlio e un'altra, quella genetica, che ne è anche nonna. Inoltre c'è una madre che, in un certo senso, ha un figlio da sua figlia e una figlia che lo ha dalla madre. C'è però chi giudica questo guazzabuglio come un passo avanti. Per esempio Giancarlo Zizola scrive sul Giorno: «Ci attende probabilmente una concezione più spirituale e meno biologica dei rapporti parentali: la priorità viene ora assegnata alla figliazione del cuore... piuttosto che a quella del sangue. In questa salita il genitore è soprattutto colui che manifesta una volontà disinteressata e operante di occuparsi del bambino, di assumerlo, e non più il genitore biologico: la verità del cuore prevale su quella del sangue». Sarà, però bisognerebbe chiedere, forse, anche il parere di un soggetto che pur ha qualche diritto: il bambino. Oggi un bambino può avere tre madri (uterina, genetica e sociale) e due padri (biologico e legale}. Nel caso in questione poi il fatto nuovo è che il bambino avrà due madri «contemporaneamente». Mentre infatti quando una donna presta il suo utero a un'altra per denaro essa perlomeno scompare dalla vita del neonato, qui invece, come osserva il filosofo del diritto Sergio Cotta, «le due madri rimangono comunque in scena, perché esiste già una parentela fra di loro e con il bambino; questi dovrà convivere con l'una e con l'altra e farà parte di un singolare triangolo: tra una mamma-nonna e una mamma-sorella». È giusto mettere in una tale situazione un bambino solo perché si vuole averlo? Nè io, diversamente da Zizola, sono convinto che questa voglia nasca sempre da un effettivo desiderio di maternità. Mi sembra anzi che molto spesso tali situazioni tradiscano un'altra degenerazione della civiltà dei consumi: un figlio come oggetto più che come soggetto, qualcosa che si deve avere a tutti i costi perché anche gli altri ce l'hanno, uno status symbol o, comunque, uno strumento e non un fine. Il caso in questione è certamente di questo tipo. Qui non c'era un desiderio inappagato di maternità -la donna ha già due figli- ma, come lei stessa ha detto, la paura di perdere il marito. Sentimento umano, umanissimo, anche questo, resta da vedere se per appagarlo sia giusto mettere al mondo un bambino con due mezze mamme. Ma, d'altra parte, è difficilissimo trovare oggi una regola morale che ponga un limite a questa come ad altre manipolazioni della medicina tecnologica. Ernesto Galli della Loggia, in un recente dibattito alla televisione svizzera con Luigi Firpo, Dino Cofrancesco e il sottoscritto (sia detto di passata: è sintomatico che per discutere in tv di cose serie, in modo serio e non spettacolarizzato si debba ormai emigrare in Svizzera), si diceva convinto che è necessario ritrovare un ethos pubblico che sia in grado di discernere fra i problemi straordinariamente complessi cui ci pone davanti la tecnica. Ma dove andare a ricavare questo ethos? Non certo dall'attuale pensiero laico che si è completamente appiattito sull'industrialismo e sulla tecnologia e ha come unico punto di riferimento la razionalizzazione dell'esistente. Una volta che la tecnica, che della razionalizzazione è il trionfo, ha aperto certe strade qual è il punto che «razionalmente» non si può oltrepassare? Se si sono accettati la fecondazione in vitro e poi il prestito dell'utero di una donna a un'altra, in nome di che cosa vietare questo passaggio fra madre e figlia? Se abbiamo accettato i trapianti di pelle, di rene, di cuore, di tessuti cerebrali, in nome di che cosa proibiremo, quando sarà possibile, il trapianto di un intero cervello? «Se un uomo può fare una cosa, la fa», mi ha detto, una volta, Edoardo Amaldi.L'errore, se di errore si tratta, è stato aprire questa porta e consentire alla tecnologia di sfondare il regno della natura. Adesso è difficile dire alla gente (e chi è poi in diritto di farlo?): ora basta, fin qui sì, più in là no. La tecnologia, abituandoci a dominare la natura in ogni sua forma, ci ha tolto ogni capacità di rassegnazione e di accettazione. In realtà è la nostra stessa condizione di uomini, in quanto esseri limitati, che non siamo più in grado di accettare. Abbiamo trasformato ciò che una volta erano scelte della natura in diritti irrinunciabili. Tutto, si tratti di un rene che ci manca o di un figlio che non viene, ci è dovuto e non importa se per averlo lastrichiamo sempre più la nostra strada di orrori, peraltro razionalissimi. Goya rivisitato: non il sonno, ma il sogno della Ragione ha generato mostri.
Nel venticinquesimo anniversario del tragico pomeriggio di Dallas si assiste a un diluvio di rievocazioni nostalgiche di John Kennedy. Dopo un quarto di secolo la sua leggenda resta intatta, anzi si incrementa. Anche perché pochi, in America, e la cosa è abbastanza spiegabile, ma anche in Europa, e lo è meno, hanno voluto andare a guardare negli occhi questa leggenda. In realtà proprio con John Fitzgerald Kennedy inizia un'era sinistra della storia politica, non solo americana, in cui si afferma il principio che l'immagine fa premio sulla sostanza, la forma sul contenuto, la rappresentazione sulla realtà. Con Kennedy si entra a vele spiegate in quella politica-spettacolo, oggi diventata norma, dove il successo d'un leader dipende dalla capacità, sua e del suo staff di pubblicitari, di bene impressionare i mass media più che da ragioni di sostanza. Dwight Eisenhower, il predecessore di Kennedy, fu eletto perché era il generale che aveva guidato gli Stati Uniti alla vittoria sui nazisti. Quando Kennedy divenne presidente era solo il rampollo più ruspante d'una potente famiglia americana, piuttosto losca, che si era arricchita durante il proibizionismo. Ma Kennedy era belIo e gentile di aspetto, era gIovane, era sorridente, aveva un bel ciuffo, una bellissima moglie, dei bellissimi bambini, si faceva scrivere dai suoi ghost writer, Goodwin e Soresen, frasi come: «Non chiedetevi ciò che il paese può fare per voi, ma ciò che voi potete fare per il paese». E fu subito mito massmediologico. Ciò consenti al bel ciuffo di tentare un vergognoso e disastroso colpo di Stato a Cuba, di dare inizio alla guerra del Vietnam (diventata, chissà perché, «sporca» solo col suo successore), di accelerare la corsa agli armamenti nucleari, che in quel periodo superarono di tre volte quelli dell'Urss, ma di passare ugualmente alla storia come il presidente degli Stati Uniti che più aveva amato la pace e la coesistenza; Nixon invece era brutto, aveva una faccia antipatica, e a nulla gli valse aver chiuso la guerra del Vietnam ed essersi riaccostato, con felice intuizione politica oltre che con benefici effetti sulla distensione internazionale, alla Cina: rimase sempre «Nixon boia». La presidenza di John Kennedy fu caratterizzata da un nepotismo, un clientelismo, una corruzione scandalosi, ma ciò non gli impedì, in virtù del bel ciuffo, d'essere unanimemente considerato il campione, duro e puro, della democrazia. Nel processo di beatificazione, Kennedy è spesso accomunato a Nikita Kruscev e a papa Giovanni, considerati, tutti e tre, più o meno per gli stessi motivi di immagine, come gli interpreti di una stagione indimenticabile, di una mitica età dell'oro, della pace e della speranza per gli uomini di buona volontà. Anche di Kruscev piacque l'aria bonacciona, contadina e furba, il suo parlar per antichi proverbi russi, la sua umoralità che lo portava a sfilarsi una scarpa all'Onu e a sbatterla sul tavolo, cosa che lo rendeva umano, molto umano. Poco importa che al momento del dunque, quando nel '56 gli ungheresi insorsero per togliersi di dosso il tallone di ferro dell'Unione Sovietica, il contadino tanto umano si sia comportato esattamente come si sarebbe comportato Stalin: mandando i carri armati a spianare nel sangue la rivolta ungherese bollata, in stile perfettamente Ghepeù, come «complotto di elementi nazifascisti». In quanto a papa Giovanni sarà stato anche «buono», non discuto, ma fu promotore d'un Concilio, il Vaticano Il, dai cui sconquassi la Chiesa sta solo oggi, a fatica, riprendendosi. In realtà la tanto decantata triade Kennedy-Kruscev-papa Giovanni è stata, a mio parere, una delle più nefaste apparse sulla scena politica mondiale del dopoguerra. Troppo spesso, forse, ci si dimentica che fu proprio durante questa mitica età della pace che il mondo, con la crisi di Cuba, andò più vicino di quanto mai lo sia stato alla terza guerra mondiale. Ma tant'è. È da tempo che preferiamo vivere di immagini e di apparenze che altro non sono, se andiamo a ben guardare, che strette parenti della retorica (per Savinio retorica è sproporzione fra immagine e realtà). Quando papa Luciani salì al Soglio centinaia di penne, penne laiche, laicissime, si esercitarono a trarre dal suo sorriso formidabili e felicissimi auspici per il futuro dell'umanità. E quando un Dio pietoso e poco rispettoso della retorica fulminò Luciani dopo solo un mese di pontificato, queste penne non si scomposero affatto ma si diedero ad applicarsi nel medesimo modo a Wojtyla. Durante il settennato di Pertini fummo asfissiati dalla retorica dell'umiltà, della modestia, della democrazia del presidente che «si comporta proprio come uno di noi» perché ogni tanto si fermava a prendere un caffè al bar. Nessuno si interessò al fatto che Pertini avesse, fra le altre, l'abitudine di telefonare ai direttori di giornale per chiedere il licenziamento in tronco dei giornalisti che non esaltavano le sue virtù democratiche. Del resto la retorica del «proprio come uno di noi» è una delle più pericolose e subdole. Perche è una retorica democratica e perciò più difficile da riconoscere. È quindi con un certo sgomento che leggo su 7 a proposito di John Kennedy jr: «Il peso del nome glorioso non lo ha guastato. Suona la chitarra, va all'università in blue-jeans... L' America lo considera il principe ereditario della sua dinastia senza trono». Siamo pronti a cascarci di nuovo: a confondere la democrazia con i blue-jeans.
Luciano Gallino, in un lucido articolo sulla Stampa, analizza le cause che hanno portato in Italia a quel vertiginoso calo del tasso di natalità evidenziato di recente da un rapporto del Cnr. Secondo Gallino la ragione principale di questo fenomeno, peraltro noto da tempo e comune a tutte le società industrializzate, sta nella rapida «diffusione nella società italiana del modello di vita delle classi medie». Questo modello vuole un alto reddito che è incompatibile con l'esistenza di una famiglia numerosa. Insomma: non possiamo permetterci più di un figlio. Ed è già grasso che cola.Sono parzialmente d'accordo con Gallino, ma vorrei enucleare dal quadro che egli fa alcuni elementi lasciati un po' in ombra. Per raggiungere l'alto reddito di cui oggi crediamo di aver bisogno, è necessario che in famiglia lavorino in due: lui e lei. Ed è qui, a mio parere, la ragione più autentica, che non è solo economica, della diminuzione delle nascite. Quando torna a casa dall'ufficio la donna è troppo stanca, troppo stressata psicologicamente per poter pensare al marito, alla famiglia, ai figli. Perché la verità è che la cosiddetta conquista femminile del diritto al lavoro ha semplicemente raddoppiato, in perfetta armonia con le esigenze della società industriale, lo sfruttamento della donna: all'antico lavoro all'interno della famiglia ha aggiunto quello fuori. Stretta in questa morsa, costretta quindi a scegliere fra lavoro e figli, la donna ha finito per privilegiare il lavoro. Tutta una cultura, tutta una propaganda, tutta una mistica industrial-femminista la spinge in tal senso. La potenza di questo condizionamento culturale la si vede nel modo in cui molte donne d'oggi portano avanti la gravidanza. Invece di sentirla come il periodo più felice, più «fecondo» della loro esistenza, la vivono in maniera schizofrenica, lacerate, da una parte, dalle ragioni della vita, dall'altra, da quelle della cultura dominante. Ancorché non sia affar mio, io ho ancora da capire quali siano i vantaggi, per la donna, di tale cultura. Perché sia preferibile far la dattilografa all'Ibm o anche la «donna in carriera» negandosi o guastandosi il piacere della maternità. La donna ha per sé l'atto più potente, più «divino» - l'unico - che sia dato alla condizione umana: procreare. E se lo rovina per inseguire «il modello di vita delle classi medie» e, cosa la più insensata, il lavoro maschile. Ma come fa a non capire che l'uomo si è inventato tutto, lavoro, gioco, letteratura, guerra, non per una pienezza, ma per un vuoto: la sua impotenza a procreare? La scarsità di figli che oggi registriamo danneggia quindi innanzitutto chi li può fare: la donna.Detto questo, il calo delle nascite è una strada obbligata per le società industrializzate. Esse sono caratterizzate da un eccesso di popolazione dovuto alla diminuzione della mortalità. Dove c'è una diminuzione della mortalità l'unico modo per salvaguardare l'equilibrio demografico è un'altrettale diminuzione della natalità. Diciamo quindi che il calo delle nascite è un modo innaturale, più o meno conscio, ottenuto con strumenti transversi che non contribuiscono certo a renderci più felici, per ricostituire un equilibrio naturale. Le società industrializzate sono quindi condannate all'invecchiamento checché ne dica la Repubblica che, distillando il commovente ottimismo tecnologico dell'epoca, scrive: «Il prolungamento di fatto della vita umana, presentato come "invecchiamento della popolazione", significa in pratica meno e non più vecchi: medicina, igiene, benessere stanno prolungando la vita attiva... non la vecchiaia». Non diciamo cazzate. Un sessantenne della società preindustriale non era meno vigoroso -anzi forse lo era un po' di più - di un suo coetaneo d'oggi. Quando Enrico Dandolo capitanò la Quarta Crociata aveva ottant'anni. Teodoro di Tarso arrivò in Inghilterra a 67 anni e ce ne rimase altri ventuno. Potrei continuare elencando esempi più umili che dimostrano che la quota di vecchi arzilli non fosse inferiore a quella d'oggi. Erano solo di meno. In compenso era diversissima la loro posizione in seno alla comunità. In una società che si basava sulla tradizione orale rappresentavano il sapere. Avevano una funzione. Erano preziosi. Nella società agricola il vecchio è un saggio, in quella industriale, caratterizzata dalla rapidissima obsolescenza della conoscenza, è un relitto. Non ha alcun ruolo. È accettato solo se si mette a fare il giovane. In realtà egli è solo, emarginato ed escluso come mai era stato prima. Nel Duemila i vecchi saranno il 22 per cento. Questa è la vera «bomba demografica» e non la scomparsa d'una dubbia «etnia italica». E qui viene al pettine il vero nodo che sta a monte dell'intera questione e che viene in genere sfumato: l'allungamento della vita perseguito dalla società attuale con tutti i mezzi. E' grazie a questo allungamento che noi siamo costretti a negarci, o a limitare grandemente, la sola vera, indiscutibile gioia dell'esistenza, avere figli, creando nel contempo un'intera classe di infelici e di spostati che prima non esisteva, i vecchi. E viene il dubbio se l'allungamento della vita media sia una delle più grandi conquiste della società industriale, come vuole l'opinione comune, o una delle infinite trappole, e forse la più ragguardevole, in cui ci ha cacciato il mito tecnologico.
La Giornata mondiale dell' Aids, svoltasi il primo dicembre, ha detto e confermato una cosa sola: che siamo nella merda. Le peggiori previsioni sono state rispettate: la malattia è andata al raddoppio. Ricordo che quando nel dicembre del 1986 scrissi su questo giornale il mio primo pezzo sull' Aids i malati, nel mondo, erano 33.217, oggi sono 129.385. La stessa progressione si è avuta per i sieropositivi. Inoltre, come era facilmente prevedibile, e come scrissi già nel lontano 1984 su Il Giorno, l' Aids, a dispetto degli ottimismi consolatori e razzisti, non si è dimostrata affatto una malattia per «soggetti a rischio» ma si è estesa, e sempre più si estenderà, agli eterosessuali. Due anni fa si diceva che il vaccino sarebbe stato trovato nel giro di 5/10 anni, oggi si dice che il vaccino sarà trovato entro 5/10 anni. Una cura efficace ancora non esiste. Si muore di Aids nella stessa percentuale di due anni fa: il 100 per cento. Cosi la Giornata mondiale dell'Aids si è risolta in iniziative patetiche e, in molti casi, grottesche che segnalano una desolante impotenza. Nel Perù è stato stampato un francobollo, in Burkina-Faso sono state organizzate gare ciclistiche, in Botswana partite di calcio, in Ghana hanno suonato le campane, nel resto dell' Africa si sono fatti concorsi scolastici, mostre, gare canore, in Cina la televisione ha trasmesso quiz impostati sull' Aids, nelle moschee della Giordania si è pregato, in Guinea Bissau ha parlato il presidente della Repubblica mentre nelle isole Mauritius sono stati lanciati ottocento palloncini con la scritta «World Aids Day». E non è che nei paesi industrializzati si sia combinato qualcosa di più. Anche in Inghilterra ci si è battuti contro l'Aids lanciando palloncini, negli Stati Uniti trasmettendo canzoni e, un po' dovunque, ci si è affrettati a cogliere l'occasione per vendere adesivi per automobili, stemmi, distintivi, camicie e borse. A Roma un gruppo di illustri personaggi, da Montesano alla Oxa a Morandi a De Gregori a Costanzo, ha partecipato a una manifestazione contro l' Aids mentre in tutta Italia le emittenti radiofoniche invitavano i giovani a «scendere in piazza» come se l' Aids fosse una sorta di «padrone delle ferriere» che si può battere con la protesta e, magari, lo sciopero. L 'unico paese che ha fatto coincidere questa Giornata mondiale dell' Aids con una misura concreta è stato, stranamente, lo Yemen che ha inaugurato ad Aden il suo primo laboratorio di ricerca sulla malattia. In realtà la Giornata mondiale dell' Aids ha rivelato un mondo impaurito, senza bussola, che si affida ai consueti esorcismi e feticci. Il massimo feticcio è l'informazione. In questi giorni ci siamo sentiti ripetere fino alla noia che «l'informazione è decisiva nella lotta contro l' Aids». In un'epoca di mass-media si attribuiscono all'informazione virtù taumaturgiche che non ha, si pensa che possa tutto. Ma quando si esce dalle elucubrazioni linguistiche e strutturalistiche e ci si scontra con la dura realtà ci si accorge che, checchè ne pensi Umberto Eco, dire non è fare. Conoscere non è risolvere. Quando io ben so che ho un cancro che mi porterà a morte che vantaggio ne ho? Dice: ma informazione significa anche prevenzione. Ma di quale prevenzione si tratta? Di quella che, credendo di rassicurarci, ci prescrive il decalogo dell'Organizzazione mondiale della sanità dove si afferma che per salvarsi dall' Aids «basta rimanere fedeli al partner sano o restare casti»? Ma guarda. Chi l'avrebbe mai pensato? È quasi come chiederci di non respirare. È chiaro che se tutti fossero casti l' Aids verrebbe debellato. Ma il problema è proprio questo. Quand'anche si riuscisse a ottenere una cosi profonda trasformazione del costume rimarrebbero pur sempre coppie che si separano, gente che resta vedova, single e, soprattutto, la grande massa di giovani che si affacciano alla vita sessuale. Che cosa devono fare? Impedirsi di cercare un partner? Rimanere casti per tutta la vita? In questo modo si estinguerebbe sicuramente l'Aids, ma probabilmente anche la specie umana. In realtà l'unica indicazione un minimo concreta e possibile che è uscita in questi anni dal gran caos dell'informazione sull' Aids è l'uso del vecchio preservativo. Ma anche qui è bene non farsi eccessive illusioni. Wladimiro Greco in un bell'articolo su Il Giorno ricordava che all'epoca della sifilide imperante, il positivista Mantegazza definì il preservativo «una barriera contro il piacere, un velo contro il contagio». Anche col preservativo bisogna rinunciare a tutti i giochi amorosi, bisogna evitare tutti i contatti fra gli umori del corpo dei partner, bisogna fare un sesso cosi asettico che è quasi peggio del rischio dell' Aids. In una situazione così drammatica, penosa, quasi senza uscita, a noi italiani tocca anche il tragicomico contrappasso di avere, come massimo baluardo contro l'Aids, Carlo Donat Cattin. Uno che è solamente capace, in maniera del tutto episodica e umorale, di denunciare lo sfascio della sanità, come se egli non ne fosse il ministro da oltre due anni, senza peraltro approntare alcuna misura concreta. Quello che non ha fatto Donat Cattin proprio nell'emergenza Aids è sinistramente eloquente. Basti dire che a fronte dei 24 mila posti letto che saranno necessari per i previsti malati di Aids nel 1990 ce ne sono ora solo 6.137 per l'intero settore delle malattie infettive. Donat Cattin deve essere dimissionato. Non possiamo permetterci, foss'anche solo per una questione morale, di affrontare una tragedia come quella dell' Aids con un personaggio da commedia.
Non c'è niente da fare: inesorabile monta l'onda per tirar fuori dal carcere anche gli ultimi terroristi che vi sono rimasti. Non si tratta, s'intende, d'un movimento di opinione pubblica - non ho mai sentito in un bar, in un ufficio, in una strada, qualcuno chiedere la scarcerazione dei terroristi - ma della volontà comune della classe politica di questo paese di chiudere con una sanatoria generale un periodo nei confronti del quale ha, evidentemente, una lunga coda di paglia. Non sapendo più dopo la legge sui «pentiti», dopo quella sui «dissociati» dopo gli innumerevoli benefici e sconti concessi ai terroristi, cosa inventare per liberare anche gli «irriducibili», si fanno ora circolare le ipotesi più fantasiose. Si è proposto, per esempio, di subordinare la liberazione dei terroristi al perdono dei familiari delle vittime. E' una proposta grottesca. Se venisse accettata si ritornerebbe ad una giustizia familiare, di clan, basata appunto sui concetti di faida, di vendetta e di perdono. Sarebbe bene ricordare a qualcuno che la giustizia dello Stato nasce proprio per eliminare il circolo vizioso ed interminabile della vendetta privata (René Girard, La violenza ed il sacro, Adelphi). Punire gli autori dei delitti è un interesse fondamentale della collettività intera, non solo di coloro che ne sono vittime. In uno Stato moderno il perdono è un fatto esclusivamente personale, non ha, e non può avere, rilevanza giuridica ed infatti il nostro ordinamento non lo prevede da nessuna parte, nemmeno là dove regola il regime delle attenuanti.Inoltre costringere i parenti delle vittime a pronunciarsi su una simile questione sarebbe fare loro un'ulteriore ed inammissibile violenza.Il senatore socialista Salvo Andò ha invece proposto di condizionare la liberazione dei terroristi ad una loro «accettazione delle regole democratiche». Vorrà dire allora che, da adesso in poi, un assassino, purché democratico, potrà invocare la clemenza dei giudici? La democraticità non è una discriminante penale. In galera ci sono, a buon titolo, tanto cittadini democratici che antidemocratici. Come si vede la nostra classe politica, pur di liberare e di liberarsi degli «irriducibili», non arretra di fronte a niente, nemmeno al ridicolo. Perché? Perché, passando un definitivo colpo di spugna sugli anni di piombo, intende coprire la straordinaria inefficienza dimostrata, a suo tempo, davanti al fenomeno terrorista, le proprie responsabilità, le proprie connivenze. Infatti la classe dirigente di questo paese non solo non è stata in grado di garantire, con i normali e legittimi mezzi che lo Stato ha a disposizione, la vita dei cittadini, non solo ha, in alcune sue rilevanti componenti, civettato e colluso col terrorismo e, nel suo complesso, s'è infischiata del fenomeno fino a quando le strade d'Italia sono state bagnate dal sangue di cittadini qualunque e finché non è stato colpito uno dei suoi massimi esponenti, ma, dopo il delitto Moro, presa dalla paura, per fronteggiare la situazione non ha saputo trovare di meglio che scardinare i fondamenti giuridici su cui si regge una comunità. Prima allargando a dismisura il reato associativo e dimenticando disinvoltamente il principio basilare che la responsabilità penale è personale. Poi con l'ignobile legge sui «pentiti» che lede il diritto costituzionale dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Infine costruendo quel mostro giuridico che è la legge sui «dissociati» (ha scritto Giovanni Ferrara su la Repubblica: «È davvero una tesi assurda quella per cui la dissociazione culturale, politica e morale da un reato commesso estingue o ridimensiona quel reato e, con ciò, la sua pena»). Ma è proprio perché lo Stato ha violato per primo i principi su cui si sostiene che oggi gli «irriducibili» possono chiedere, con una certa forza contrattuale e la consueta arroganza (si vedano le dichiarazioni di Piperno) che si vada fino in fondo in quest'opera di scardinamento. Anche perché, poi, con le leggi sui «pentiti» e sui «dissociati», che hanno messo fuori autori di omicidi ripugnanti, come Marco Donat Cattin, come Barbone, come Sandalo, come Viscardi, come Savasta, disposti a tutto pur di riguardagnare la libertà, è andata a finire che in galera sono rimasti, in alcuni casi, i terroristi animati da una più autentica tensione morale. Ma, anche qui, la tensione morale non c'entra con la legge, che giudica i fatti e non gli individui. Per questo io credo che l'unica via legittima che la nostra classe dirigente ha per riparare, almeno in parte, agli errori e alle malefatte del passato sia quella di lavorare sul reato associativo, ridimensionandolo drasticamente. Chi, a parte quello di associazione, non ha gravi delitti da scontare ha diritto di uscire. Ma lo ha oggi come lo aveva ieri sulla base del principio che la responsabilità penale è personale e non perché, come sostengono, uniti, gli uomini politici e i terroristi, ci sia la necessità di non si capisce quale «pacificazione nazionale». Qui da pacificare non c'è proprio nulla, se non la coscienza sporca dei nostri governanti.