Un bel manipolo di ex sessantottini (Paolo Liguori, Giampiero Mughini, Renato Farina, Giuliano Zincone, Giulio Savelli, Marco Boato ed altri) è sceso in campo a difesa di Adriano Sofri, condannato in primo e secondo grado, insieme a Pietrostefani, come mandante dell'omicidio Calabresi, il quale sta facendo un suo sciopero della fame contro lo spostamento del definitivo giudizio della Cassazione dalla prima sezione, quella presieduta dall' “ammazzasentenze” Corrado Carnevale, alla sesta. Credo che l' ltalia riuscirà a sbarazzarsi di molte cose, forse anche di una classe politica corrotta, ma non degli intellettuali ex sessantottini. Nonostante non abbiano fatto altro che passare di fallimento in fallimento, di corbelleria in corbelleria, son sempre lì, inossidabili al tempo e a se stessi, pronti a impartire lezioni con la sicumera e la iattanza di sempre. Per dieci anni gli allora sessantottini hanno gridato per le strade e le piazze d' ltalia le loro certezze nella rivoluzione prossima ventura. E guai a contraddirli: c'era la spranga. Dopo dieci anni di chiacchiere inconcludenti, sufficienti comunque a rovinare qualche loro coetaneo più serio o più sprovveduto o in buona fede, questi rivoluzionari con la benedizione di mamma e papà, l'assicurazione e la mutua, si sono sentiti delusi. E hanno preso a strillartelo nelle orecchie come se il colpevole fossi tu. Una delle loro caratteristiche è infatti che la colpa è sempre degli altri. In quanto alla pena -il caso Sofri docet -non hanno mai pensato seriamente che la cosa li potesse riguardare. Per troppo tempo sono stati abituati a far la rivoluzione col ritorno garantito a casina loro. Un'altra caratteristica è, appunto, lo strillo. Sono costituzionalmente incapaci di tacere. Anche i loro silenzi sono fragorosi. Non possono fare a meno di gridare che stanno zitti. Come minimo ci scrivono sopra un articolo sul Corriere della Sera («Orfani», Giuliano Zincone). Quando si scoprirono delusi cominciò l'era dei precoci amarcord, delle memorie, dei lamenti, dei suspiria, dei “miei vent'anni nei furibondi anni Sessanta” (Mughini). Credevano di aver fatto la guerra d'Africa, invece era solo il '68, una cosa -come disse Einaudi della massoneria- comica e camorristica. A ruota seguirono pluviali pentimenti che finivano quasi sempre in un libro dove l'autore veniva preso da brividi di piacere trasgressivo, che lo percorrevano dall'alluce all'ombelico, quando ricordava qualche fugace incontro che, durante i suoi anni di fannullone di sinistra, aveva avuto con un terrorista vero. A furia di delusioni, lamenti e pentimenti gli intellettuali ex sessantottini raggiunsero finalmente l'agognato obiettivo: ben incistarsi nella società borghese. Dove però non hanno preso una posizione qualunque. Non sarebbero sessantottini. Quasi tutti sono passati da un estremo all'altro, dalla rivoluzione alla reazione. Il caso emblematico è quello di Paolo Liguori partito da Lotta Continua per approdare, passando per Il Giornale di Montanelli, dalle parti di Sbardella. L 'altra sera s'è presentato al Costanzo Show e ha dichiarato una sua incrollabile certezza: l'innocenza di Sofri. Lui, infatti, Sofri lo conosce da una vita e non può pensare che,un ragazzo tanto intelligente e colto abbia potuto essere così stolido e poco elegante da dare un ordine come quello di ammazzare il commissario Calabresi. Quello dell'intelligenza, della cultura, dell'eleganza di Sofri come dirimenti nell'omicidio Calabresi è un leit motiv caro anche ad altri intellettuali ex sessantottini. Tesi razzista e classista. Come se l'intelligenza e la cultura avessero mai impedito a qualcuno di delinquere. In compenso tutti gli intellettuali ex sessantottini dimostrano un aperto disprezzo per Leonardo Marino, incolto, rozzo, inelegante, operaio. Un singolare contrappasso per chi era partito dicendo di voler sfasciare il mondo in nome della lotta di classe e della difesa degli “umiliati ed offesi”. Non vedo, oltretutto, con che autorità morale intellettuali che sul pentimento hanno costruito le loro carriere possano disprezzare chi col pentimento si è guadagnato la galera. Per l'innocenza di Sofri si sono schierati anche Mughini, Farina, Boato. Savelli invece non entra nel merito, ma giudica Sofri comunque meritevole di un'amnistia. La singolarità della tesi non sta tanto nel fatto che l'amnistia è un provvedimento generale e non “ad personam”, ma nella motivazione che la sostiene. Savelli infatti afferma che quand' anche Sofri fosse colpevole agì “senza tornaconto personale”. Questa è bella. Forse che se io scendo in strada e tiro due palle in corpo al primo che capita sono, per ciò, meritevole di particolare indulgenza? E non so se Savelli si rende conto che l'aver agito “senza tornaconto personale” è esattamente la tesi sostenuta da molti dei ladri di partito messi sotto inchiesta in questi mesi dalla magistratura. Confusi quando erano ragazzi, gli intellettuali ex sessantottini non lo sono meno ora che sono diventati vecchi. Per chi, come loro, sta dentro lo Stato democratico-borghese la vicenda di Sofri non ha niente a che fare con gli. “io lo conoscevo bene”, l'intelligenza, la cultura, il tornaconto: non si tratta, esattamente come per l'inchiesta sulle tangenti, di una questione morale, ma penale. Che ha due aspetti. Uno è quello per cui Sofri sta digiunando. Lasciamo perdere la penosa impressione, come ha scritto Edgardo Sogno, di un rivoluzionario che irrideva lo Stato democratico-borghese, le sue libertà e le sue garanzie, considerate vuote forme, sovrastrutture, truffe, e che poi si aggrappa al supergarantista Carnevale, come un mafioso qualsiasi. Queste sono cose che riguardano la coscienza di Sofri in cui non abbiamo davvero voglia di andare q guardare. Il fatto è che Sofri, dopo la prima sentenza di condanna, ha rinunciato ai successivi ricorsi ritenendo che la corrotta giustizia italiana non sia degna di giudicarlo. Ma se non crede alle garanzie della magistratura non può ora venirci a dire che crede alla prima sezione della Cassazione. In ogni caso l'affidamento, che è di ieri, dell'ultimo grado del giudizio alle sezioni unite della Cassazione dovrebbe tagliare la testa al toro e confermare che non c'è nessuna volontà persecutoria ai danni di Sofri. La seconda questione è quella dell'innocenza o della colpevolezza di Sofri. Due successive sentenze l' hanno condannato. Naturalmente anche la magistratura può sbagliare. Proprio per questo, per estrema prudenza e nel tentativo di limitare al minimo l'errore, il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio. Di più non si può chiedere. Naturalmente si può anche pensare, come fa Sofri, che sia tutto un complotto; che la confessione di Marino non fu spontanea ma estorta dai carabinieri, che due pubblici ministeri erano in combutta con i Cc e con lo stesso Marino e che due magistrature giudicanti hanno consapevolmente e protervamente avallato il tutto. Ma questo ha diritto di pensarlo Sofri. Non Liguori e gli altri. O, meglio, se lo pensano debbono trarne le conseguenze. Non si può stare in uno Stato e pensare che sia marcio fino a questo punto. Se davvero Liguori e gli altri lo credono hanno il dovere di fare oggi quel lo che non ebbero il coraggio di fare nel '68: schizzare fuori dallo Stato democratico-borghese , dai posti che vi occupano e prendere, contro di esso, le armi. Oppure la smettano di prenderci in giro, come stan facendo da vent'anni, mantenendo eternamente il piede in due scarpe.
La prima volta che seppi di Guevara fu nel '57 o nel '58, non ricordo bene. A quell' epoca Guevara non era ancora un mito della sinistra tanto che il mio “incontro” con il “Che” avvenne sulle pagine di Gente, il settimanale di Emilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un'immagine di Guevara a torso nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell'uomo. Nelle didascalie si raccontava di questo giovane medico argentino che, con altri ribelli, era sbarcato nella Cuba di Batista a combattere per la libertà di un paese non suo. II settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell'ideale” in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora completamènte integrato, “globale”, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra. Inoltre la contestazione giovanile era di là da venire. II '68 cambiò completamente la prospettiva. Guevara, che nel frattempo era andato a morire in Bolivia per un'altra causa non sua, abbandonando i comodi agi del potere appena conquistato, divenne il simbolo stesso della rivoluzione. Più di Lenin, più di Mao, più di Stalin, Ernesto Guevara, diventato definitivamente il “Che”, fu il mito del '68, almeno nella sua componente libertaria. Perché ci piaceva tanto, perché ci piaceva più di tutti? Perché il “Che”, con i suoi ideali, con il suo agire totalmente disinteressato, nobilitava e mascherava alcune inconfessabili pulsioni della mia generazione: la voglia di violenza, la voglia di guerra. La nostra infatti era la prima generazione che non aveva fatto la guerra, che non l'aveva nemmeno vissuta. Era la prima generazione per la quale la guerra, a causa della bomba atomica, era diventata il tabù supremo, il male assoluto, l'innominabile. Ma noi, come tutti i giovani, amavamo la violenza, rimpiangevamo la guerra, anche se non potevamo dirlo nemmeno a noi stessi. E il “Che” legittimava se non la guerra perlomeno la guerriglia, se non le armi almeno i bastoni e i cubetti di porfido. Se “incontrava” nella sinistra extraparlamentare Ernesto ”Che” Guevara piaceva molto meno a quella ortodossa. I comunisti rimproveravano a Guevara una certa vaghezza ideologica (mi ricordo in proposito degli sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola) e, soprattutto, il fatto che avesse abbandonato un potere che aveva appena conquistato. Al positivismo marxista la romantica rinuncia di Guevara pareva inconcepibile, blasfema, un segno di debolezza di carattere, senza contare poi che Guevara, con il suo passare da una rivoluzione all'altra, sembrava incarnare troppo da vicino quella “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzskij. E Trotzskij allora era tabù per i comunisti che, nonostante il rapporto Kruscev del '56, rimanevano profondamente, intimamente stalinisti. Insomma ai comunisti ortodossi Guevara non piaceva proprio per quei motivi per cui noi lo amavamo. Nel tempo il mito di Guevara si è andato perdendo, a sinistra. I comunisti hanno continuato a guardarlo, e non a torto dal loro punto di vista, con diffidenza. I contestatori invecchiati, inseritisi nel frattempo nel sistema e diventati manager, imprenditori, direttori di giornali, lo hanno relegato fra le debolezze giovanili. Qualche anno fa, in occasione del ventennale della sua morte, Guevara è Stato oggetto di un inaspettato revival da parte della destra o, per meglio dire, della “nuova destra”. Inaspettato, ma non ingiustificato. Solo in superficie infatti Guevara è un uomo di sinistra. In realtà, col suo ardore per l'azione, è un dannunziano, un Bayroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della rivoluzione. È stato l'ultima incarnazione del mito dell'eroe. Oggi, scomparsa di scena anche la “nuova destra”, assorbita dal benpensantismo di Gianfranco Fini, succeduto al movimentista Rauti, e dal gretto economicismo delle Leghe, appecoronatasi definitivamente la sinistra ai dettami del “nuovo ordine mondiale” americano, alle leggi del mercato, all'ecumenismo di papa Wojtyla, quello di Ernesto “Che” Guevara è un nome da tutti dimenticato. Tanto che il venticinquennale della sua morte non è stato celebrato da nessuno. Ma per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza, e lo rimaniamo, il “Che” è un mito che non rinneghiamo. Perché fosse di sinistra o di destra, o tutte e due le cose, o nessuna, il “Che” rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal cinismo, dal realismo, dalla forza del denaro, di un uomo che non solo ha combattuto il potere ma lo ha disprezzato al punto tale da abbandonarlo per inseguire, pagando con la vita, nient'altro che un sogno. «Hasta la vista» comandante Che Guevara.
Non c'è uomo politico che, dopo le elezioni dello scorso weekend, non abbia indicato nelle riforme elettorali la zattera di salvataggio per il nostro Paese. In particolare il toccasana sarebbe il sistema di votazione maggioritario. Anche la Democrazia cristiana, prima restia, si è improvvisamente convertita al nuovo verbo. Devo dire che nutro molti sospetti sul grande bla bla bla delle riforme elettorali. In generale, perché non credo affatto che il buon governo la buona amministrazione dipendano dai sistemi di votazione. Nell'Italia giolittiana si votava proprio con quel sistema uninominale maggioritario che oggi si invoca come panacea di tutti i mali, ma ciò non impedì che, quando la classe dirigente liberale, logorata da decenni di potere, non aveva più niente da lire e da dare, si creassero governi così deboli, indecisi e corrotti da aprire, anzi da spalancare, la strada al fascismo. In particolare perché temo che, oggi, nel sistema maggioritario si nasconda un cavallo di Troia pieno zeppo di democristiani. Capisco che, se si fosse votato con questo sistema, città come Varese e Monza sarebbero governabili già da domani mattina. E questo sarebbe certamente un bene. Ma se tale sistema viene trasportato dalle elezioni amministrative a quelle politiche rischia di risolversi in un gigantesco premio di maggioranza per la Democrazia cristiana. Col suo 24% la Dc resta infatti, nonostante il suo declino, di gran lunga il primo partito italiano. Il secondo, che è la Lega, è distaccato di nove punti in percentuale. . E la Lega non ha alcuna possibilità di raggiungere o sorpassare, in tempi ragionevoli, la Democrazia cristiana perché resta un movimento radicato nel Nord e, in misura molto minore, nel Centro, ma completamente assente al Sud. Per la Lega accettare il sistema maggioritario, rinunciando a priori ai voti di sette o otto regioni del Paese, è come, per un pugile, combattere con una mano legata dietro la schiena: non può farcela. Non riesco quindi a capire perché Bossi, dopo alcuni iniziali tentennamenti, abbia abbracciato il sistema uninominale e maggioritario. Gli conviene, per amministrare Varese e Monza o, domani, Milano, rinunciare al governo del Paese che è poi ciò che veramente conta e il vero motivo per il quale viene votato? A chi ha puntato sulla Lega non interessa tanto che sindaco di Varese sia Leoni o Maroni, ma che partiti della corruzione, del malaffare, della debacle economica e morale siano spazzati via. Del resto il brusco voltafaccia della Dc sulla questione del sistema maggioritario deve far riflettere. Evidentemente la Democrazia cristiana ha sperato fino all'ultimo che il quadripartito in qualche modo tenesse e di poter quindi continuare a fare i soliti proficui giochetti, ma una volta che si è resa definitivamente conto che l'antico schema non era più praticabile ha abbracciato il sistema maggioritario come il minore dei mali. E a difendere la proporzionale pura è rimasto solo Bettino Craxi, per la semplice ragione che solo con la proporzionale il Psi può ancora far finta di esistere. Ma per le forze di opposizione alla partitocrazia il problema oggi non è un Psi che non c'è più ma una Dc che, bene o male, c'è ancora. E con il maggioritario noi rischiamo l'incredibile paradosso di consegnare a una Democrazia cristiana delegittimata, indebolita, il governo del Paese per altri cinque o dieci anni. Sarebbe veramente il colmo. Io credo quindi che il sistema uninominale maggioritario vada introdotto per le amministrative, in modo da permettere alle città italiane di avere il governo cui hanno diritto, ma, diversamente da quel che ha scritto Vittorio Feltri su l'Indipendente di martedì scorso (e da quel che pensa Bossi), credo che la delicata decisione di adottare questo tipo di votazione anche per le elezioni politiche vada lasciata al futuro Parlamento eletto con l'attuale sistema proporzionale. Non è infatti pensabile che una questione del genere, così gravida di implicazioni, sia lasciata a “questo” Parlamento che non rappresenta più il Paese.
Caro Bocca, ho letto l'articolo indignato che hai scritto a proposito della pubblicazione da parte del settimanale Panorama della lettera che Norberto Bobbio inviò a Mussolini. A parte che mi pare del tutto errato l'accostamento che fai fra la pubblicazione di questa lettera e quella di Togliatti sui soldati dell' Armir (la prima riguarda una vicenda personale, la seconda è un documento politico di grande importanza per capire la storia del Pci e quindi anche quella recente del nostro Paese) sono d'accordo con te che il “peccato” di Bobbio, se di peccato si può parlare, è assolutamente veniale. Perché allora qualcuno ha potuto pensare che fosse mortale, tanto da indurre Panorama a pubblicare la supplica del giovane Bobbio al Duce? La responsabilità, caro Bocca, è proprio della tua generazione, di quella «generazione di milioni di italiani che ha fatto la sua lunga marcia dentro il fascismo», come tu scrivi, e che dopo averlo attraversato, aver ad esso aderito o aver con esso colluso, ci ha presentato per decenni il fascismo come Satana, come la sentina di tutti i vizi, come il peggiore di tutti i mali. E a questa demonizzazione del fascismo hai partecipato a lungo anche tu, Bocca, almeno fino a quando pubblicasti la Repubblica di Mussolini, che è del 1977. Voi state dimenticando con troppa disinvoltura, caro Bocca, non il vostro fascismo, ma il vostro antifascismo, un antifascismo così unilaterale, becero, intollerante da aver fatto dire sarcasticamente a Mino Maccari: «I fascisti si distinguono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti». Voi avete dimenticato le aggressioni a Renzo de Felice, il primo studioso che osò affrontare il fascismo da una prospettiva storica e non ideologica o moralistica. Voi avete dimenticato che negli anni Settanta non si poteva fare un giornale, costruire un' associazione, mettersi in cooperativa, partecipare ad una riunione di condominio, giocare a poker senza essersi prima dichiarati “laici, democratici e antifascisti”. Voi vi siete dimenticati di essere stati per anni dei professionisti dell'antifascismo e di aver costruito anche su questo (e qualcuno solo su questo) le vostre carriere. Voi avete dimenticato di aver avallato per quarant'anni quella vergognosa e comica finzione che si chiama “arco costituzionale” che escludeva milioni di elettori dalla vita democratica perché si richiamavano idealmente al fascismo (e fu Bettino Craxi -di questo gli va dato atto- e non certo voi, “intellettuali di sinistra”, a togliere i missini da quel ghetto). Voi avete dimenticato di aver parteggiato per gruppi che percorrevano le strade delle città italiane gridando “fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero”. Voi vi siete dimenticati di aver partecipato ad una cultura che teorizzava che “uccidere un fascista non è reato”. Voi vi siete dimenticati di non aver speso una sola parola quando giovani fascisti venivano massacrati ed uccisi solo perché ritenuti tali. Voi vi siete dimenticati di aver firmato, a priori e senza nulla sapere dei fatti, un appello a favore del bombarolo Feltrinelli solo perché era un antifascista doc e per di più ricco, cosa che a voi intellettuali di sinistra ha dato sempre particolari pruriti (essere ricco e comunista è il “non plus ultra per l'intellettuale di sinistra italiano che ama salvarsi l'anima garantendosi però il portafoglio). Voi, per anni ed anni, ci avete intossicato col vostro antifascismo impedendoci così di capire il fascismo e ciò che era realmente stato. E dopo aver demonizzato a questo modo il fascismo adesso non potete meravigliarvi ed indignarvi se qualcuno si indigna e si meraviglia che Bobbio abbia potuto scrivere al capo del Regime la lettera che scrisse. Se il fascismo è quello che voi per anni avete dipinto come poteva un uomo come Norberto Bobbio averci avuto un qualsiasi mercimonio? Questa era la domanda sottesa alla pubblicazione della lettera da parte dei giornalisti di Panorama che non sono dei “mascalzoni” e degli “sciacalli” come scrivi, ma solo delle persone che fanno il proprio mestiere con una certa spregiudicatezza come, del resto, facevi tu quando, come mi dicesti una volta, costruivi la tua carriera. Né vale l'argomento che ci sia stato un fascismo “buono” quello cui voi avete aderito, e un fascismo “cattivo”' quello che avete combattuto. Come ti ha fatto giustamente notare Giordano Bruno Guerri sulle colonne dell'Indipendente questa tesi è insostenibile. Si può dire anzi che il primo fascismo fu certamente peggiore e più sanguinario del secondo, perché è quello delle squadracce, delle violenze, dell'olio di ricino, dell'assassinio di Matteotti, di Gobetti, dei fratelli Rosselli, della galera a Gramsci di cui, al momento della richiesta di condanna, il pubblico ministero del Regime disse «bisogna impedire a questo cervello di funzionare per vent'anni» cosa che avrebbe dovuto far perlomeno riflettere d(gli intellettuali e degli studiosi, per quanto appartati. No, il “secondo fascismo” non era affatto peggiore del primo, era solo un fascismo perdente, come i più svegli fra voi avevano capito benissimo. Quindi, caro Bocca, delle due l'una: o il fascismo, preso nel suo complesso, collocato nella sua storia, visto nelle sue realizzazioni ed inibizioni, non fu affatto quel fenomeno demoniaco che per decenni ci avete presentato oppure il giovane Norberto Bobbio era un piccolo sporcaccione. Tertium non datur.
Da L'Inferno, profondo sud, male oscuro emerge proprio ciò che Bocca, nelle sue trecento pagine, vorrebbe in tutti i modi negare: che il Sud è stato rovinato dal Nord. Non perché siano vere le vecchie fole del meridionalismo piagnone sul Sud vittima di “secolari ingiustizie”, sacrificato allo sviluppo del Nord, poco aiutato, fole che Bocca demistifica, dati alla mano: “Le cifre -scrive- sono quelle che sono, discutibili solo con sofismi poco seri: un fiume di miliardi giunto nel Sud dalla fondazione della Repubblica gli ha consentito fra il 1960 e il 1975 una crescita economica superiore a quella dei paesi avanzati, Gran Bretagna, Francia, Germania” (pag, 269). E più avanti: “Regioni che producono il quindici per cento del reddito nazionale hanno un reddito pro capite di poco inferiore ai due terzi di quello padano” (pag. 275).“ La rovina del Sud deriva proprio dal fatto che il Nord abbia cercato di “aiutarlo”, di piegarlo illuministicamente, alla propria cultura industrialista, razionalista, progressista. Nella storia dei rapporti tra Nord e Sud del nostro paese è successo ciò che accade sempre quando una società dinamica cerca di integrarne una statica. La seconda ne esce devastata, stravolta, i contorni sfigurati, i propri valori distruttj senza che peraltro quelli nuovi abbiano realmente preso piede. Come l'Africa è stata distrutta, più che dal vecchio colonialismo di rapina dell'Occidente, dalla successiva pretesa di quest'ultimo di trasformarla a sua immagine e somiglianza, così il Sud è stato distrutto dalle buone intenzioni del Nord più che da quelle cattive. Era quanto aveva intuito, già nel 1880, un prefetto di Caltanissetta che parlava dell' “azzardoso, terribile esperimento di governare popoli come questi con leggi e ordinamenti all'inglese o alla belga” (pag. 12). Quell' “azzardoso esperimento” non è riuscito. Inizialmente il Sud se ne era difeso, con un certo successo, con fenomeni come quello mafioso che in antiquo altro non erano che il rifiuto, illegale ma non criminale, dello Stato nazionale e il tentativo di conservare il modello feudale, ma quando, nel secondo dopoguerra, lo Stato italiano ha premuto sull'acceleratore per esportare al Sud il modello di sviluppo del Nord è stato il disastro. È vero che oggi il Sud è molto più ricco di un tempo, ma quella società si è letteralmente disintegrata e la qualità della vita è diventata peggiore del pur terribile ieri come nota, stupendosi, Bocca con l'ingenuo scandalo del progressista. Perché il Sud di ieri viveva sì a un basso regime di giri, ma era il suo regime, adatto al suo clima, ai suoi ritmi, alla sua cultura e, se si pensa per esempio alla Sicilia, al suo profondo e atavico pessimismo. Nella pur desolata e cupa Sicilia dei Malavoglia rimanevano una certa armonia, un certo equilibrio, certe sapienti compensazioni non ultime, quell'accettazione fatalistica del proprio destino e quel senso tragico dell'esistenza che sono di diretta derivazione dalla Grecia classica che da quelle parti, come del resto a Napoli, ha avuto qualcosa a che fare. Il Nord, con i suoi aiuti, con i suoi investimenti, con il suo flusso di denaro, con i suoi tentativi di industrializzazione e, soprattutto, con la proposizione del suo modello ha distrutto quegli antichi equilibri senza crearne dei nuovi. Oggi l'uomo del Sud, estraniato in qualche modo dalla sua stessa terra, si conforma al modello di quello del Nord senza, averne il tipo di temperamento e di cultura e Ie possibilità produttive. Da qui, come nota Bocca, “l'assurda ma reale voglia di produrre cinque ma di consumare dieci” (pag273). Da qui anche la mutazione della mafia, da fenomeno di costume e di resistenza passiva allo stato in criminalità organizzata a fini di lucro. Perche la mafia rappresenta appunto una scorciatoia per “consumare dieci” senza dover produrre. Ecco la ragione per cui il federalismo o in caso estremo, la secessione, potrebbe essere la risposta non solo ai problemi del Nord, come comunemente si dice, ma anche a quelli del sud. Perché in questa eterna querelle fra Settentrione e Mezzogiorno d'Italia non si tratta di criminalizzare i meridionali, come ci accusa di fare Giovanni Russo (I nipotini di Lombroso, Sperling & Kupfer) né di sostenere la superiorità della cultura del Nord su quella del Sud (personalmente mi sento molto più vicino al senso tragico dell'esistenza di un siciliano che all'attivismo forsennato e cieco di un industrialotto di Varese e penso che ci sia molta più sapienza in una società statica che in una dinamica), ma di consentire a due civiltà diverse, che si sono dimostrate, dopo un secolo di inutili sforzi, largamente incompatibili, di procedere ognuna secondo i propri ritmi e le proprie intime tendenze invece che inquinarsi e stravolgersi a vicenda.