Il Tar (Tribunale amministrativo regionale) dell'Emilia-Romagna ha respinto il ricorso di tre cittadine di Bologna le quali lamentavano, come illegittimo, il fatto che i loro nomi fossero stati appesi ai muri del municipio, ed esposti quindi alla pubblica riprovazione, perché non avevano partecipato, senza giustificato motivo, alle elezioni politiche dell'87. Il Tar ha ribadito che il voto non è solo un diritto, ma anche un dovere. La pronuncia, in sé, è formalmente ineccepibile. L'articolo 48, secondo comma, della Costituzione dice: «Il voto è personale e uguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». Eppure la pronuncia del Tar lascia fortemente perplessi sia nella sostanza sia nella motivazione soprattutto là dove dice una cosa di estrema gravità e cioè che «nessuna ragione ideologica potrebbe mai giustificare un comportamento quale quello tenuto dalle ricorrenti, che si pone contro e al di fuori dell'assetto costituzionale e del sistema democratico del paese, pretendendo di oltrepassare qualunque forma di riconosciuta e prevista libertà di manifestazione del proprio pensiero. E significa sovvertimento, inammissibile, dei principi e dei valori della Costituzione e del sistema costituzionale». La pronuncia non tiene in alcun conto il dibattito svoltosi all'epoca della Costituente e delle reali ragioni per cui si ritenne di rendere il voto obbligatorio. Come ha notato Livio Zanetti su La Stampa, nell'Italia del dopoguerra, lontana da più di vent'anni dall'esercizio democratico e ancora semianalfabeta, si temeva che una parte del paese rinunciasse, per ignoranza, a un proprio diritto. L 'obbligo di votare era posto a difesa del cittadino. Quarant'anni di ripetute ed estenuanti tornate elettorali, alle quali il popolo italiano ha partecipato in massa e disciplinatamente, hanno dimostrato che questo timore era infondato. La tendenza dell'elettorato, manifestatasi di recente, a disertare le elezioni o comunque a delegittimarle (più del 20% fra astensioni, schede bianche e schede nulle) non può quindi oggi essere fatta dipendere da ignoranza dei propri diritti, come paventavano i padri costituenti, ma, al contrario, dal desiderio di esercitarli. Il non-voto infatti è, nella maggioranza dei casi, una precisa manifestazione politica di protesta e di sfiducia. Contro la democrazia? No, contro quella sua degenerazione che si chiama partitocrazia che ha, essa sì, finito per svuotare di contenuto, in parti fondamentali, la Carta costituzionale. I partiti (cui la Costituzione dedica un solo articolo, il 49, contemplandoli semplicemente come possibilità) hanno travolto e stravolto tutte le istituzioni a cominciare da quelle principali e decisive: il Parlamento e il governo. Come ha detto una volta il professor Sabino Cassese, nella sua autorevole qualità di membro del Consiglio superiore della pubblica amministrazione: «In Italia il vero governo non è il governo, ma un organismo nato fuori dalla Costituzione e contro la Costituzione» (Pagina, marzo 1983). Di questa grave anomalia si è avuta una clamorosa e indecente conferma qualche settimana fa quando la crisi di governo è stata legata alla possibilità che Bettino Craxi, il quale attualmente non ricopre alcun incarico istituzionale, partecipasse o meno ad una riunione conviviale dei segretari dei partiti di maggioranza (altri personaggi istituzionalmente irrilevanti). Ma, oltre a stravolgere le istituzioni, i partiti hanno occupato ogni angolo della nostra vita pubblica e privata. Non c'è quasi mestiere in cui per la maggioranza degli italiani la tessera di partito (o quella sua più ipocrita estensione che è l'area di appartenenza) non sia diventata, come durante la guerra, la tessera del pane. Infine -ed è forse l'aspetto maggiormente corruttore - il cittadino, in virtù della partitocrazia, si è abituato a chiedere ciò che gli spetta di diritto come un favore politico. Quali sono le vie di uscita da questa situazione totalmente illegale? A prima vista nessuna. In una partitocrazia infatti solo i partiti hanno il potere legittimo di ridimensionare il potere dei partiti. Ma essi, di propria iniziativa, non lo faranno mai. Sarebbe come chiedere a un vampiro di rinunciare al sangue (il nostro) di cui si nutre. D'altro canto se si pretendesse di abbattere la partitocrazia con la violenza ciò porterebbe, anziché alla democrazia, al fascismo o a qualche altra forma di totalitarismo. Ma se noi continuiamo a votare i partiti, seguitiamo a fornire al loro strapotere una legittimazione che non ha e a dare una parvenza di democrazia a ciò che democrazia non è più. Questo è il busillis. L 'unico sistema per eliminare la partitocrazia, salvando contemporaneamente la democrazia, è quello di dare un corposo avvertimento ai partiti perché cambino strada, perché accettino di ritornare nell'alveo della Costituzione, perché cessino di corrompere la democrazia. Questo avvertimento -non violento, democratico, lecito, civile, pulito - è appunto l'astensione dal voto. Ma la partitocrazia, attraverso la pronuncia del Tar, fa intendere di non voler lasciare aperta nemmeno quest'ultima possibilità di opposizione. E, attraverso il procedimento, inaudito in democrazia, di dichiarare illegittima quella che è una libera manifestazione di pensiero e di volontà politica, bolla come «eversori» della Costituzione proprio coloro che alla Costituzione vogliono ritornare. Chiudendo così il cerchio della propria immutabilità e della propria impunità.