Si può cercare di analizzare l'apparentemente incomprensibile, l'inconcepibile? Ci proviamo. Siamo di fronte a due efferati delitti, quelli di Brembate e di Motta Visconti, grosso modo hinterland milanese, civilizzato se non civile. A Brembate è stata uccisa una ragazzina di 13 anni, Jara, a Motta Visconti una donna di 38 anni con i suoi due piccoli figli. Si conoscono entrambi gli assassini. Per la verità quello di Jara, un muratore, M.G.B., è solo presunto, perché non basta il Dna per fornire una prova definitiva, e ha fatto bene il Procuratore capo di Bergamo a lamentare la fuga di notizie perché creare 'mostri' anzitempo da dare in pasto alla folla inferocita, una folla che, a volte, fa più paura e orrore dello stesso assassino perché capisci benissimo che, protetta dall'anonimato, com'è in questi casi, potrebbe compiere gli stessi delitti, e forse anche peggiori, dell'assassino (si confronti il comportamento di questa folla indecente, l'eterna folla di piazzale Loreto, con quello dei genitori di Jara, le vere vittime, insieme ovviamente alla ragazzina, di quel delitto).
L'assassino di Motta Visconti è invece certo perché ha reso ampia confessione. E' Carlo Lissi, marito della donna e padre dei due bambini uccisi, fino all'altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello. E' questo delitto che ci sgomenta perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità. E manca qualsiasi movente plausibile. Si tratta di uno di quei 'delitti delle villette a schiera' come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti, altrimenti definiti in criminologia 'crimini espressivi', omicidi senza un perché. In Italia gli omicidi compiuti dalla criminalità comune sono in netta diminuzione, quelli delle 'villette a schiera' sono invece in aumento. Quale la ragione? Io credo che risieda nella pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale. E l'aggressività, che è una componente fondamentale e vitale dell'essere umano, compressa come una molla risalta poi fuori nelle forme più mostruose. Io credo che se Lissi non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di «Genny a carogna», forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso. Lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim ricorda come nel suo villaggio natale l'uccisione collettiva del maiale, che è una cosa molto cuenta, cui partecipavano anche i bambini come lui, fosse uno sfogo naturale dell'aggressività dei componenti della comunità che evitava guai peggiori. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari. E quindi non cercavano di abolire del tutto l'aggressività ma di canalizzarla in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili (i neri africani con la 'guerra finta' o i Greci con la figura del 'capro espiatorio' non a caso chiamato 'pharmakos', medicina). Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 20 giugno 2014