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Che l’insidiosissima situazione che si è creata in Libia sia il risultato dell’aggressione che alcuni paesi europei (gli Stati Uniti, in quel caso, mantennero una posizione più defilata) fecero al regime di Gheddafi, è oggi opinione comune (quando, nel 2011, scrivevo che quell’operazione era dissennata mi si bollava, al solito, come ‘antioccidentale’). Il principale responsabile è certamente Nicolas Sarkozy che agì per questioni elettorali interne e per interessi economici. Ma a quell’operazione sciagurata abbiamo partecipato anche noi all’epoca in cui presidente del Consiglio era Berlusconi. Vittorio Feltri scrive sul Giornale (16,2) che il Cavaliere nicchiava, che si sarebbe volentieri sottratto, ma fu costretto a parteciparvi da Napolitano oltre che dalle insistenze della Francia e della Gran Bretagna. E’ probabile. Con Gheddafi Berlusconi aveva un feeling particolare (“Sono fatti per intendersi” disse un manager tunisino amico di entrambi) come dimostrò la plateale e imbarazzante accoglienza che riservò al dittatore libico, quando venne a Roma (è per questo che Sergio Romano scrisse che “la diplomazia si fa con i modi di Andreotti e non con quelli di Berlusconi”). Però, Napolitano o meno, il premier era lui e avrebbe potuto, e dovuto, dissociarsi da quell’impresa che, fra le altre cose, ledeva gli interessi economici dell’Italia. Come fece la Grecia nel 1999 quando, pur membro dell’Alleanza Atlantica, si rifiutò di partecipare all’aggressione della Nato alla Serbia, altra operazione disastrosa perché oggi nei Balcani al posto di un’ipotetica ‘Grande Serbia’, cristiana, c’è una concretissima ‘Grande Albania’, musulmana, e in Kosovo, in Bosnia, e nella stessa Albania proliferano cellule jihadiste a due passi da noi.

Non è però tempo di recriminazioni. Ma di ricompattare un’unità nazionale che abbiamo perduto da tempo immiserendoci in beghe meschine. Il pericolo esiste. Non perché l’Isis possa piantare la sua bandiera nera in Roma. In questo caso c’è il mare, che ci dà tante preoccupazioni per le migrazioni, a difenderci. Anche se, dal punto di vista simbolico, non è rassicurante che una motovedetta italiana si sia calata le braghe di fronte a degli uomini armati che probabilmente non erano nemmeno Isis, ma predoni. In questi casi si spara e si uccide, accettando l’inevitabile rischio di essere uccisi (penso che se ci fosse una contiguità territoriale, infiacchiti e indeboliti, come siamo, dal benessere, basterebbero duemila guerriglieri di Al Baghdadi per conquistare il nostro ‘Palazzo d’Inverno’). La forza dell’Isis non sta nell’indubbia valentia dei suoi guerriglieri, sta nella sua ideologia che come un’epidemia sta attaccando anche luoghi estranei allo stretto Medio Oriente, dalla Nigeria (Boko Haram), agli Shebab somali, a enclave egiziane. Finché questo jihadismo resta nei propri territori dobbiamo lasciarlo essere, senza pretese moralistiche. Vinca il migliore, cioè chi ha un autentico appoggio della popolazione. Se ci attaccano la prospettiva cambia radicalmente. Non credo che il pericolo venga dai migranti. L’Isis non ha interesse a sacrificare i suoi uomini nei barconi periclitanti. Possono venire in Europa con regolari passaporti o essere già in loco. In questo caso, noi europei, noi italiani, che abbiamo attaccato sconsideratamente per più di un decennio Paesi musulmani che non costituivano alcun pericolo per i nostri territori (basti pensare all’Afghanistan del Mullah Omar, all’Iraq di Saddam, alla stessa Libia di Gheddafi) abbiamo il sacrosanto diritto non solo di difenderci ma, per una volta, anche di attaccarli legittimamente in casa loro. E noi italiani senza aspettare inutili coperture Onu. ‘A la guerre comme à la guerre’. Augurandoci che dopo i primi dieci soldati morti non ci si faccia fermare dai piagnistei delle mamme italiane.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 20 febbraio 2015