In questi giorni di Festival di Sanremo ho sentito ripetere più volte dalle Tv e dai critici musicali che Domenico Modugno, che lo vinse nel 1958 con Nel blu dipinto di blu o Volare che dir si voglia, è l’innovatore della canzone italiana. Niente di più falso. Volare, che per di più è la più brutta canzone italiana di tutti i tempi insieme a Le mille bolle blu di Mina che la portò al Festival nel 1961, si inserisce a pieno titolo nel filone melodico all’italiana come altre prove più convincenti del ‘Mimmo nazionale’: Strada ‘nfosa e Vecchio frac.
Chi cambiò le carte in tavola in Italia, l’ho già scritto ma a me piace difendere i calunniati, Nerone, Catilina, il Mullah Omar, e anche gli ingiustamente dimenticati come il più modesto Antonio Lardera in arte Tony Dallara che importò il ‘singhiozzo’ dai Platters e da Paul Anka (Cra-a-azy love, una delle sue canzoni più belle anche se non fra le più famose) e di suo vi aggiunse l’’urlo’ (Brivido blu) facendo piazza pulita una volta per tutte delle Nille Pizzi, dei Claudio Villa, dei Luciano Tajoli e compagnia cantante (è il caso di dirlo).
Per la verità anche Anka e i Platters, che ispirarono Dallara che con i suoi Campioni si esibiva al Santa Tecla di Milano, stavano ancora a metà fra il melodico e la canzone moderna, mentre negli States già furoreggiava il rock duro di Little Richard (Lucille), di Jerry Lee Lewis, di Neil Sedaka (I go ape) e di Presley (anche se ‘Elvis the pelvis’, impomatato e imbrillantinato come i ‘giovanotti’ dei primi anni Cinquanta, era più ambiguo, poteva essere scatenato, Tutti frutti, ma anche melodico, Fame and fortune, senza diventare però sdolcinato). Ma per una curiosa inversione dei tempi i Platters e Anka erano arrivati in Italia prima dei rocker veri. Del resto il mondo allora non era così integrato e si potevano creare delle discrasie fra le due sponde dell’Atlantico. Le comunicazioni non erano istantanee come oggi. Fenomeni sociali, non solo musicali ovviamente, che partivano dall’America potevano arrivare da noi anche un paio di anni dopo e oltre. E li si osservava, da lontano, con stupore e anche con un certo timore. Mi ricordo un titolo de La Notte, quotidiano del pomeriggio, di destra, conservatore, ostile a ogni novità, che a proposito del rock si chiedeva, scandalizzato: “Ma può arrivare anche da noi?”. E Milva, ‘la pantera di Goro’, ancora fatta a domestica e non raffinata dalle frequentazioni con Strehler, cantava con sorpresa in Flamenco Rock: “Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna/terra di matador e di grandi toreri/ormai anche laggiù nella caliente Spagna/non si ballano più passi doppi o boleri/ora ballano il flamenco rock/ora ballano il flamenco rock”. E ‘rock’ lo pronunciava in un modo stranissimo, gutturale, perché era una parola che suonava nuova. E anche la Spagna, che oggi si raggiunge in aereo con pochi euri, era ancora un posto esotico e lontano.
Comunque nel 1958 era arrivato anche da noi un oggetto destinato a rivoluzionare la storia della musica leggera: il juke box. Mentre prima era il gestore dei Bagni o delle discoteche, che allora si chiamavano dancing, a mettere la musica cercando di indovinare il gusto dei ragazzi (quello dei Bagni Umberto di Savona, dove andavo io, ed era già un lusso perché la gente di Milano d’estate si bagnava all’Idroscalo, era piuttosto abile e faceva andare Un treno per Yuma e Jezebel di Frankie Laine, un preannuncio di quello che sarebbe venuto dopo) adesso eravamo noi ragazzi a scegliere. E in quell’ estate del 1958 gettonavamo solo, ossessivamente: Come prima, Ti dirò, Diana, Only you. Con grande scandalo delle nostre mamme per gli ‘urli’ di Dallara e più tardi per quelli, quasi scimmieschi, di Richard. Volare non l’ho mai sentita in quella calda estate in cui la musica italiana si stava rinnovando, soprattutto nei ritmi, nel terzinato, nel sincopato. Modugno era un cantante per vecchie zie e per signore da tea room, che non si sarebbero certo scomodate ad alzarsi dalla canasta o dal ramino per mettere 100 lire in quella macchina infernale e urlante che disturbava la loro quiete.
Dallara avrebbe poi vinto il Festival di Sanremo nel 1960 con la sua canzone peggiore, che cantava con Rascel, Romantica, tentando, senza riuscirci, di trasformare quella melassa, con qualche urlo, in qualcosa di potabile. Peraltro da Sanremo non sono mai uscite canzoni memorabili, in fondo in fondo quella che si ricorda ancora è proprio la prima: Grazie dei fior di Nilla Pizzi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2017