Telefono a un cellulare. Mi risponde una voce maschile, milanese, sulla cinquantina si direbbe dal tono. Mi rendo conto di aver sbagliato. “Mi scusi credo di aver sbagliato numero”. “Non mi secchi. Io sto lavorando” risponde seccato e sgarbato. Cammino per via Manzoni una strada molto trafficata dai pedoni e dai marciapiedi stretti. Mi urto con un signore ben vestito, elegante che va di fretta. “Mi scusi” dico, lui ‘gnanca un vers’. Passeggio nelle vie sotto casa mia. Ogni tanto qualcuno mi chiede indicazioni di una strada, di un luogo. Mi sono domandato come mai si rivolgano a un vecchio talpone come me che procede ‘incerto pede’. Poi ho capito, sono tutti al cellulare o con l’iPad legato alla vita come un marsupio. Sono il solo, nelle vicinanze ad avere l’orecchio libero. Do le indicazioni, sbracciandomi anche un po’ come facciamo (facevamo) noi italiani. Se è un milanese gira il culo senza nemmeno dire grazie. Se è un giapponese s’inchina tre volte. Se è un chicanos, un ecuadoriano, un peruviano, ce ne sono parecchi a Milano, si fanno quattro chiacchiere. Non hanno fretta.
La folla di Milano, a meno che non si sia nel triangolo Montenapo, via Manzoni, piazza Duomo (adesso abbellita da delle palme che non c’entrano niente con una cattedrale gotica) non cammina, marcia. Vede ma non guarda, l’occhio fisso a un suo obbiettivo. Le donne marciano, superbe, su tacco 12 con un ticchettio insopportabile. A costoro sarebbe inutile chiedere qualsiasi cosa, tirano dritto. Con le donne c’è il rischio che lo considerino già stalking. L’altro giorno ero seduto al tavolino di un bar a bere un bicchiere. Fuori, perché a Milano sono tre inverni che non fa inverno. Qualche metro più in là un gruppo di operai sta aggiustando una tubatura. Passa una donna, alta, pistolata, vestita in modo vistoso. Un giovane operaio fa un fischio, che è da sempre il modo popolano, innocente e innocuo, di esprimere la propria ammirazione. Lei gira la testa, lo guarda con occhi da medusa e dice qualcosa che non riesco a capire. Il ragazzo arrossisce fino alle orecchie. Quando passa davanti a me le dico: “Un giorno rimpiangerà, signora, questi fischi”.
Di più maleducati degli italiani ci sono solo gli americani, almeno quelli che vengono qui in Italia (addio agli americani colti e di grandi maniere, quelli che una volta animavano a Firenze le Giubbe Rosse o Piatkowski). Sono davanti all’hotel Principe di Savoia. Aspetto un taxi. Arriva. Il valet mi apre la portiera, ci salgo. Ma dall’altra parte ci si infila un americano. “I’m first”, dietro c’è la sua ganza. Domando al valet, che conosco da anni, chi è il primo. “Lei, dottor Fini”. Mi rivolgo educatamente all’americano e in inglese gli dico di chiedere al valet. “I’m first”. Allora ho perso la pazienza. C’è in me un grumo di violenza che, sfortunatamente, la mia razionalità a quasi sempre tenuto sotto controllo. Ma la prepotenza, gratuita, mi manda fuori dai gangheri. Esco, faccio il giro della macchina, apro la portiera, lo prendo per il bavero della giacca e lo tiro fuori. E’ sulla quarantina, mingherlino, la scriminatura dei capelli perfetta, alla George W. Bush. “Tu sei un ospite qui, sei un ospite, non il padrone. E impara perlomeno quattro parole della nostra lingua. Fuck you and your family”. “Ho il sinistro da un quintale/ e il destro vi dirò/ solo un altro ce l’ha uguale/ ma l’ho messo kappao” (Fred Buscaglione). Sono ancora robusto, l’altro giorno ho battuto a braccio di ferro Ramiro, un simpatico cubano-spagnolo di ventisei anni che serve in un bar vicino e il figlio ventiduenne di un mio amico. Ma dopo il primo cazzotto non ho già più fiato, il cuore mi batte a mille e rischio l’infarto. Per fortuna intervengono i valet a dividerci.
Anche se non sei un perfezionista della lingua anglosassone gli americani, poniamo in un ristorante, li distingui subito dagli inglesi. Parlano a voce altissima, fanno chiasso, completamente indifferenti al disturbo che recano agli altri. Si sentono i padroni del mondo. E lo sono. Per ora. Come Trump ha vietato l’ingresso negli Usa ai cittadini di alcuni Paesi musulmani, io lo vieterei in Italia agli americani. Via, sciò, foera de ball, con le loro basi.
Nel suo libro La mattina andavamo in piazza Indipendenza, Franco Recanatesi, di Repubblica, abbozza di me questo ritrattino: “Fini…anarchico di talento, frequentatore di mondi borderline, bettole e compagnie equivoche”. Mi ci ritrovo. Per lunghe stagioni della mia vita ho frequentato i mondi borderline. Scrivevo i miei libri di notte. Ogni tanto verso le tre o le quattro del mattino saliva qualcuno. L’artista, ricco e famoso, ma rimasto a secco. Per poter continuare nella sua addiction mi chiedeva, a seconda dei tempi, 300 mila lire o 300 o 400 euro. Non ho nulla contro le addiction, le ho anch’io, sia pur di diverso tipo, e so cosa vuol dire trovarsi in condizioni-limite. Ma non restituiva mai il denaro. I ricchi fanno così, altrimenti non sarebbero ricchi. Saliva ‘l’omosessuale di ritorno’. L’omosessuale di ritorno è uno talmente brutto che non può sperare di avere una ragazza. Questo qui era stato interdetto dalla famiglia perché spendeva tutto a ‘marchette’. Gli davo un’ora del mio tempo e alla fine, regolarmente, mi chiedeva 100 mila lire o 100 euro. Saliva a casa mia il mondo degli inquieti, ognuno con i suoi problemi. Ho sempre pensato che sia giusto consolare gli afflitti e, se appena si può, aiutare i bisognosi, di qualsiasi risma (All’ombra dell’ultimo sole/s’era assopito un pescatore/e aveva un solco lungo il viso/come una specie di sorriso./Venne alla spiaggia un assassino/due occhi grandi da bambino/due occhi grandi di paura/eran gli specchi di un’avventura/E chiese al vecchio ‘Dammi il pane/ho poco tempo e troppa fame’/e chiese al vecchio ‘Dammi il vino/ho sete e sono un assassino/Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno/non si guardò neppure intorno/ma versò il vino e spezzò il pane/per chi diceva ‘Ho sete, ho fame’- Fabrizio De André). Sono ateo ma alla fine mi sento profondamente cristiano. Del resto Croce lo ha detto: ”Non possiamo non dirci cristiani”.
Ma, senza abbandonare i mondi borderline, ho avuto anch’io, fra i trenta e i quarant’anni, il mio periodo mondano. Ho conosciuto Susanna Agnelli a metà degli anni ’70, quando era stata eletta sindaco del Monte Argentario. Era rientrata da poco dal Sudamerica dove aveva vissuto a lungo. Era simpatica e un po’ naif, non conosceva il ‘politically correct’ italiano. Ero andato a intervistarla col pretesto del suo ruolo di sindaco, ma l’intenzione vera era di farla parlare di suo fratello, Gianni (Vestivamo alla marinara non era ancora uscito). Le chiesi: “Che cosa sarebbe stato suo fratello se non fosse presidente della Fiat?”. “Ah, sarebbe stato sicuramente comunista, mio fratello”. Il giorno dopo in Fiat scoppiò il finimondo. Mi raccontò anche che Gianni prendeva in giro Giovanni Spadolini, allora ministro della Cultura (avercene adesso, la più grande biblioteca privata di allora). Spadolini telefonò furibondo, paonazzo in volto (questo lo immagino io) al mio Direttore chiedendo di rettificare, di dire che il giornalista aveva capito male. Ma a parte che avevo la registrazione, Tomaso Giglio non era tipo da piegarsi a questi diktat. Con Suni certamente non si parlava mai di denaro. Peraltro i ricchi di terza generazione, se la loro azienda è rimasta in piedi, non sono più dei borghesi e nemmeno degli alto borghesi, sono degli aristocratici. Ci frequentammo a lungo. Il suo atteggiamento cambiò quando divenne ministro degli Esteri, da simpatica e alla mano che era divenne altezzosa e scostante. Scoprii, con un certo stupore, che il successo poteva dare alla testa anche a un Agnelli.
Adesso, da un po’ di tempo, ho ripreso a frequentare le case dei ricchi. Per la solita, stupidissima, ragione, tanto più stupida data la mia età, perché nelle case dei ricchi circolano le belle fighe. Ma i ricchi parlano quasi solo di denaro, non del denaro in grande stile, di investimenti colossali, di operazioni finanziarie fantasiose, ma del denaro miserabile, del costo della servitù, che naturalmente non mettono in regola, della tenda unghiata dal gatto, della riparazione del vaso cinese che si è rotto e così via.
Una mia coinquilina, ricca di famiglia, anch’essa giornalista, la conosco da quando era adolescente. Per anni e anni è venuta, la sera, a casa mia, a sfogarsi, a confessarsi, a parlarmi dei suoi problemi sentimentali, famigliari, professionali. L’ho sempre ascoltata con pazienza e interesse, perché è una ragazza, ora donna, intelligente. Recentemente ha ricevuto in eredità una splendida villa con annesso un grande parco. Certo un’eredità, anche se cospicua, anzi soprattutto se cospicua, pone, nell’immediato, dei problemi di liquidità. Ma sentire lagnarsi una che di case ne ha altre quattro o cinque dà un po’ sui nervi. E io allora penso alla mia domestica, una ragazza rumena di 35 anni che parla un italiano perfetto, sfanga una vita durissima e vive in un monolocale, fuori Milano, con la figlia diciasettenne.
Sento in giro una sostanziale quanto pressoché totale indifferenza per ‘le vite degli altri’ che si coniuga, in contropartita, con un’altrettale autoreferenzialità, un individualismo che assume il volto spaventoso di una mancanza assoluta di generosità, di solidarietà, di attenzione all’altro, di senso della comunità. Io leggo l’Isis, in ultima istanza, come una guerra che i popoli poveri, o almeno una parte di essi, stanno muovendo a quelli ricchi. Non è però per questo che attendo l’arrivo di Al Baghdadi e dei suoi, ma perché, nonostante tutto, mi sembrano più umani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2017