Quando sento parlare di ‘guerre dimenticate’ metto mano alla pistola. Perché vuol dire che gli occidentali se ne stanno per ricordare e hanno intenzione di intervenire in questioni che non li riguardano affatto, provocando i consueti disastri.
E’ avvenuto nella guerra Iraq-Iran cominciata nel 1980 per iniziativa di Saddam Hussein che riteneva che lo Stato persiano si fosse indebolito con la caduta dello Scià e l’avvento di Khomeini. Ed effettivamente per cinque anni gli Stati occidentali si dimenticarono di quella guerra, salvo ovviamente vendere grandi quantità d’armi ad entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma inopinatamente nel 1985 l’esercito iraniano, molto meno attrezzato di quello iracheno, più tecnologico, era davanti a Bassora e stava per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam Hussein, la nascita di un Kurdistan indipendente ai confini della Turchia e la naturale riunione della parte sciita dell’Iraq con l’Iran, perché si tratta della stessa gente, dal punto di vista antropologico, religioso e culturale. Allora intervennero gli americani, per ‘motivi umanitari’ naturalmente: “Non si può permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora, sarebbe un massacro” (i soldati altrui sono sempre ‘orde’, solo i nostri sono eserciti regolari, anche se adesso i pasdaran iraniani, non più ‘orde’, ci fanno molto comodo per combattere l’Isis a Mosul). Risultato dell’’intervento umanitario’: la guerra che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti, terminò solo nel 1988, ma i morti, nel frattempo, erano saliti a un milione e mezzo. Saddam Hussein invece di essere disarcionato restò in sella, e rimpinzato, in funzione antiraniana e anticurda, di armi di tutti i tipi, anche quelle chimiche fornitegli da americani, francesi e sovietici, aggredì il Kuwait. E fu la prima guerra del Golfo (1990). Le ‘bombe intelligenti’ e i ‘missili chirurgici’ americani fecero 157.971 vittime civili fra cui 39.612 donne e 32.195 bambini. E fermiamoci qui.
Nel 1999 gli americani si intromisero in un’altra guerra altrui. Quella fra lo Stato serbo, che voleva legittimamente conservare l’integrità dei propri confini, e gli albanesi del Kosovo che pretendevano invece l’indipendenza. Gli Usa, dando ragione ‘a prescindere’ ai kosovari, bombardarono per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado facendo 5.500 morti civili e fra questi c’erano anche 500 di quei kosovari di cui avevano preso le difese. Ma le conseguenze furono più gravi del numero delle vittime. In assenza del ‘gendarme Milosevic’, il quale, checché se ne sia detto e scritto, era un fattore di stabilità dei Balcani, sono concresciute in Kosovo, in Bosnia, in Albania grandi organizzazioni criminali (armi e droga soprattutto) che per fare i loro affari passano in prima battuta per l’Italia. Inoltre l’azzeramento, come potenza, della Serbia, ortodossa, ha favorito la componente islamica dei Balcani dove oggi allignano le più forti basi che l’Isis abbia in Europa.
Nel 2011 iniziò in Siria una rivolta spontanea contro il despota Bashar al-Assad. Doveva essere una questione fra siriani. Invece c’è stato l’intervento americano (la famosa ‘linea rossa’ di Obama) che ha legittimato quello dei russi, dei turchi e di altri macellai della regione. E così siamo arrivati alla catastrofe umanitaria di Aleppo.
Ma c’è una guerra che è realmente ‘dimenticata’: quella all’Afghanistan che dura da più di 15 anni, la più lunga dei tempi moderni. I giornali occidentali e in particolare quelli italiani (ad eccezione di un recente reportage di Pierfrancesco Curzi pubblicato dal Fatto) ne danno notizie sporadiche, striminzite, reticenti. Più che una guerra dimenticata è una guerra rimossa, occultata, una guerra che non esiste, tanto che si nega lo status di rifugiati politici agli afgani che, sempre più numerosi, fuggono dal loro Paese. Ed è rimossa per occultare la vergogna, occidentale e in particolare americana, dell’occupazione del tutto arbitraria di un Paese che dura da tre lustri.
Si poteva sperare che lo strombazzato isolazionismo di Donald Trump oltre che commerciale fosse anche militare. Invece il neopresidente degli Stati Uniti ha deciso di inviare in Afghanistan altri 4.500 uomini convincendo a ritornarvi anche i canadesi che, con gli olandesi, erano stati fra i primi ad andarsene non capendo l’utilità e il senso di quella ‘missione’ (e quando gli olandesi lasciarono Kabul, l’Emirato islamico d’Afghanistan, guidato dal Mullah Omar, con una nota ufficiale ringraziò pubblicamente il governo e la popolazione di quel Paese). Inoltre il ritiro delle truppe NATO e dei suoi alleati che inizialmente era stato previsto per il 2014 è stato procrastinato al 2020 e oltre (una richiesta in questo senso è arrivata anche all’Italia ed è stata subito accettata).
Anche gli inglesi, che pur si sono battuti bene in Helmand, subendo gravi perdite, hanno deciso di rientrare in forze in Afghanistan. Alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha dichiarato: ”Se era una cosa giusta andare, deve essere altrettanto giusto non lasciare prima che il lavoro sia terminato”. Costoro, la distruzione materiale, economica, sociale, culturale di un Paese e le 200 mila vittime civili provocate dal loro intervento, lo chiamano “lavoro”. Il lavoro del boia.
Senza le basi americane, i bombardieri americani, i droni americani, il governo fantoccio di Ashraf Ghani non resisterebbe più di una settimana ai Talebani. Perché anche il suo esercito, che noi italiani pretendiamo di addestrare, è fantoccio. E’ formato da poveri ragazzi afgani che a causa della disastrosa situazione economica (la disoccupazione è al 40%, all’epoca del governo talebano era all’8%; Kabul ha oggi 5 milioni e mezzo di abitanti, con i Talebani ne aveva un milione) non hanno altra scelta, per guadagnarsi di che vivere, che arruolarsi. Ma appena possono se ne vanno. Ogni anno la metà diserta, l’altra metà, tagiki a parte, non ha nessuna voglia di combattere i propri connazionali. Inoltre nel pletorico esercito ‘regolare’ afgano, che teoricamente conta su quasi 350 mila uomini, ci sono infiltrati talebani che periodicamente aprono il fuoco sugli istruttori stranieri (l’ultimo episodio è del 19 marzo quando un soldato afgano ha ferito almeno tre addestratori americani).
Quando un governo, le forze occupanti, le ambasciate, le ambigue Ong e coloro che vi fanno parte sono costretti a vivere in compound protetti da mura alte sei metri, allineate in tre cerchi concentrici, e non osano mettere il naso fuori se non usando gli elicotteri o ricorrendo ad altre mille precauzioni, vuol dire che sanno di avere contro l’odio della popolazione, anche quella che talebana non è e non è mai stata. Forse Assad, in Siria, ha un appoggio maggiore.
Ma noi continuiamo a restare lì, coperti, oltre che dai muri di cemento, da una vergogna che non si cancella col silenzio. E che ci sopravviverà.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2017