Pochi giorni prima che Khalid Masood, probabilmente un mezzo squilibrato su cui però l’Isis, come sempre fa, ha messo il cappello di “soldato del Califfato”, uccideva quattro persone sul ponte di Westminster, i bombardieri americani, in un sol colpo, ne avevano fatti fuori 200, quasi tutti civili, a Mosul ovest (la notizia è trapelata in ritardo, è stata rivelata dalla Tv curdo-irachena Rudaw e quasi ignorata dai giornali occidentali).
Nella città vecchia di Mosul ovest è asserragliato quel che resta dell’esercito del Califfo, circa 2.000 uomini a quanto se ne sa. Mosul ovest è un dedalo e un intrico di viuzze e per stanare gli uomini di Al Baghdadi bisogna combattere casa per casa. Operazione certo non facile e assai rischiosa. Ma l’esercito cosiddetto regolare dispone di circa 150 mila uomini (peshmerga curdi, pasdaran iraniani, esercito iracheno, più 4.000 elementi dei reparti speciali americani). E’ mai possibile che tutta questa coalizione, molto ben armata ed equipaggiata, non riesca ad avere ragione dei guerriglieri dell’Isis senza ricorrere ai bombardieri? E’ ovvio che se si bombarda una città ad andarci di mezzo sono soprattutto i civili (anche perché i guerriglieri di Al Baghdadi hanno provveduto a scavare cunicoli sotterranei in cui si rifugiano). Ed è quindi inutile che adesso i militari Usa abbiano aperto la solita inchiesta che non porterà a nulla. Quando bombardavano sapevano benissimo che avrebbero ucciso una gran quantità di civili. E questo è tutto.
Non è nemmeno vero che gli 800 mila civili rimasti a Mosul vengano tenuti in ostaggio dagli uomini del Califfato come ‘scudi umani’. Non è militarmente possibile che 2.000 guerriglieri, che hanno altro a cui pensare, possano controllare 800 mila persone. Molto più probabilmente gli 800 mila sunniti che sono rimasti a Mosul ovest con le loro famiglie è perché è lì che vogliono restare, nelle loro case, e più che l’Isis temono le vendette dell’esercito sciita iracheno e dei pasdaran iraniani pur essi sciiti, come è già avvenuto quando sono stati ‘liberati’ i villaggi attorno a Mosul (i peshmerga curdi, in realtà i soli legittimati alla riconquista di Mosul, perché Mosul è curda, sembrano tenersi fuori, per quanto possibile da questa logica di faida).
Il 5 gennaio del 62 a.C. l’esercito di Catilina formato da 3.000 uomini per lo più armati alla bell’e meglio affrontò i 18 mila soldati dell’esercito regolare romano. Catilina aveva scelto oculatamente il luogo, una piccola radura chiamata Campo di Zoro, sopra Pistoia, chiusa a sinistra dai monti che culminano nel poggio di Madonnina e a destra da un’altissima rupe. Alle spalle la catena dell’Abetone lo metteva al riparo, almeno per il momento, da brutte sorprese (un altro esercito romano, proveniente dall’Adriatico, incombeva). Il posto era ben scelto perché il piccolo esercito di Catilina, protetto su tre lati, avrebbe potuto combattere su un fronte limitato, di circa mezzo chilometro, dove la superiorità numerica del nemico, costretto in quell’imbuto, si sarebbe fatta sentire di meno. Ma nello stesso tempo Catilina si era messo in trappola. Lui e i suoi uomini sapevano benissimo di andare incontro a morte certa. Erano in tremila e in tremila caddero. Certo gli intenti di Catilina erano nobili: riscattare la plebe, salvare i piccoli agricoltori strangolati dai grandi latifondisti del Senato, dare voce a quelli che oggi chiameremmo i ‘ceti emergenti’ (mercanti, piccoli imprenditori), tentativi che furono poi anche di Caligola e, in modo molto più strutturato, di Nerone, tutti e tre poi affogati nell’ignominia dalla Storia dei vincitori. Gli obbiettivi dell’Isis sono molto diversi e, ai nostri occhi di contemporanei, per nulla nobili. Ma quando io vedo 350 mila uomini contro 2.000, vocati anch’essi a morte sicura, io sto con costoro quali che siano le loro ragioni. Come sono sempre stato per i catilinari.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017