Ha suscitato scalpore e addirittura scandalo la decisione di un’anziana donna di Caserta, testimone di Geova, di rifiutare le trasfusioni di sangue per cui nel giro di pochi giorni è andata consapevolmente a morire. Qui la religione di lei non c’entra. C’entra il diritto individuale a disporre della propria vita. Il diritto al suicidio. E posso suicidarmi anche se sono sanissimo, non ho dolori, non ho sofferenze. In campo laico questo è ormai pacifico, è scomparsa la concezione che noi non possiamo disporre della nostra vita perché è un bene sociale. Le resistenze vengono dal mondo cattolico secondo il quale la vita è un dono, dono assai bifido a mio parere, di Dio e solo Dio ne è il padrone. In passato, diciamo in era preilluminista dominata dalla visione cattolica del mondo, il suicidio e il tentato suicidio, come ci informa l’Antolisei, “erano puniti, con le sanzioni ordinarie in caso di sopravvivenza dell’individuo o con misure persecutive contro il cadavere e contro il patrimonio in caso di morte”.
Ma il fatto di Caserta schiude la porta a problemi assai più ampi affrontati in una bella e profonda intervista al cardinale Edoardo Menichelli realizzata da Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera. Da questa complessa intervista, che si allarga a molti temi, vogliamo estrapolare il rifiuto, molto moderno, di quelli che i filosofi chiamano “i nuclei tragici dell’esistenza”: il dolore, la vecchiaia, la morte. Al dolore se si è fortunati si può sfuggire, alla vecchiaia se si è ancora più fortunati anche (“caro agli Dei è chi muore giovane” scrive Menandro) alla morte no. E’ ineludibile (“Guerriero che in punta di lancia/dal suol d’Oriente alla Francia/di stragi menasti gran vanto/e fra i nemici il lutto e il pianto/di fronte all’estrema nemica/non vale coraggio o fatica/non serve colpirla nel cuore/perché la morte mai non muore”, De André, La morte). Il cardinale Menichelli sottolinea come la morte sia stata espulsa dalla società contemporanea. Non sta nel quadro della civiltà del benessere che ha dichiarato il diritto alla ricerca della felicità che l’edonismo straccione dei nostri tempi ha tradotto in un vero e proprio diritto alla felicità. Noi la morte, intendo la morte biologica, quella ineludibile, l’abbiamo scomunicata. Interdetta. Proibita. Dichiarata pornografica. La morte è il Grande Vizio dell’era tecnologica, quello che davvero “non osa dire il suo nome”. Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal parlarne. Basta leggere i necrologi dei quotidiani: “la scomparsa”, “la perdita”, “la dipartita”, “si è spento”, “ci ha lasciato”, “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, fino ai trapezismi di cultura cattolica di “è tornato alla pace del Signore”, “è terminata la giornata terrena”, la parola morte, ad indicare ciò che veramente è successo, non c’è mai.
Non c’è la parola, ma la morte c’è. E c’è per tutti, ’a livella come la chiamava Totò, a prescindere dalla vita che abbiamo fatto. In fondo la morte è una cosa pulita che ci libera dalla sofferenza del vivere. Noi, con l’accanimento tecnologico che cerca con tutta una serie di marchingegni di evitare l’inevitabile, riuscendo solo a dilatarlo con modalità raccapriccianti, siamo riusciti a renderla oscena.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2019