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Chi pensava che l’Isis fosse stato definitivamente debellato con la cancellazione del territorio dello Stato Islamico a Raqqa e a Mosul grazie al coraggio dei peshmerga curdi, con l’aiuto però determinante dell’aviazione americana, si faceva delle pericolose illusioni.

I guerriglieri dell’Isis, come abbiamo visto nei giorni scorsi, sono presenti e attivi nelle alture intorno a Kirkuk. In ottobre, a causa dell’offensiva turca contro i curdi, sono fuggiti da un campo di prigionia curdo circa 700 guerriglieri Isis di cui si sono perse le tracce. Nei campi di prigionia curdi sono detenuti circa 11 mila miliziani dell’Isis, in uno di questi campi ce ne sono un migliaio, una vera e propria città quasi autonoma e non è affatto detto che questi prigionieri si siano tutti pentiti. Al contrario. In un notevole servizio che Sky ha dedicato a questo campo di prigionia è stato intervistato un adolescente, un bel ragazzino sui 14 anni, viso pulito e per niente da "tagliagole", molto somigliante all’Ahmed di L’età giovane, il quale non solo non si diceva pentito dei crimini dell’Isis ma controbatteva punto per punto denunciando quelli commessi dagli occidentali.

Ma l’Iraq e parte della Siria sono solo alcune delle aree della galassia Isis che è presente in molte altre zone del mondo. Gli Shebaab somali hanno giurato fedeltà al Califfato e l’hanno ribadita anche dopo la morte di Al Baghdadi. La storia degli Shebaab è assai simile, almeno in parte (più avanti vedremo le sostanziali differenze) a quella dei Talebani afgani. Gli Shebaab avevano sconfitto i ‘signori della guerra’ locali, non diversamente da quanto aveva fatto il Mullah Omar in Afghanistan, e conquistato la capitale Mogadiscio. Gli americani hanno fatto intervenire la vicina Etiopia cacciando gli Shebaab e mettendo al potere, more solito, un fantoccio. Adesso in Somalia c’è una sanguinosa guerra civile e gli Shebaab non avendo altri punti d’appoggio si sono aggregati idealmente, come abbiamo detto, all’Isis. In Nigeria è presente Boko Haram, la fazione più truculenta, ed è tutto dire, dell’Isis. Nel Mali del Nord, dopo uno sciagurato intervento militare della Francia, che è rimasto l’ultimo Paese coloniale in senso storico (basta leggere Le monde per capirlo), gli islamici locali, prima pacifici, si sono radicalizzati giurando fedeltà al Califfato e alleati con i Tuareg, popolazione nomade, sostanzialmente laica, della regione. Ad andarci di mezzo, per ora, sono le popolazioni della zona rimaste animiste, in particolare i Dogon. Però Isis è dilagato anche in Niger e soprattutto in Burkina Faso come dimostrano vari attacchi avvenuti in questi Paesi. Isis è presente anche nel nord del Mozambico, nelle Filippine e addirittura nelle Maldive come raccontò, in un magistrale articolo per Il Fatto, Francesca Borri.

Ma la spinta più poderosa Isis la sta dando in Asia Centrale, nelle aree tribali del Pakistan e soprattutto in Afghanistan. I Talebani, che non hanno nulla a che fare con l’Isis, anzi lo combattono perché la loro è una guerra d’indipendenza totalmente estranea alle folli ambizioni geopolitiche dello Stato Islamico, come chiarì il Mullah Omar nel 2015 in una ‘lettera aperta’ diretta ad Al Baghdadi (non a caso lo Stato dei Talebani si chiama Emirato Islamico d’Afghanistan perché il Mullah non ha mai preteso, a differenza di Al Baghdadi e ora dei suoi successori, di essere un discendente di Maometto) avrebbero potuto facilmente contrastare l’avanzata dell’Isis perché pari per valentia guerriera conoscono molto meglio il territorio, che è il loro territorio. Ma costretti fra gli occupanti occidentali e Isis, dovendo combatterli entrambi, hanno dovuto cedere terreno e oggi gli jihadisti sono arrivati a Kabul e puntano su Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, cosa che preoccupa non poco la Russia di Putin che, in un modo un po’ più intelligente degli occidentali, ha riconosciuto ai Talebani lo status di gruppo politico e sostanzialmente lo stesso Emirato Islamico d’Afghanistan, mentre per gli americani i Talebani sono ancora e sempre dei terroristi e non dei legittimi indipendentisti.

Isis è presente, con le sue milizie, anche in Libia, tanto che i mercanti di uomini se vogliono lasciare le coste libiche per fare il loro sporco lavoro devono pagare tangenti agli jihadisti.

Dopo il colpo di Stato del generale Abdel al-Fattah al-Sisi contro i Fratelli Musulmani, gruppo non estremista che aveva vinto le prime elezioni libere in Egitto, i Fratelli, o almeno una parte di essi, sono diventati a loro volta jihadisti e il Sinai è in mano loro tanto che oggi in quella che un tempo era una zona di spensierate vacanze nessun turista osa più avventurarsi.

Ma a parte gli errori, e anche gli orrori, commessi dagli occidentali in Afghanistan, in Libia, in Egitto, in Mali, la questione più preoccupante è un’altra. Isis è un’epidemia ideologica, sociale, esistenziale, che attira foreign fighters oltre che da alcuni Paesi musulmani, come la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, anche dall’Europa e a volte, in questo caso, non sono immigrati di seconda o terza generazione ma europei a tutti gli effetti. Credo che il fenomeno dei foreign fighters dovrebbe essere analizzato più attentamente. Penso infatti che molto spesso si tratti di persone che non trovando più alcun valore nel modello di sviluppo occidentale, totalmente materialista, lo vanno a cercare altrove.

Quando nacque lo Stato Islamico guidato da Al Baghdadi con un suo governo, con un suo territorio, con una sua popolazione, che sono gli elementi costitutivi di uno Stato, io avanzai la proposta che allora pareva folle e persino filojihadista (Il Gazzettino, 29 agosto 2014) di riconoscerlo. Perché trattare con uno Stato è sempre possibile, con una galassia di jihadisti, quale è oggi Isis, no.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2019