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Una vita da cronista. Nel 1971 fui assunto come cronista all’Avanti! di Milano diretto dall’ottimo Ugo Intini che è stato insieme al compagno Rino Formica, quello che bollò il Comitato centrale del Psi di Craxi come “un circo di nani e ballerine”, uno dei pochissimi socialisti  a non rubare. Ma questo lo si sarebbe saputo poi. Mani Pulite era di là da venire.

Prendevo 120mila lire al mese. La mia giornata era scandita in questo modo. Arrivavo la mattina verso le dieci a Palazzo di Giustizia. I miei colleghi dopo dieci o vent’anni anni di giudiziaria erano bolliti e avevano come principale obiettivo lavorare il meno possibile. Io avevo invece l’entusiasmo del neofita.

Seguivo i processi che interessavano il giornale, quelli che derivavano dalle bombe alla Fiera di Milano, da piazza Fontana, dal “suicidio” di Pino Pinelli che secondo le prime ricostruzioni era ‘volato’ giù dal quarto piano della questura gridando “è la fine dell’anarchia”.  Moltissimo tempo dopo fui convocato in quel quarto piano dalla Digos  che a quarant’anni dai fatti cercava ancora i responsabili della strage di piazza della Loggia. Confesso che, benché il funzionario della Digos, Cacioppo, fosse amabile e gentile, quando mi affacciai alla finestra di quel quarto piano ebbi una brutta sensazione.

All’epoca dell’Avanti! bazzicavo il circolo anarchico ‘Ponte della Ghisolfa’, ma non ho conosciuto Valpreda, in galera da quattro anni senza processo nel silenzio assoluto dei “garantisti” di oggi. Pinelli sì, era il classico anarchico idealista che non avrebbe fatto male a una mosca.

Se non c’erano processi di quel tipo, a Palazzo c’era poco da fare perché i magistrati di allora parlavano solo per “atti e documenti” e scucirgli una notizia era impossibile. Ho conosciuto bene Emilio Alessandrini. Fra di noi c’era un buon rapporto e quando ci incrociavamo nel baretto a fianco del Palazzo parlavamo un po’ di tutto, mai dei processi.

Se non c’erano udienze di quei processi allora andavo in giro per la città in cerca di notizie. Un punto di riferimento era la Statale di Milano ancora in subbuglio post Sessantotto. Alla Statale conobbi Mario Capanna, Michelangelo Spada e Banfi che erano stati espulsi dalla Cattolica. Mi misi sotto le ali protettive di Capanna quando i ‘katanga’ dell’MS mi volevano sprangare. Capanna, di suo, era contrario alla violenza, anche se ebbe la responsabilità di avallarla. Gli garbavano di più gli scherzi un po’ goliardici (le uova alla prima della Scala sulle pellicce delle signore). Una volta ci trovavamo in Largo Gemelli davanti alla Cattolica presidiata dalla polizia. Capanna con un megafono intimò alla polizia di sgomberare. Immediatamente dalla caserma a fianco uscirono i carabinieri. Ci rifugiammo in una chiesetta sconsacrata che era lì a fianco. Ma eravamo intrappolati. Capanna e altri presero una grande asse di legno, sfondarono una porta laterale e fuggimmo. Era una scena medievale e a questa suggestione aiutava il viso umbro di Mario. Di recente ho telefonato a Capanna per sapere se quell’immagine era un parto della mia fantasia, dedita in genere a idealizzare il passato, o se quella storia dell’asse usata come un ariete  era realmente avvenuta. Mario me lo ha confermato.

Altri punti di riferimento erano i circoli anarchici del ‘Ponte della Ghisolfa’ e dello ‘Scaldasole’.  Dove, oltre a Pinelli, ho conosciuto dei giovani anarchici, Joe Fallisi, che girava con un occhio bendato perché era stato menato dalla polizia, Tito Pulsinelli, Della Savia.

Altrimenti bisognava scarpinare. Non era difficile in quella Milano trovare cose interessanti, curiose, quartieri semisconosciuti, anche perché non c’erano ancora i social (oggi è come se un ‘cronista da strada’ avesse un milione di concorrenti che gli bruciano il materiale).

Dopo il giro in città tornavo verso l’una e mezza al giornale per riferire al capocronista, Liano Fanti. L’Avanti! stava in piazza Cavour come molti altri giornali, La Notte, la redazione milanese de La Stampa, il Corriere lombardo. Poi mi incamminavo lungo i giardini, non ancora Montanelli, e raggiungevo casa. Mangiavo e mi riposavo fino alle quattro. Poi di nuovo al giornale. In genere dovevo scrivere due pezzi entro le otto inseguito dalle urla di Intini che gridava “I treni!” (a quell’epoca i giornali erano trasportati ancora materialmente) o “il piombo non è elastico” perché il mio vizio è di andare lungo. Subito dopo mi mandavano al Consiglio comunale, la cosa più noiosa del mondo. Rientravo, scrivevo svogliatamente un pezzullo. Se il capocronista non c’era toccava a me, pressoché novizio, scendere in tipografia per chiudere il giornale. I tipografi erano degli artigiani formidabili. Sapevano leggere la bozza a rovescio e mi hanno insegnato molto, per esempio che i titoli non devono ‘sbattere’, errore che vedo spesso fare oggi. Poi c’erano i correttori di bozze, anch’essi bravissimi. E il rumore incessante delle rotative che per me suonava come una canzone. Insomma un mondo.

Uscito dal giornale a notte fonda andavo a mangiare in una trattoria di via Senato insieme a colleghi, agli inquieti della notte, ubriaconi, puttane, piccola mala. Renato Vallanzasca e Francis Turatello frequentavano altri giri. Vallanzasca lo conobbi in seguito in uno dei suoi brevi periodi di semilibertà. Il “bel René” era molto simpatico. Dalla prigione mi scriveva delle lettere molto fanciullesche, quasi ingenue, ma affascinanti. Io proposi al proprietario del Borghese, Massimo Massano, di dargli una rubrica sul giornale: “Se scrive Sofri, mandante di un vilissimo attentato sotto casa, non vedo perché non possa farlo Vallanzasca”. Il bel René era un bandito a viso aperto, giocava a guardie e ladri. Aveva una mira micidiale come il ‘Sante’ della canzone di De Gregori, Il bandito e il campione. Il bello è che ci vedeva da un solo occhio. Adesso, scontate le sette evasioni, ha raggiunto i 52 anni di galera. Per quante rapine e omicidi abbia commesso mi sembrano un po’ troppi, se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Per parte mia lo avrei graziato già la prima volta che fu catturato a Roma e portato in manette su un balconcino a disposizione dei fotografi e dei giornalisti. In quel clima sociologizzante dove la colpa era sempre della società o della famiglia o delle cattive compagnie un giornalista gli chiese: “Vallanzasca, lei si ritiene una vittima della società?”. Rispose: “Non diciamo cazzate!”. Come ho scritto in altre occasioni: “Vallanzasca è un bandito onesto in una società dove, troppe volte, gli onesti sono dei banditi”. Ogni tanto mi telefona: “Sono Renato” “Renato chi?” “C’è un solo Renato”. Allora capisco che è lui con la sua consueta spavalderia. Ma 52 anni di galera, undici in isolamento o ai famigerati ‘braccetti’, hanno finito per fiaccare anche lui.

Per l’Avanti! seguii, insieme ai colleghi della cronaca e ad altri di rinforzo, la misteriosa morte dell’editore Feltrinelli trovato cadavere sotto un traliccio dell’Enel. Tutti insieme riuscimmo a stare alla pari col Corriere della sera, strapotente concorrente, odiato anche perché era il giornale della borghesia. C’è una foto in cui ci siamo tutti, Intini, Fanti, Punzo, Viola, Schemmari, a cena a tarda notte nella trattoria di via Senato, felici.

L’Avanti! era un ambiente meraviglioso, libertario e anarcoide. Il vice capocronista, Manrico Punzo, era del  Pci. Una volta si scoprì che uno dei dimafonisti era iscritto all’Msi. A nessuno passò per la testa di licenziarlo. Fu semplicemente spostato ad altra mansione perché non avesse accesso ai segreti del giornale.

Dopo due anni passai a L’Europeo. In modo del tutto istintivo perché attraverso Camilla Cederna avevo già ricevuto una proposta da L’Espresso. Scelsi L’Europeo in modo casuale. Una notte, non ci pareva mai che fosse troppo tardi, in macchina il collega Giorgio Santerini mi disse: “Si sa come va a finire con quelli come te, stanno qui due anni e poi vanno a L’Europeo”. Tommaso Giglio, il direttore, cercava dei giovani perché la sua redazione era invecchiata. Affidò il compito a Corrado Incerti, il più giovane. Ma Incerti col lavoro stressante che si faceva a L’Europeo non conosceva nessuno. Si rivolse perciò al caporedattore dell’Avvenire, Giusti, il più grande bestemmiatore che abbia mai conosciuto. Fra piccoli giornali ci si spia. Disse “a me pare bravo quello lì dell’Avanti!, si chiama Fini”. E così fu Europeo.

Passare dalla scanzonatura dell’Avanti! al clima cupo che si respirava a L’Europeo fu un trauma. Dopo pochi giorni volevo già ritornare all’Avanti!. Mi consigliai con Liano Fanti che mi disse se ero diventato pazzo.

Quella trattoria di via Senato, dove ero stato tante volte di notte, mi tornò buona, di giorno, moltissimi anni dopo. Nel 1996 avevano chiuso sia L’Europeo che L’Indipendente, i giornali per cui lavoravo. Mi trovavo quindi col culo per terra. Avevo 53 anni, un’età insidiosa. Mi rivolsi a Guglielmo Zucconi che negli anni Ottanta, insieme a Pierluigi Magnaschi, era stato mio direttore al Giorno. Invitai Zucconi a pranzo in quella trattoria dove ero stato mille volte. Zucconi però non era più direttore del Giorno ma direttore editoriale del QN, una posizione più debole. Capii che, pur stimandomi, non aveva poi tanta voglia di spendersi per me. Uscimmo e ci avviammo in via Senato verso piazza Cavour. All’incrocio tra via Senato e piazza Cavour una splendida ragazza in bicicletta, con regolare minigonna, con gambe altrettanto belle frenò di colpo e, ignorando Zucconi, disse “Ma tu sei Fini!”. Capivo che la cosa colpiva il vecchio Zuc. Però ero in preda a un dilemma: chiedere o no il cellulare alla ragazza? Se lo avessi fatto mi sarei sputtanato con Zucconi. Rinunciai. E fui assunto dal QN.

Poi ebbi molte altre avventure. Credo di aver scritto nella mia vita per un centinaio di testate. Ma qui siamo all’oggi. Però nel mio cuore rimane sempre la mia ‘vita da cronista’ all’Avanti! di Milano.

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023