Incontrando l’inviato speciale di Trump, Paolo Zampolli, Salvini ha affermato che “gli Stati Uniti sono un modello”. Solo un uomo superficiale come il leader della Lega può pensare, ma non è certamente il solo, che gli Stati Uniti di oggi siano un modello. Modello di violenze, all’esterno e all’interno con le continue sparatorie soprattutto di giovani e giovanissimi che evidentemente non stanno bene in quella società e all’esterno con le aggressioni a Stati sovrani.
Certamente oggi i Dik Dik non canterebbero Sognando la California (1966) che è la maggior economia ‘sub-nazionale’ del mondo ma ai cui ingressi stazionano decine di migliaia di homeless che inalberano un cartello dove è scritto “benvenuti nello Stato più ricco del mondo”, perché le sperequazioni sociali ci sono dappertutto ma negli Stati Uniti sono più evidenti e colossali perché tutto in quel Paese è colossale a cominciare dai suoi grattacieli.
Ma partiamo dall’America di ieri. La storia americana inizia con un genocidio quello dei Pellerossa, un popolo spirituale come spirituali sono quasi tutti i popoli indigeni. Genocidio vilissimo, Winchester contro frecce, con l’aiuto delle armi chimiche dell’epoca: l’alcool. Gli americani sono razzisti, del resto ancora oggi esistono “riserve pellerossa”. La mia infanzia è stata funestata da decine di film dove i pellerossa apparivano come crudeli scalpatori e gli americani naturalmente come i buoni. Soldato blu (1970) era di là da venire. Non è quindi solo colpa di Trump se gli immigrati messicani vengono fermati brutalmente alla frontiera.
Ma il popolo yankee, dico il popolo non i suoi dirigenti, è pieno di contraddizioni non tutte negative. E’ gente ingenua, quasi naïf. Ha deglutito senza fiatare non solo l’assassinio di Kennedy ma la favola per cui Jack Ruby, un tenutario di case chiuse, aveva ucciso Oswald, l’assassino di Kennedy, per riscattare l’onore dell’America. Hanno deglutito la sconfitta di Sonny Liston, l’’orso’, contro Cassius Clai (in quel momento Liston era più forte del giovane Clai) perché l’’orso’ era legato alla mafia americana che aveva deciso che era più producente se perdeva. Già la mafia. Gli Stati Uniti sono corrosi dalla mafia (lo stesso Kennedy era legato al capo mafia Sam Giancana) e in questo caso siamo stati noi italiani a inoculargliela, non per nulla tanti mafiosi storici portano nomi italiani, da Lucky Luciano, ad Al Capone, Frank Costello, Vito Genovese.
Non c’è dubbio comunque che nel Dopoguerra gli americani abbiano avuto un influsso positivo su noi italiani. Non solo e non tanto perché ci avevano liberati dal nazi-fascismo ma per il loro senso innato di libertà che si esprime anche nella comodità del vestire. Le donne vanno in teatro in pelliccia ma con le scarpe da tennis. In una sala di lettura della Columbia University, un vero gioiello, i ragazzi non si fanno nessuno scrupolo a mettere le loro scarpe da tennis sulle scrivanie di raffinato mogano. Prima stare comodi, il resto viene dopo.
Gli americani hanno esportato in Europa il rock che allora era una musica di rottura che proveniva dal jazz. Hanno esportato i jeans che erano anch’essi un modo più sciolto di vestire. Ed è strano che questo senso di libertà si sia trasformato oggi in una pruderie insopportabile. Il MeToo è nato in America e i loro presidenti o ministri rischiano il posto non per i propri crimini ma per “comportamenti inappropriati” con le donne. E’ un’ipocrisia tutta, anche se non solo, americana, ipocrisia che si esercita in ogni campo. Negli Stati Uniti la tortura è formalmente vietata, allora si va a torturare a Guantanamo.
Un’altra caratteristica degli yankee, parlo più in senso psicologico che politico, è quella di umiliare i vinti. I processi di Norimberga e Tokyo sono l’esempio più noto ma quando fu catturato Bin Laden si disse che si era riparato dietro una delle sue mogli. Di al-Baghdadi che si era messo a piangere. E anche lo scontro fra Zelenksy e Trump, Zelensky solo contro tutti, The Donald, J.D. Vance e tutta la stampa americana, fa parte di questo tema.
Negli anni Cinquanta c’è stata anche una certa opposizione a questo soccombismo italiano e c’è qualche testimonianza nella canzone “Tu vo fa l’americano” (1956) di Renato Carosone (“Tu vuo' fa' l'americano ‘ ‘mericano ‘mericano ma si nato in Italy Sient a mme, nun ce sta niente ‘a fa Ok, napulitan… Quanno se fa l’ammore sott’ ‘a luna Comme te vene ‘ncapa ‘e di’ I love you”). E in certi deliziosi racconti di Dino Buzzati dove l’autore cercando un posteggio scrive: “Delicata manovra di retromarce lungo la murata di una gigantesca vettura americana bianca e rossa, vero oltraggio alla miseria…il suo, blindato, scudo possente di cromo, carico di specchianti globi, contrafforti e barbacani, che da solo basterebbe, io penso, a sfamare dieci anni una famiglia” (Il problema dei posteggi, Sessanta racconti, 1958). Buzzati, nato a Belluno, non aveva nessuna simpatia per gli americani ma piuttosto per i tedeschi, La corazzata “Tod”, la corazzata Morte è un inno alla grande Germania morente cioè alla Germania nazista.
Direi che la frattura culturale fra noi europei e gli americani, ma qui intendo parlare soprattutto dell’Italia, c’è stata negli anni Sessanta in epoca esistenzialista. Noi non consideravamo gli americani né buoni né cattivi. Ci erano semplicemente indifferenti. Leggevamo Camus, Sartre, Merleau-Ponty e, a ritroso, Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont che hanno influenzato in modo determinante tutta la cultura europea del Novecento, soprattutto artistica.
Poi venne il tempo dello “yankee go home” ma era un fatto politico non culturale. Ciò che mi colpisce degli americani di oggi è la volgarità che non è solo di Trump. Se voi entrate in un ristorante e sentite parlare inglese potete capire subito se si tratta di sudditi di Sua Maestà o di yankee. Lo capite dal fracasso che fanno questi ultimi. Del resto gli americani non sono consapevoli di essere odiati. In qualsiasi circostanza si comportano da primi della classe cui è concesso tutto anche violare un minimo di buona educazione. Anni fa, nel 2008, fui invitato a Kyoto per una conferenza su “Americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell’Europa”. Correlatore era un filosofo della Scuola di Francoforte di cui purtroppo non ricordo il nome. C’erano giapponesi, indiani, coreani, c’era anche naturalmente un giovane americano biondo, con la scriminatura giusta e opportuna mogliettina al seguito. Tutti lo detestavano, ma lui si comportava come se fosse il padrone. Non si rendeva conto dell’odiosità che lo circondava. Più recentemente, ma parliamo comunque di parecchi anni fa, stavo prendendo un taxi davanti all’Hotel Principe di Savoia. La precedenza era mia come avevano confermato sia l’autista sia il valet dell’albergo. Ma mentre ero già seduto si infilò nella macchina un giovane americano, che assomigliava molto nel vestire e nell’atteggiamento a quello che avevo visto a Kyoto, dicendo: “I’m first”. Mi toccò uscire dal taxi, aprire la portiera di sinistra, tirar fuori l’energumeno e cominciare una scazzottata che fu interrotta dai valet dell’albergo (parlo naturalmente di parecchi anni fa, oggi non sarei in grado di estrarre da un taxi neanche un gatto). “I’m first”. Questa è l’ossessione americana. “Make America Great Again”.
7 marzo 2025, il Fatto Quotidiano