Che le dichiarazioni di Abu Mazen (gli ebrei sarebbero in qualche modo responsabili della Shoah) siano inaccettabili, come ha immediatamente dichiarato, fra gli altri, anche l’Unione Europea, non è nemmeno il caso di dirlo. Ci si chiede però, come ha fatto un lettore del Fatto (27.4), Mauro Chiostri, parlando dell’oggi e non del codificato ieri, se lo Stato di Israele non goda di uno speciale salvacondotto basato proprio sullo sterminio ebraico di tre quarti di secolo fa. E’ una domanda, per la verità, che si fanno in molti ma che non osano formulare pubblicamente nel timore di essere immediatamente bollati come antisemiti, negazionisti, razzisti, nazisti. Ma Israele è uno Stato e non va confuso con la comunità ebraica internazionale. In anni meno manichei di quelli che stiamo vivendo attualmente era la stessa comunità ebraica a non volere che si facesse una simile confusione. Ed era logico che così fosse. Perché Israele è uno Stato e, come tale, può compiere azioni criticabili, e anche nefande, ma non per questo ne deve rispondere, poniamo, un ebreo del ghetto di Roma. Oggi invece questa confusione esiste e Israele può compiere impunemente atti che ad altri Stati costerebbero l’indignata condanna, se non peggio, della cosiddetta ‘comunità internazionale’.
1.Durante le manifestazioni popolari di quest’ultimo mese e mezzo a Gaza i militari israeliani hanno ucciso 44 persone e ne hanno ferite 1.400. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres aveva fatto richiesta di un’indagine indipendente sui morti a Gaza. Ma Israele l’ha respinta. Eppure richieste di questo genere sono state accettate persino da Assad e, a suo tempo, da Saddam Hussein. L’esercito israeliano sarà anche “il più virtuoso al mondo” come afferma Netanyahu ma certamente ha il grilletto molto facile.
2. L’altro giorno Benjamin Netanyahu, in diretta tv, con la massima esposizione mediatica possibile, ha accusato l’Iran di aver mentito sul proprio programma nucleare e di stare preparando almeno quattro o cinque bombe Atomiche della stessa potenza di quelle che gli americani sganciarono su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki. Ha anche affermato di essere in possesso di oltre 55 mila pagine di documenti che lo provano. E ha subito trovato una sponda nell’amico di sempre, gli Stati Uniti. In realtà è proprio Netanyahu a raccontar frottole che sono state subito smentite dall’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) i cui ispettori fanno la spola fra Vienna e Teheran e hanno sempre constatato che nelle centrali iraniane l’arricchimento dell’uranio non supera il 20% che è quanto serve per gli usi energetici, civili e medici del nucleare (per arrivare all’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%). Questo il comunicato dell’Aiea che, in materia, è la fonte più autorevole dato che i suoi ispettori fanno le verifiche sul campo: “Non abbiamo alcuna indicazione credibile di attività in Iran attinenti allo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009”.
E’ grottesco, se non fosse inquietante, che uno Stato come Israele, che non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, che ha la Bomba, anche se non lo dice ma, per buona misura, fa sapere, ne accusi un altro, l’Iran, che questo Trattato ha sottoscritto e accetta da sempre le ispezioni dell’Aiea.
Ma anche se l’Iran, in linea puramente ipotetica, volesse farsi l’Atomica non sarebbe uno scandalo circondato com’è da potenze nucleari come lo stesso Israele, il Pakistan e la non lontana India. L’Atomica, è ovvio, serve solo da deterrente, come dice la logica e anche l’esempio del dittatore coreano che si è salvato semplicemente dimostrando di averla e, a contrario, i casi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi che sono stati eliminati provocando il caos mediorientale e libico che tutti abbiamo sotto gli occhi.
3. Gli israeliani hanno effettuato una decina di raid missilistici su postazioni iraniane in Siria. Gli ultimi due, nella notte di domenica scorsa, hanno provocato almeno 40 vittime. Certo le milizie iraniane sono fuori dal proprio territorio col pretesto di combattere l’Isis che è diventato il passepartout per ogni sorta di nefandezze, turche, russe, americane e, appunto, iraniane. Ma Israele ha il diritto di intervenire? Facciamo l’ipotesi opposta. Cosa succederebbe se missili iraniani colpissero ipotetiche postazioni israeliane fuori dal loro territorio? Il finimondo. La condanna e l’indignazione sarebbero unanimi e le ritorsioni, economiche e militari, immediate. Invece con Israele si sta zitti, si fa finta di non vedere, di non sapere.
4. Dal 1946 sono centinaia le risoluzioni Onu che Israele non ha rispettato. Evidentemente è legibus solutus. Fino a quando deve durare questo salvacondotto che, come scrive il lettore Mauro Chiostri, “specula sul dramma della Shoah mancando oltretutto di rispetto alle vittime innocenti che l’hanno subita”?
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2018
Luigi Di Maio ha riportato all’onor del mondo la secolare questione del ‘conflitto di interessi’. Berlusconi ha subito gridato all’”esproprio proletario”. In realtà la questione del conflitto di interessi ne sottintende un’altra che la precede e la innesca: per anni si è tollerato che un unico imprenditore possedesse l’intero comparto televisivo privato nazionale in contrapposizione alla Rai pubblica (o, per meglio dire, partitica: negli anni Ottanta la Dc controllava la prima Rete, i socialisti, ad esser più precisi, i craxiani, la seconda, il Pci la terza). Una situazione sostanzialmente illegittima perché in una democrazia liberale l’oligopolio impedisce quella libera concorrenza che è il sacro mantra, almeno a parole, di questo sistema. Ci pensò Bettino Craxi a mettere al riparo Berlusconi da una sentenza della Suprema Corte che dichiarava l’incostituzionalità dell’intero sistema televisivo, attraverso una legge, la legge Mammì, che consentiva a Berlusconi di mantenere, con tre Reti (Canale 5, Italia Uno, Rete 4) la sua posizione dominante. Craxi fu ricompensato da Berlusconi con un finanziamento illecito di 21 miliardi di vecchie lire al Psi.
La legge Mammì, perché la cosa non apparisse così sporca com’era, imponeva a Berlusconi un solo obbligo: sbarazzarsi del suo quotidiano, Il Giornale. E l’allora Cavaliere lo vendette a suo fratello, Paolo. Il che dice, prima che saltassero fuori tutte le sue responsabilità penali, in qual conto questo soggetto tenesse le regole e le leggi.
Il problema del ‘conflitto di interessi’ si affaccia quando Berlusconi, pur rimanendo tenutario di un oligopolio televisivo condiviso con la Rai, diventa un uomo politico. La sua vittoria nelle elezioni del 1994 è dovuta in buona parte al possesso in solitaria delle tv private, non tanto al momento del confronto elettorale ma nei lunghi anni che l’hanno preceduto durante i quali Berlusconi aveva potuto educare gli italiani alla propria cultura o piuttosto subcultura. L’italiano nasceva naturaliter berlusconiano. Era stato Umberto Bossi, in combinazione con le inchieste giudiziarie di Mani Pulite, a scuotere l’albero della Prima Repubblica, facendone cadere le mele più marce, ma fu Berlusconi, che non aveva mosso un dito, a coglierne i frutti.
Furono innalzate alcune cortine fumogene per mascherare il fatto inaudito per una democrazia liberale che un premier potesse possedere, e in misura così rilevante, organi di informazione determinanti (né Merkel, né Macron, né Trump, solo per citare gli esempi più significativi, hanno tv o giornali). Inoltre poté mettere le mani – ma questo lo avevano fatto anche, prima di lui, tutti gli altri leader e sottoleader politici - su ampie porzioni della Rai pubblica, che dovrebbe appartenere ai cittadini e in cui invece scorrazzano a loro piacere, a seconda dei rapporti di forza, quelle associazioni di diritto privato, quelle bocciofile, chiamate partiti. Le cortine fumogene erano il blind trust, il ‘consiglio dei tre Saggi’, tutte cose di cui naturalmente si sono perse le tracce. E così il ‘conflitto di interessi’ è rimasto un tumore della nostra democrazia.
Berlusconi sostiene che la questione non esiste, perché è da tempo che si disinteressa delle sue televisioni e comunque “tutti sanno che sono l’editore più liberale che esista”. Simili cose turche le può dire solo un soggetto paranoide che crede sinceramente – io la penso così- alle sue menzogne. E in ogni caso anche se ciò che dice fosse vero non è che cose del genere possono dipendere dalla ‘bontà’ di un imprenditore. E’ come se un industriale dichiarasse che con lui i diritti sindacali sono inutili perché è solito trattar bene i suoi lavoratori.
Comunque Berlusconi si tranquillizzi. Nessuno, nemmeno Di Maio, credo, vuole espropriarlo delle sue aziende. Sono realtà imprenditoriali divenute troppo importanti, anche dal punto di vista occupazionale, per toglierle a chi le ha fondate e costruite con una capacità che nessuno può mettere in discussione.
Se però, come dice di continuo, vuol bene a quello che chiama “il mio Paese” (per la verità sarebbe anche il nostro, ma lasciamo perdere) dovrebbe ritirarsi dalla politica. Invece resta lì, come un macigno. Impedendo con la sua presenza, nelle temperie attuali, un’alleanza con le destre di Salvini e Meloni.
Dall’altra parte c’è un macigno più piccolo: Matteo Renzi. Che, sempre in nome del ‘bene del Paese’, ma in realtà per “un ego smisurato” come lo ha definito Di Maio, non dissimile da quello di Berlusconi, si oppone a qualsiasi accordo con i grillini. Non solo non pensa al ‘bene del Paese’, ma nemmeno a quello del suo partito. Après moi le déluge!
E così noi italiani, sudditi senza diritti, a cominciare da quello di scegliersi il proprio destino, ostaggio di uomini politici, alcuni delinquenti, altri irresponsabili, “continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2018
La novità più interessante del pensiero a Cinque Stelle è il privilegiare, nella scala dei valori, il tempo sul lavoro, di cui il prossimo primo maggio si celebra la Festa (“la festa della nostra schiavitù” come l’ho sempre chiamata io). In epoca preindustriale il lavoro, per dirla con San Paolo, é “uno spiacevole sudore della fronte”. Non è un valore. E’ nobile chi non lavora. Con quel grandioso fenomeno (a parer mio non ancora studiato a sufficienza) che prende il nome di Rivoluzione industriale la prospettiva cambia radicalmente. Sia nella versione marxista che liberista dell’Illuminismo, che cerca di razionalizzare le profonde novità introdotte da questa Rivoluzione, il lavoro diventa centrale. Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stachanov, in realtà uno ‘schiavo di Stato’, è un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberisti è esattamente quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso ‘plusvalore’.
Per me il vero valore della vita è il tempo e l’ho scritto in tutta la mia opera. La novità portata, sia pur in modo saltabeccante, da Grillo, che riprende un’intuizione di Gianroberto Casaleggio, è di aver precisato, con la sua definizione di “tempo liberato”, di quale tempo si stia parlando.
In che cosa si distingue il “tempo liberato” dal più noto tempo libero? Il tempo libero è un tempo sincopato, determinato dai ritmi e dai tempi del lavoro. In realtà non è affatto ‘libero’, ma è destinato al consumo senza il quale tutto il grande castello produttivo che abbiamo costruito, e sul quale si basa l’attuale modello di sviluppo, crollerebbe miseramente. Noi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre, un’aberrante incongruenza che era già stata avvertita da Adam Smith che pur è, insieme a David Ricardo, uno dei padri fondatori di questo sistema. “Dobbiamo consumare per aiutare la produzione”, quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase dagli economisti e dagli uomini politici? Il ‘tempo libero’ quindi non è affatto tale, non solo perché è determinato inesorabilmente dai ritmi e dalle esigenze dei tempi del lavoro e della produzione ma perché deve essere destinato al consumo compulsivo e nevrotico. Milano da questo punto di vista è una buona base di osservazione. Nel weekend i milanesi schizzano via e si catapultano, a seconda delle stagioni, a Cortina, a Saint Moritz, a Gstaad o a Portofino, a Rapallo, al Forte dei Marmi, dove vedono le stesse persone che hanno lasciato in città e si abbandonano agli stessi riti e agli stessi ritmi. Per rientrare la domenica sera più stanchi e sfatti di quando sono partiti. Paradossalmente se la passa meglio chi, per mancanza di denaro, resta in città. E’ “la ricchezza di chi è più povero” per parafrasare un aforisma di Nietzsche capovolgendolo lessicalmente ma mantenendone il senso.
Il “tempo liberato” è invece quello che dedichiamo a noi stessi, alla nostra interiorità e spiritualità, alla riflessione, alla contemplazione, alla creatività disinteressata. E’ un tempo quasi ‘religioso’ (non per nulla sia Wojtyla che Francesco ne hanno fatto a volte cenno) intendendo questa espressione in senso molto lato. E’ quel “pauperismo” che Berlusconi, che sta dalla parte opposta della barricata ma di cui tutto si può dire tranne che manchi di intuito, ha percepito e condannato nel ‘grillismo’ e di cui, probabilmente, nemmeno buona parte dei seguaci dei Cinque Stelle è consapevole.
E’ chiaro che la piena attuazione del “tempo liberato”, a scapito del mito del lavoro, imporrebbe uno scaravoltamento dell’attuale modello di sviluppo, al momento impensabile. Per ora accontentiamoci del possibile: che sia la tecnologia a lavorare, almeno in parte, al nostro posto, senza per questo sbatterci sul lastrico (il “reddito di cittadinanza”, il cui contenuto va naturalmente approfondito e reso economicamente più compatibile, va in questo senso) e non noi a dover lavorare, a velocità sempre più sostenuta, in funzione della tecnologia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2018