Venerdì il CENSIS, Centro studi investimenti sociali (smettiamola di parlare per sigle e ridiamo alle cose il loro nome) ha pubblicato l’annuale Rapporto sulla situazione sociale del nostro Paese. Uno studio, ricchissimo di spunti, che tutti i giornali hanno ripreso, ma in modo più approfondito, dedicandogli tre pezzi, l’Avvenire, quotidiano della Cei, Conferenza episcopale italiana, cioè dei vescovi. Ed è naturale che sia così perché, in un mondo totalmente materialista, la Chiesa cattolica ha al centro della sua riflessione l’uomo, anche se, rispetto ad altre religioni, non è riuscita, per ora, a intercettarne i rinascenti bisogni spirituali.
La giornalista dell’Avvenire, Alessia Guerrieri, scrive che “viviamo fra un’ansia di massa, incertezza del futuro e difficoltà di fidarsi degli altri”. Che esista un’”ansia di massa” è confermato, sul Corriere, dallo psichiatra Claudio Mencacci che afferma che “ben 8 milioni d’italiani soffrono di disturbi d’ansia con conseguenze gravi sulle proprie capacità nella vita professionale”. Ma non c’è bisogno di ricorrere agli psichiatri, tutti noi, credo proprio tutti, poveri o ricchi che si sia, viviamo in un perenne stato d’ansia. Da che cosa dipende? Il Censis lo fa risalire a ragioni economiche: disoccupazione, semi-occupazione, incertezza per il proprio futuro lavorativo, disuguaglianze sociali. Certo sono ragioni importanti, ma io non credo che questo sia il nocciolo più autentico della questione. Negli anni Cinquanta eravamo tutti – a parte una strettissima striscia di borghesia che aveva almeno il buon gusto e il buon senso di non ostentare la propria ricchezza - molto più poveri di quanto non lo si sia oggi. Eppure non si avvertiva in giro nessuno “stato d’ansia”, ma semmai spavalderia e anche allegria. Il nostro generale smarrimento deriva, a mio parere, da altre circostanze. In primo piano c’è la velocità spaventosa, esasperata dalla globalizzazione, a cui sta andando il nostro modello di sviluppo e la questione qui non è solo italiana ma riguarda gli stili di vita del mondo occidentale e di quei Paesi che questi stili hanno adottato. Dopo aver letto Avvenire ho visto la sera su Sky uno speciale dedicato ai Bitcoin e a tutte le monete virtuali che stanno prendendo piede in un mondo che non è più reale ma è appunto virtuale. Che è lo stesso mondo in cui si rifugiano i ragazzi, e non solo loro: secondo il Censis il 73,8% possiede almeno uno smartphone e vive con esso da quando si sveglia a quando va a dormire. C’è quindi una fuga dalla realtà, una realtà troppo complessa per poter essere in qualche modo governata e soprattutto retta dal singolo. Il fatto è che nel giro di pochi decenni sono saltati tutti i punti di riferimento su cui eravamo abituati a vivere, quei valori che io chiamo “preideologici e prepolitici”: senso della propria dignità, onestà e persino un minimo di buona educazione. C’è nel Rapporto del Censis un dato che a mio parere è decisivo: “il 75% degli italiani non si fida più degli altri”. E non si vive bene quando non puoi mai sapere se chi ti sta davanti è una persona onesta oppure un mascalzone che nei modi sofisticati oggi possibili cerca di portarti via, oltre al portafoglio, anche l’anima.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2019
Si celebrano in questi giorni in Gran Bretagna i 70 anni della NATO (North Atlantic Treaty Organization). Portati malissimo. In un’intervista rilasciata all’Economist ai primi di novembre il presidente francese Macron ha definito la Nato in uno stato di “morte cerebrale” e se la Germania della Merkel ha preso le distanze da questa dichiarazione è stato solo per il momento scelto, giudicato prematuro, non per il suo contenuto. Lo stesso Trump, in uno dei suoi momenti di quella brutale franchezza che gli è propria, tempo fa aveva definito la Nato “obsoleta”.
Il fatto è che la Nato nel corso degli anni ha cambiato completamente la sua natura. Da trattato difensivo fra i Paesi occidentali al di là dell’Atlantico e le democrazie occidentali al di qua si statuiva un mutuo soccorso armato nel caso che uno dei Paesi dell’Alleanza fosse stato aggredito da un altro che della Nato non faceva parte. Fondamentale è l’articolo 5 del Trattato che recita: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse...assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”.
Finché è esistita l’Unione Sovietica questo Patto aveva un senso per inibire all’”orso russo” la tentazione di intraprendere pericolose avventure in Europa Ovest (già escluse peraltro dal Patto di Jalta fra Roosevelt, Churchill e Stalin). Poi l’ha perso. Che Paese Nato minacciava la Serbia, cristiana e socialista, di Milosevic aggredita brutalmente nel 1999? Che Paese Nato minacciava l’Iraq di Saddam aggredito e invaso nel 2003? Che Paese Nato minacciava la Libia di Muammar Gheddafi aggredita e invasa nel 2011? Tutte queste avventure di iniziativa americana (perché la parità fra i membri del Patto Atlantico non esiste, è solo formale) hanno avuto conseguenze pesantissime per l’Europa. Basterebbe pensare alla Libia, ma anche il continuo martellamento sui Paesi musulmani del Medio Oriente ha partorito l’Isis che sull’Europa ha rovesciato i suoi terroristi essendo l’America troppo lontana per essere, almeno per il momento, raggiunta.
Nonostante tutto questo si continua a ribadire, in ogni sede, l’”indispensabilità della Nato” per l’Europa. Franco Venturini, autorevole commentatore del Corriere, in un’intervista a Sky, ha affermato che gli italiani (ma la cosa potrebbe essere attribuita anche ai tedeschi) sono contenti, anzi “felici”, perché così si sentono meglio difesi, di avere 60 basi militari, alcune nucleari, sul proprio territorio, basi che sono Nato o americane tout court. Ne dubito molto. Non c’è bisogno di essere Salvini per non essere affatto “felici” che gli americani facciano il bello e il cattivo tempo nel nostro Paese, godendo oltretutto dell’extraterritorialità per cui i crimini dei loro militari non possono essere giudicati in Italia (Cermis, stupri dei soldati americani, per limitarci a qualche esempio). Ma Italia a parte dovrebbe essere evidente a chiunque che gli interessi, militari ed economici, di Europa e Stati Uniti non coincidono più, sono anzi divergenti. Gli americani, sentendosi ancora padroni del mondo mentre non lo sono più, vogliono impedire, con vari pretesti, all’Europa di avere relazioni commerciali con l’Iran o la Cina. Ci minaccia forse la Cina? No, la Cina fa una politica economica nel suo interesse che coincide però con gli interessi di noi europei perché, nella globalizzazione, sarebbe folle ignorare un mercato di un miliardo e 400 milioni di individui. L’America continua a imporci dazi che vanno tutti a nostro svantaggio. “America first”, capiamo il punto di vista di Trump, ma dovrebbe essere lecito anche poter dire “Europa first”.
Per questo sarebbe necessario che gli europei, se ne avessero le palle, denunciassero un Trattato, quello Atlantico, che non ha più alcuna ragion d’essere (ci dobbiamo beccare anche la dittatura di Erdogan in Turchia, membro, non si sa per quali ragioni, anzi le si sa benissimo, della Nato). Ecco perché sarebbe di vitale importanza che l’Europa si dotasse di una difesa autonoma, nucleare, togliendo innanzitutto alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere quella Atomica di cui, oltre a Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna (che però è fuori dalla Ue), si sono ormai dotati tutti, India, Pakistan, Sudafrica, Israele e persino l’Arabia Saudita e in prospettiva anche l’Iran se continueremo a martellarlo con le pesantissime e del tutto ingiustificate sanzioni economiche imposte dall’America. Perché nessun Paese, in questo caso quell’agglomerato di Paesi che chiamiamo Unione Europea, potrà mai essere veramente indipendente e sicuro senza una forza militare adeguata.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2019
Scrivevamo sul Fatto del 16 novembre (L’Isis è oramai un’epidemia mondiale): “Chi pensava che l’Isis fosse stato definitivamente debellato con la cancellazione del territorio dello Stato islamico a Raqqa e a Mosul grazie al coraggio dei peshmerga curdi, con l’aiuto però determinante dell’aviazione americana, si faceva delle pericolose illusioni”.
Purtroppo siamo stati facili profeti come ci dice l’attentato di Londra. E’ del tutto improbabile che in questo caso l’attentatore abbia agito in coordinazione con lo Stato islamico, ne hanno subìto però le suggestioni. Dall’attacco alle Torri Gemelle il valore simbolico dell’atto, come osservò Jean Baudrillard, supera in potenza la realtà dell’atto stesso, si tratti di tremila morti come alle Torri o di tre come venerdì a Londra. Da allora nei Paesi occidentali, i cui abitanti erano abituati a ruminare una vita tranquilla, si vive in uno stato di perenne inquietudine (“qui chi non terrorizza, si ammala di terrore”). Significativo è l’obbiettivo scelto dal jihadista improvvisato: l’affollatissimo London Bridge nel giorno del Black Friday. E’ ovvio che gli attentatori scelgano i luoghi più affollati perché più facile è colpire. Ma non c’è solo questo. Gli jihadisti vogliono colpire la nostra way of life, il nostro consumismo, i nostri giorni di festa. Credo che nella mente dello jihadista solitario di cultura musulmana si agiti questo pensiero: per anni avete vissuto tranquillamente mentre ci bombardavate senza pietà facendo centinaia di migliaia di morti. Bene. Adesso la Festa è finita, al vostro terrore rispondiamo col terrore.
Ma nel caso di London Bridge c’è anche un’importante e incoraggiante novità: i cittadini inglesi invece di comportarsi come pecore e scappare, com’era avvenuto in tutte le altre occasioni simili, hanno aggredito e stoppato l’attentatore. E’ stato rincuorante vedere uno di questi passanti, uno qualunque, tenere in mano il coltello strappato all’attentatore prima di consegnarlo alla polizia. Un’azione che se forse è troppo definire eroica è troppo poco definire coraggiosa perché nessuno poteva sapere se la “cintura esplosiva” era falsa o invece autentica e in grado di far saltare in aria tutti quelli che stavano nelle vicinanze. Ma gli inglesi sono inglesi, un popolo a cui, nel bene e nel male, non è mai mancato il coraggio. E’ agli inglesi, più che agli americani o ai russi, che dobbiamo la sconfitta del nazismo. A Dunkerque, in stato di grandissima difficoltà di fronte alla possente avanzata delle armate di Hitler, in quel momento più forti e più motivate, riuscirono a ritirarsi con ordine, senza panico. Sotto l’infuriare delle V2 il re Giorgio XI rimase ostentatamente a Buckingham Palace per dare un esempio ai suoi sudditi. E Winston Churchill quando divenne Primo ministro all’inizio della guerra chiudeva il proprio discorso, riprendendo quello di Catilina ai soldati prima della battaglia decisiva di Pistoia, così: “vi prometto solo lacrime e sangue”. Questo è un popolo. Cerchiamo, almeno nella lotta senza quartiere col terrorismo internazionale, di prenderne esempio.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2019