Testo integrale dell'articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano il 13 settembre 2014 e tagliato per motivi di spazio.
Il Fatto ha pubblicato un'interessante lettera inviata a Barack Obama dall'ex avvocato di Saddam Hussein, Badie Arif: «Nella mia lettera a Vostra Eccellenza quattro anni fa vi avevo avvertito che al-Qaeda e i gruppi islamici sarebbero diventati la seconda potenza in questo mondo afflitto da crimini catastrofici. Le ingiustizie che sta perpetrando porteranno centinaia di migliaia o anche milioni a unirsi sotto la bandiera dei gruppi salafiti e i gruppi islamici emergeranno. Non sarà possibile resistere a questi gruppi armati. Questi gruppi arriveranno fino alla porta della sua casa e potrebbero rapire membri della sua famiglia e prenderli in ostaggio. Fino a quando saranno commesse ingiustizie le cose andranno in questa direzione». Non so a quali ingiustizie si riferisce l'avvocato Arif, se all'aggressione all'Afghanistan talebano del 2001, l'aggressione all'Iraq del 2003, l'aggressione alla Somalia islamica del 2006/2007, l'aggressione alla Libia del 2011, certamente ce n'è una molto più attuale ed è l'intromissione degli americani e di alcuni Paesi occidentali nella guerra civile in corso in Siria-Iraq non si capisce a che titolo e con quale diritto, cercando di sottrarre ai combattenti dell'Isis una vittoria che si stavano conquistando legittimamente, anche se ferocemente.
Se gli occidentali continueranno a intromettersi in un'area che non è, almeno dal punto di vista giuridico, assolutamente di loro competenza è inevitabile, come dice l'avvocato Arif, che i guerriglieri dell'Isis portino la guerra in Occidente (se tu vieni, arbitrariamente, in casa mia, io vengo a casa tua). E lo faranno con le armi che, contro eserciti superarmati, hanno a disposizione: il terrorismo e i kamikaze. Il ministro dell'Interno, Alfano, ha giustamente avvertito che l'Italia è uno dei primi Paesi nel mirino. Non per l'immigrazione 'boat people' dei poveracci, come sostiene il razzista Feltri, ma per ragioni molto più valide. Non solo perché Matteo Renzi, unico premier europeo, è andato a fare il bulletto a Erbil confondendo la guerra con una zuffa fra le lavandaie di San Frediano (del resto la lavandaia è lui), non solo perché l'Italia manda armi, sia pur spuntate, ai nemici dell'Isis, non solo perché, come sempre serva fedele, anche se sleale, degli americani si è arruolata in quella congrega mondiale che, secondo Obama, dovrebbe «distruggere» il Califfato, ma per una ragione di cui essa stessa è causa o quantomeno compartecipe. Nel 1999 gli americani, senza copertura dell'Onu, senza alcuna legittimazione internazionale, aggredirono la Serbia di Milosevic per la questione del Kosovo. C'erano due ragioni a confronto: quella degli indipendentisti albanesi, diventati col tempo maggioranza, e quella della Serbia a difendere l'integrità dei propri confini nazionali e una terra, appunto il Kosovo, che ritengono essere, per ragioni storiche risalenti a cinque secoli fa, «la culla della patria serba» (ma Barbara Spinelli, sulla Stampa, irrise a queste ragioni storiche, senza rendersi conto che ha sempre difeso Israele anche sulla base di ragioni altrettanto storiche, anzi quasi pre-storiche, risalenti a migliaia di anni fa). Che c'entravano gli americani col Kosovo? Non sapevano neanche dove fosse. Fatto sta che gli Usa, con la complicità dell'Italia nella poco nobile parte del 'palo' (gli aerei partivano da Aviano), bombardarono per 72 giorni una grande capitale Europea come Belgrado (che è come bombardare Milano).
L'intenzione degli Stati Uniti era di creare un cuneo di musulmanesimo 'moderato' nei Balcani (Albania+Bosnia+Kosovo) a favore del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Purtroppo all'interno di quel musulmanesimo 'moderato' sono cresciute delle cellule di islamismo radicale. Che non stanno in Iraq o in Siria ma al di là dell'Adriatico e che ci possono colpire in ogni momento. Qualche anno fa a Ballarò, presente d'Alema, dissi: «Mi perdoni, presidente, ma quella alla Serbia è stata una guerra cogliona». D'Alema non replicò. Ma io non ho mai più messo piede a Ballarò.
Massimo Fini
Molti cittadini europei, soprattutto inglesi e francesi, ma anche tedeschi e persino italiani, vanno in Iraq e in Siria a battersi con l'Isis. Per lo più si tratta di immigrati di seconda generazione, con genitori musulmani. Ma ci sono anche occidentali che si sono convertiti all'islam. Tutti sono giovani o giovanissimi. A mio parere questa voglia di battersi a fianco dell'islamismo più radicale a solo in parte motivazioni religiose. E spesso non ne ha nemmeno di sociali. Parecchi di coloro che vanno a combattere hanno posizioni di buon livello, sono ingegneri, dirigenti d'azienda, funzionari di banca. E' che la vita in una democrazia è percepita, dai giovani, come mortalmente noiosa, un'esistenza che corre monotona, senza brividi, senza troppi rischi che non siano quelli di un incidente in auto o in moto, dalla culla alla tomba. Non è un caso che in questi ultimi anni, lontani ormai dalla seconda guerra mondiale, dallo scontro ideologico fra il cosiddetto 'mondo libero' e quello comunista, che permetteva a chi aveva passione di impegnarsi e anche, a seconda della parte d'Europa in cui si trovava, di mettere in gioco se non la sua vita la comodità della propria esistenza, si siano diffusi, sempre fra i giovani, sport estremi come il 'bungee jumping' o il 'free climbing' e ragazzi intelligenti (perché non tutti sono dei cretini o degli incoscienti) si strafacciano di coca e poi si mettano al volante sapendo, pur con la mente annebbiata dalla droga, i rischi cui vanno incontro. Oserei dire che li cercano. Del resto basta entrare in una discoteca e vederli scatenarsi nel ballo (che da sempre è un'istinto dei neri, molto meno dei bianchi) per capire che a questi giovani manca qualcosa. Noi ragazzini, negli anni Cinquanta, non avevamo bisogno di cercare questi brividi 'extra', ci era sufficente sapere che nei 'terrain vague' in cui giocavamo bastava un nulla per lasciarci la pelle, o quantomeno una gamba, mettendo un piede su qualche ordigno graziosamente lasciatoci in eredità dai bombardieri angloamericani.
Ma se da una parte l'accorrere dei giovani europei fra le file dell'Isis può essere considerato una variante estrema del 'bungee jumping', dall'altra c'è, indubbiamente, anche una questione valoriale. La democrazia è un sistema di regole e procedure. Non è un valore in sè. E' un sacco vuoto che deve essere riempito. Purtroppo la prassi liberal-capitalista (ma lo stesso discorso varrebbe per il comunismo se esistesse ancora) non è stata in grado di colmarlo se non con contenuti quantitativi e materiali. «Non si vive di solo pane» ha detto qualcuno cha ha avuto una certa importanza nella storia del mondo e quando di pane ce n'era molto meno di oggi. Non si può vivere avendo come obbiettivo, come sogno supremo, quello di passare da una Opel Corsa a un'Audi a una Porsche a una Bmw. La Chiesa cattolica, soprattutto durante il papato del troppo osannato Wojtyla Superstar (con Bergoglio vedremo), non è stata capace di intercettare le esigenze di spiritualità che emergevano da un mondo che era diventato interamente materialista. Così molti, in Europa, si sono volti verso le religioni o le filosofie orientali o addirittura, nelle fasce sociali più deboli o ignoranti, alle pratiche dell'occultismo, del satanismo, all'astrologia così lontane dalla sapienza della Chiesa di Paolo. In ogni caso il capitalismo ha provveduto subito a trasformare queste esigenze in 'new age' cioè nel consumo della spiritualità.
L'Isis, l'islamismo radicale e guerriero, offre con i suoi valori, sbagliati o giusti che siano, uno sfogo a queste esigenze di spiritualità oltre a quella di non sprecare una vita basata sul niente, sul nulla. Invece di bombardarlo vigliaccamente, perché non siamo più nemmeno in grado di mandare degli uomini sul campo, ma solo robot che ci sostituiscono, dovremmo capire che la sua forza sta nel nostro vuoto di valori, nella nostra mancanza di coraggio e di dignità. Rileggiamoci Sant'Agostino, uno che le palle ce le aveva: «Che scandalo c'è se in guerra muoiono uomini comunque destinati a morire?».
Massimo Fini
Il Gazzettino, 12 settembre 2014
Ho letto la bella intervista di Emiliano Liuzzi a Mario Capanna. Conosco Capanna dal 1968 e ho per lui stima e anche affetto. Perché è stato una delle rarissime persone capace di entusiasmarmi, agli inizi del movimento studentesco, non ancora MS. Capanna era personalmente contrario alla violenza. Preferiva gli sberleffi ludici, come il lancio delle uova alla Scala sulle 'sciure' invisonate. O come quando in Largo Gemelli, con un megafono in mano, ordinò ai carabinieri della locale stazione di arrendersi. Fummo subito caricati e ci rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì vicino. Ma eravamo circondati, in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che serviva per i restauri e la usò come un maglio contro una porticina che dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel viso umbro, ce l'aveva un po' l'aria del monaco eretico). Era contrario alla violenza ma ebbe la grave responsabilità politica di avallarla e si autoassolve con troppa disinvoltura. Dimentica gli innumerevoli, selvaggi, pestaggi avvenuti davanti alla Statale. Nel febbraio del 1972 ce ne furono uno dietro l'altro, contro uno studente israeliano sospettato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della Cia, l'altro contro un sindacalista della Uil, Giovanni Conti accusato in un comunicato dell'MS oltre che di nefandezze politiche di alzare il gomito e di amare la notte. Tale era, sotto le parole rivoluzionarie, il moralismo bacchettone dell'MS. Io allora lavoravo all'Avanti! e avevo lasciato quasi da subito l'MS proprio per questo 'vizietto' del linciaggio. Scrissi questo corsivo: «Il Movimento studentesco c'è ricascato. A poche settimane di distanza dall'aggressione del sindacalista della Uil, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più di casi isolati, di 'ragazzate' di qualche frangia particolarmente irrequieta dell'MS -come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna- ma di metodo. E il linciaggio, la caccia all'uomo e alle streghe, israeliane e non, le grida al 'monatto', sono metodi che, ce ne doliamo con Capanna, echeggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono, soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente) fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall'equivoco. Il linciaggio e l'isteria collettiva non fanno parte del linguaggio politico ma della patologia medica». Quando rimisi piede in Statale i katanga mi circondarono, volevano farmi la festa. Mi salvai rifugiandomi sotto le ali protettrici di Capanna.
Nel 1973 scrissi per Linus una lunga inchiesta sui vari gruppi della sinistra extraparlamentare, che Oreste del Buono titolò 'L'extramappa', in cui fra le altre cose prendevo in giro Luca Cafiero leader dell'MS, braccio destro di Capanna. Qualche sera dopo mentre rincasavo arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della visiera: era Giorgio Livrini, un allegro ragazzo con cui sei anni prima avevo fatto il guardiaporte alla Statale, ma che si era appesantito nella stazza del picchiatore. Dissi: «Giorgio..». Vidi passare nei suoi occhi un lampo, che diceva: «Questo qui o lo ammazzo, perché mi ha riconosciuto, o lasciamo perdere». Finimmo tutti e cinque da Oreste a bere un bicchiere. A me è andata bene, altri sono finiti in sedia a rotelle.
Capanna dimentica con troppa disinvoltura che quelli dell'MS andavano in giro gridando «Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero», «Uccidere un fascista non è reato», spaccando vetrine e, all'occorrenza, anche crani.
Capanna dice di aver pianto a dirotto per Soriano Ceccanti reso paralitico da un proiettile della polizia, ma non sparse una lacrima per il diciassettenne Sergio Ramelli morto dopo un'atroce agonia in seguito a una bastonatura selvaggia. Non furono quelli dell'MS a sprangarlo, ma elementi di Avanguardia Operaia. Però il clima era quello.
Il Sessantotto, se non avesse avuto esiti tragici, sarebbe stato, per prendere un'espressione usata da Luigi Einaudi per la massoneria, «una cosa comica e camorristica». Erano quasi tutti figli della borghesia (l'MS aveva nelle sue file un solo operaio, un certo Lo Bue, che portava in giro come una 'madonna pellegrina') i cui leader (non Capanna che non ha fatto nessuna carriera) erano in perfetta malafede e già pensavano di inserirsi negli alti posti di comando di quella stessa borghesia che dicevano di voler combattere («Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi»). L'esempio classico, ma è solo uno dei tantissimi nomi che si potrebbero fare, è quello di Paolo Mieli che militava in Potere Operaio, PotOp per gli amici, ad altissimo tasso di concentrazione di figli dell'alta borghesia e dell'aristocrazia romane tanto da meritarsi il soprannome di 'molotov e champagne'.
No, Mario, non furono anni 'formidabili'. Furono anni infami. E un po' di autocritica dovresti farla anche tu.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014