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All'Assemblea delle Nazioni Unite il presidente Obama ha dichiarato che quella dell'Isis «non è una guerra di religione ma una guerra contro il Progresso». L'ha seguito il presidente iraniano Rohani parlando di «guerra contro la civiltà». Per una volta due leader mondiali sono riusciti a guardare un po' più in là del proprio naso. Quella dell'Isis è, per dirla con Evola, 'una rivolta contro il mondo moderno', che per il momento ha connotazioni religiose e islamiche ma che in futuro potrebbe assumerne anche altre.

Il movimento è iniziato con l'avvento al potere in Iran, nel 1980, dell'ayatollah Khomeini. Uomo di raffinata cultura e di sottile intelligenza non rifiutava la modernizzazione, ma voleva che, sul piano del costume, la struttura tradizionale del suo Paese rimanesse intatta. Naturalmente il suo successo fu dovuto anche a ragioni economiche. Nell'Iran dello Scià c'era una sottilissima striscia di borghesia ricchissima (il 2% della popolazione), il resto viveva nella miseria. Oggi, grazie alla rivoluzione khomeinista, l'Iran è diventato una potenza economica e tecnologica e anche questo spiega la singolare convergenza fra Rohani e Obama. La via indicata da Khomeini è stata poi seguita, in modo più rozzo, dal Mullah Omar e i suoi Talebani. Omar, ragazzo di campagna, accettava le conquiste della modernizzazione occidentale solo in alcuni settori essenziali (sanità, energia, trasporti), ma sognava, e sogna, il ritorno a un modo di vivere antichissimo, più semplice e più sobrio. Lo disse, senza mezzi termini, il suo luogotenente Wakil Muttawakil: «Noi vogliamo vivere la vita come la viveva il Profeta millequattrocento anni fa. Noi vogliamo ricreare i tempi del Profeta». Poi sono arrivati quelli dell'Isis il cui obbiettivo finale è evidente e dichiarato: distruggere l'Occidente, il suo modello di vita, le sue conquiste (anche se, sul piano mediatico, utilizzano proprio la tecnologia dell'Occidente per combatterlo). Se quella dell'Isis è una rivolta contro il mondo moderno il suo bacino d'utenza potrebbe essere vastissimo. Anche in Occidente ci sono sacche di disagio profonde ed estese, che più che economiche sono esistenziali. Noi tutti, ricchi e poveri, viviamo in una condizione permanente di stress, di angoscia oscillando fra nevrosi e depressione. Siamo bipolari. Come bipolare è la società che ci siamo organizzati. Dal punto di vista etico siamo apparentemente liberi di fare tutto, ma nel contempo lo Stato si introduce nelle pieghe più intime del nostro vivere, castrando anche gli istinti più elementari (in America dare un sacrosanto calcio a un gatto rompicoglioni costa un anno di galera). Gli americani, i canadesi, gli europei che, sia pur formalmente convertiti all'Islam, vanno ad ingrossare le file dell'Isis sono la punta di lancia di questo disagio esistenziale e, domani, potrebbero diventare un esercito.

Infine non so fino a quando le centinaia di migliaia di migranti che vengono a morire sulle nostre coste accetteranno di essere ridotti a cadaveri, galleggianti o meno, e non si rivolteranno. Abbiamo creato un mondo dove ci sono Paesi ricchissimi, al cui interno peraltro esistono sperequazioni, economiche e di status (il matrimonio di mister Clooney), incolmabili, insultanti, inaccettabili proprio nell'epoca in cui, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo proclamato l'uguaglianza (Stati Uniti, Cina, Russia ne sono l'esempio palmare), un mondo circondato da un mare di miseria che, prima o poi, per una ragione che oserei chiamare fisica, ci sommergerà. E di fronte a questa rivolta globale non ci sono droni e bombe che possono salvarci. Ce le butteremmo sui piedi.

Non credo che l'Isis sia la soluzione. Ma per rispondere a Obama e a tutti gli altri siamo davvero sicuri di rappresentare il Progresso e la Civiltà? Oppure, con l'ottuso e pericoloso ottimismo di Candide, nel tentativo di creare 'il migliore dei mondi possibili', abbiamo finito per partorirne uno dei più disumani?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2014

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Donato Bruno, uno dei possibili 'papabili', insieme a Luciano Violante, all'incarico di giudice della Corte Costituzionale per completarne la composizione, ma la cui candidatura, come quella del collega, con cui viaggiava in tandem, era stata bloccata per settimane perché in Parlamento, dopo varie tornate, nessuno dei due era riuscito a raggiungere il quorum, aveva dichiarato un paio di giorni fa: «Ritengo doveroso rimettere nelle mani del presidente Silvio Berlusconi la mia candidatura». Che colui che avrebbe potuto diventare un giudice del massimo organo giurisdizionale del nostro Stato, cui spettano decisioni delicatissime, quali giudicare «le controversie relative alla legittimità costituzionale sulle leggi e degli atti, aventi la forza di legge, dello Stato e delle Regioni, sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato e su quelli fra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni, sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica e i Ministri» (art.134 Cost.), abbia sentito il dovere di 'rimettersi', per la propria nomina, all' 'imprimatur' di un detenuto è una cosa che può avvenire solo in Italia. In qualsiasi altro Paese sarebbe stato considerato un 'joke', uno scherzo di cattivo gusto, un pesce d'aprile. Poi il detenuto Berlusconi, con un sms inviato ai suoi parlamentari, ha deciso di sostituire Bruno con Ignazio Francesco Caramazza. Ma la sostanza del discorso non cambia e il nostro articolo potrebbe fermarsi qui. Ce n'è quanto basta per capire a qual punto di sgangheratezza sono giunte le nostre Istituzioni, quelle Istituzioni nelle quali il Capo dello Stato ci esorta di continuo ad avere rispetto e fiducia. Sarebbe come – l'ex Cavaliere non ce ne voglia per l'accostamento- se uno Parlamento per legiferare in materia di mafia avesse bisogno del benestare del Capo di Cosa Nostra.

Ma l'anomalia Berlusconi fa parte di una sistematica e più grave anomalia: il potere arbitrario e illegittimo assunto nel nostro Paese dai partiti, cioè da quelle che, fino a prova contraria, sono delle associazioni private. Invece hanno debordato dappertutto. Sono i partiti che nominano i parlamentari e non i cittadini che li scelgono (qualche anno fa quando a Milano, la città di Mani Pulite, fu eletto Marcello Dell'Utri, ora in carcere in seguito a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, Giuliano Ferrara, in uno dei suoi non rari momenti di brutale sincerità, disse: «in quel collegio avremmo potuto far eleggere chiunque, anche un cavallo»- il sogno di Caligola che diventava realtà), nominano i presidenti di Regione, i consiglieri regionali, i sindaci, i consiglieri comunali e, come si è visto, anche alcuni membri dei massimi organi giurisdizionali dello Stato. I partiti hanno messo le mani sulle aziende di Stato e del parastato, sulla Rai... ovunque.

Ma restiamo alle elezioni dei membri cosiddetti 'laici' (cioè non togati) della Consulta e del Consiglio superiore della magistratura che sono state in ballo in queste settimane. Poiché uscivamo dalla dittatura fascista i nostri Padri costituenti vollero dare alla Magistratura la massima autonomia e indipendenza. Però perchè non diventasse un organo totalmente scollegato dal contesto sociale stabilirono che un terzo dei membri della Consulta e del Csm fossero eletti dal Parlamento scegliendogli fra personaggi illustri della società civile, docenti universitari in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di servizio (Csm) o vent'anni se destinati alla Corte Costituzionale. Ma i partiti hanno completamente distorto, a loro favore, questa saggia norma. In realtà non è il Parlamento a scegliere liberamente i cosiddetti membri 'laici', sono le segreterie dei partiti che, attraverso trattative oscure, vi mandano i loro uomini. E come mi disse alcuni anni fa, in una cena privata, alla presenza di testimoni, Gustavo Zagrebelsky, illustre giurista, entrato alla Consulta per nomina presidenziale e in seguito eletto presidente all'unanimità: «Non c'è questione in cui i membri 'laici' della Corte o del Csm decidano secondo 'scienza e coscienza', come ogni magistrato sempre dovrebbe fare, ma seguendo invece le direttive e gli interessi dei rispettivi partiti». Come abbiamo ben visto in queste settimane non c'è stata designazione per la Consulta o per il Csm che non riguardasse uomini di partito (fa eccezione proprio, e solo, Caramazza, un tecnico e di questo, paradossalmente, dobbiamo dar atto al detenuto Berlusconi).

E allora signor Presidente della Repubblica come possiamo noi cittadini avere fiducia in queste Istituzioni e in questo Stato che, occupato e depredato dai partiti in trent'anni di malversazioni e di grossolani errori, oggi ci chiede, in nome di un' 'unità nazionale' richiamata solo quando fa comodo, i sacrifici più duri?

Massimo Fini

Il Gazzettino, 3 ottobre 2014

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Psicanalisi del fan. Quando ero un giovane giornalista, ma già abbastanza affermato, mi meravigliavo che i miei maggiori, quelli che almeno conoscevo io, Giorgio Bocca, Oreste Del Buono, Indro Montanelli, si rifiutassero categoricamente di rispondere alle lettere personali dei lettori (non quelle che si scrivono ai giornali) e tantomeno di ricevere fan o presunti tali. Mi sembrava una manifestazione di chiusura, un segno di indifferenza e di grettezza, soprattutto nei confronti dei giovani. Negli anni Ottanta, al Giorno di Zucconi e Magnaschi, scrivevo al ritmo con cui lo fa oggi, al meglio, Marco Travaglio, e ricevevo circa una cinquantina di lettere alla settimana. Cercavo di rispondere a tutte, scartando solo quelle chiaramente deliranti. Ho passato quasi tutti i pomeriggi delle mie domeniche, facendo infuriare la mia fidanzata, in questa occupazione. Ma alla fine ho dovuto riconoscere che evevano ragione Bocca and company. Un lettore ti scrive qualcosa di interessante, di intelligente e tu rispondi, non con semplici formule di cortesia («La ringrazio», «mi fa piacere avere un lettore attento come lei») ma sulle sue argomentazioni sviluppandone altre. Lui ti riscrive e tu non rispondi più. E il lettore s'incazza. Lo prende come un segno di superbia. Non capisce che non puoi tenere una corrispondenza continuativa con tutti quelli che ti scrivono, anche cose profonde e da approfondire, perché altrimenti non solo non avresti più il tempo di lavorare ma nemmeno di vivere. Ed ecco che uno che ti ammirava prende a odiarti.

Peggio va con i fan o presunti tali, che desiderano incontrarti. I miei sono sempre stati soprattutto dei giovani, ragazzi e, in misura minore, ragazze. Per molti anni li ho ricevuti a casa mia. Negli ultimi tempi le ragazze solo al bar di sotto. Per precauzione. Basta che una dica che ci hai provato e, parola contro parola, sei fritto. Ma anche questo è uno sbaglio. Non c'è quasi fan, o presunto tale, che alla fine non tiri fuori da sotto i panni un suo scritto, un romanzo, un saggio, che considera ovviamente fondamentale. Poi cominciano a tempestarti di telefonate (io ho -avevo- anche la sbadataggine di dargli il mio numero di telefono): «L'ha letto? Che gliene pare?». Siccome tu non l'hai letto, perché non hai tempo, perché non sei un editor (del resto nemmeno gli editori -con l'eccezione di Cesare De Michelis, il patron della Marsilio, uno degli uomini più colti d'Italia insieme a Luciano Canfora- leggono più nulla, se non su raccomandazione degli amici degli amici) passano direttamente dall'adorazione all'insulto. Ma non è questo che mi colpisce di più. Questi ragazzi e ragazze per due ore parlano solo «di sè fra sè e sè» come «il finto pittore e il finto scrittore» della canzoncina di Giorgio Gaber, 'Trani a gogò'. Non hanno alcuna vera curiosità per te, per la tua persona, per la tua vita e nemmeno per la tua biblioteca (una volta è venuto un giovane di 24 anni che si è gettato, come un affamato, sui miei libri, discorrendo con cognizione di causa di Camus, di Sartre, di Baudelaire, di Rimbaud, di Lautrémont, di Céline, di Kafka, di Schopenhauer, naturalmente di Nietzsche, di Parmenide, di Democrito, di Eraclito, e ho capito che era un ragazzo totalmente fuori dal suo tempo, che avrebbe avuto una vita difficile). E allora perché vogliono incontrarti? Perché vogliono constatare di persona che, per quanto tu sia un nome più o meno famoso, sei un poveraccio come tutti gli altri, un poveraccio come loro, alleviando con ciò le proprie frustrazioni. Vogliono uccidere in qualche modo l'immagine che si son fatta di te. Io la chiamo 'la sindrome John Lennon'.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2014