In Afghanistan Isis ha scatenato una serie di attacchi, indiscriminati, contro la popolazione civile, com’è suo tragico costume, il più importante dei quali è quello di venerdì scorso a Kabul durante la cerimonia di commemorazione per i 25 anni dall’uccisione del leader sciita Abdul Ali Mazari, con la morte di 32 civili. Era prevedibile. Per due motivi. Dopo l’accordo talebano-americano i guerriglieri dello Stato Islamico temono che i Talebani, liberati dall’impegno di combattere le forze occupanti, li caccino dal Paese. Il secondo motivo è che vogliono dimostrare che senza le forze statunitensi i Talebani non sono in grado di garantire la sicurezza, davvero un bel regalo alla popolazione afgana. Sarà una lotta durissima. I Talebani hanno il vantaggio di conoscere il territorio, sono dei grandi combattenti che si sono affinati in diciannove anni di guerriglia, ma pur essendo islamici non hanno la vocazione al martirio, mentre per gli altri la morte è indifferente, sicuri di entrare nel Paradiso di Allah e delle Uri.
Certo, anche gli americani vai a capirli. Donald Trump aveva appena finito di dichiarare “eccellente” il colloquio telefonico col vicecapo della guerriglia afgana, il mullah Baradar, che col solito raid aereo gli Usa portavano un attacco definito “difensivo” contro una presunta operazione talebana. I Talebani hanno reagito furiosamente. In quella stessa notte hanno attaccato tre avamposti nella provincia di Kunduz uccidendo 12 soldati dell’esercito “regolare afgano”, 4 poliziotti e facendo 10 prigionieri. Le milizie talebane hanno attaccato la polizia anche nella provincia di Uruzgan uccidendo 6 agenti e ferendone altri sette.
Tuttavia il vero problema non è questo. Il vero problema è costituito da Ashraf Ghani e la sua corrotta cricca, come avevamo sottolineato nel nostro pezzo precedente e come ha scritto, con una autorevolezza maggiore della mia, Sergio Romano: “La nuova dirigenza di Kabul, cresciuta all’ombra degli americani, teme di perdere il potere, se non addirittura la vita” (Corriere della Sera, 8.3.2020). Ghani ha cominciato a mettersi di mezzo affermando che il previsto scambio di prigionieri (5.000 Talebani e 1.000 dell’esercito “regolare”) non può essere deciso dagli Stati Uniti, che così si sono accordati con i Talebani, perché l’Afghanistan è uno Stato sovrano. Ma via! Fino a ieri il governo afgano aveva ubbidito agli americani, fin nei dettagli, senza se e senza ma. I Talebani hanno vinto la guerra e non è pensabile che Ashraf Ghani e i suoi restino al loro posto. A guidare l’Afghanistan sarà necessariamente un capo talebano.
Chi teme per i diritti delle donne può, almeno in parte, tranquillizzarsi. Il portavoce ufficiale dei Talebani ha assicurato che sarà garantito il diritto allo studio delle donne e che saranno libere di scegliere il loro sposo. Per la verità durante i sei anni di governo del Mullah Omar in linea di principio non era proibito alle donne studiare. In un decreto del novembre 1996 si afferma: “Nel caso che sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali devono coprirsi concordemente alle norme della Sharia islamica”. Solo che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, volevano che gli edifici scolastici delle donne fossero a debita distanza da quelli dei maschi. Ma impegnati nella lotta contro Massud che ricacciato nel Panshir non si rassegnava a essere stato sconfitto dagli “studenti del Corano” quegli edifici non ebbero il tempo di costruirli. Avevano altre priorità, e si può capirli. Ora quegli edifici potranno essere costruiti, si spera con l’aiuto economico dei benpensanti internazionali e magari degli stessi americani, perché l’Afghanistan dopo quarant’anni di guerre (prima i sovietici, poi gli occidentali) interrotte solo dal breve periodo del governo del Mullah Omar, da povero che era è diventato poverissimo. Salvo che per gli sciacalli che si sono intascati gli aiuti, che pur ci sono stati, degli americani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2020
La cosa peggiore del Coronavirus, secondo me, è che ci rende untori li uni verso gli altri. L’altra sera doveva venire da me e cucinarmi una cena vegana (lei lo è, sai lo spasso) una mia cara amica. Mi ha telefonato dicendomi che era più prudente rimandare tutto. Non per lei. E’ nel pieno dei suoi quarant’anni, sana come un pesce, ma va avanti e indietro fra Verona e Milano, inoltre nella sua azienda, per fortuna non nel suo reparto, c’è una persona infettata. Del resto di influenza si è sempre morti. Secondo una ricerca molto seria pubblicata da International Journal of Infectious nel periodo dal 2013 al 2017 in Italia sono morte per influenza 68.000 persone. Naturalmente si tratta, in genere, di soggetti molto anziani o affetti da patologie pregresse. La vita si è allungata troppo. E’ una delle “trappole della ragione”. Nei Paesi occidentali siamo vecchi, l’Italia in particolare, credo sia al primo o al secondo posto, col Giappone, in questa classifica. Una “spuntatina” prima o poi dovevamo aspettarcela.
Io di anni ne ho 76, vengo da una disintossicazione da alcol che mi ha portato in clinica per una decina di giorni e sono ancora in convalescenza. E’ questo il motivo per cui sono stato lontano dal giornale un mese. Molti lettori, insospettiti per quest’assenza, mi hanno chiesto della mia salute. Queste mail da una parte mi facevano piacere, dall’altra incazzare, ma qui entreremmo in meandri da Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij che non è il caso di approfondire. Quindi, anche se in clinica mi hanno fatto una serie infinita di esami che incredibilmente sono risultati perfetti, sono un soggetto “a rischio” (termine che ho sempre detestato perché usato e abusato dal ‘terrorismo diagnostico’, è ovvio che siamo tutti “a rischio”, è vivere che ci fa morire).
Madre Natura non è né maligna né benigna (qualcuno ricorderà, forse, lo splendido film di John Boorman Un tranquillo weekend di paura). Non è né morale né immorale, è amorale. E’ Neutrale. Tutte le epidemie nascono dal fatto che c’è un’eccessiva popolazione o, per essere più precisi, un’eccessiva concentrazione di popolazione (mi piacerebbe che sul Corona si facesse un rilevamento su quanti si sono infettati in città e quanti in campagna, sono abbastanza sicuro che percentualmente questi ultimi sono molti di meno). Il costante inurbamento ha aumentato questa concentrazione, ci sono città con 25, 15, 10 milioni di abitanti. La Natura allora interviene per eliminare i più fragili e mantenere in vita i più robusti. Questa è la dura sentenza. Anche se non credo proprio che il Coronavirus abbia questa forza falcidiante, è solo un’influenza un po’ più forte delle consuete, non è la peste.
Una causa del panico che si è creato è anche che nella società del benessere e del “diritto alla felicità” noi non sappiamo più accettare la morte, quella biologica intendo, che è inevitabile, da quella violenta si può sempre pensare di scapolarla. Non la si nomina nemmeno là dove sembrerebbe ineludibile (basta leggere i necrologi). Nel mondo contadino si sapeva attraverso il ciclo seme-pianta-seme che la morte non è solo la fine inevitabile della vita, ma ne è la precondizione, senza la morte non ci sarebbe la vita. Inoltre in quel mondo ognuno si sentiva parte di una comunità e della natura e quindi la sua morte era meno individuale. Noi viviamo circondati da oggetti, che non si riproducono ma casomai si sostituiscono, ai quali ci sentiamo sinistramente simili e quindi percepiamo la nostra morte come un evento del tutto individuale, radicale, assoluto, definitivo. E quindi inaccettabile.
Non tutto il male vien per nuocere. Credo che questa epidemia ci servirà per riflettere sui nostri stili di vita e sullo stesso modello di sviluppo o quantomeno a non farci incazzare o deprimere per i piccoli intralci che costellano la nostra vita quotidiana.
Quanto a me dopo aver fatto negli ultimi anni una vita rutilante (viaggi, conferenze, cene, aperitivi, fidanzate una dietro l’altra) non corrispondente alla mia età, ho capito che anche qui è ora di darsi una calmata. Allo stato mi accontento d’esser vivo. E mi basta.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2020
Di Coronavirus, di epidemie, di pandemie, di peste, di Manzoni, di Boccaccio si è detto tutto e forse anche troppo (devastanti nel creare il panico sono state le Televisioni e alcune misure molto impressive del governo come la cancellazione delle partite dell’Inter, a Milano il calcio è più importante del Duomo, inoltre il Campionato fu sospeso, per due anni, solo durante la Seconda guerra mondiale).
Tratterò quindi un argomento che non c’entra col Coronavirus ma in un certo senso gli si affianca perché, come ha scritto Travaglio, non tutto il male vien per nuocere.
Un paio di settimane fa mille scienziati, fisici, matematici, sociologi, climatologi, hanno firmato su Le Monde un appello sulla crisi ecologica, anzi sulla catastrofe ecologica, che ritengono più vicina di quanto non si creda: “In queste condizioni la realtà supera le peggiori previsioni e un riscaldamento globale superiore ai cinque gradi non può più essere escluso, il che significherebbe la fine della Francia come territorio abitabile”. Son cose, più o meno, note. Più interessanti sono le ragioni in cui gli scienziati individuano le cause del riscaldamento della terra e più in generale dell’inquinamento globale: “Un consumismo sfrenato e un liberalismo economico ingiusto e predatorio”. E aggiungono di non aver nessuna fiducia in un progresso tecnologico che risolva la questione (infatti la Tecnologia come risolve un problema ne apre altri dieci più complessi, come mi disse una volta il filosofo della Scienza Paolo Rossi). La sola speranza, sostengono questi scienziati, è nell’avvento di un ‘uomo nuovo’ che “non si lasci più affascinare da balocchi inutili come l’auto autonoma o la nuova rete cellulare”. E’ la “decrescita felice” che gli scienziati francesi, sciovinisti come sempre, attribuiscono a un’intuizione di Serge Latouche all’inizio degli anni Duemila. Per la verità son le cose che io vado sostenendo nei miei libri e nei miei scritti da trentacinque anni dai tempi de La Ragione aveva Torto? che è del 1985. In Italia sulla linea della decrescita felice, in realtà più in armonia con le tesi degli scienziati francesi, perché io non credo affatto che la decrescita sarà ‘felice’, ma avverrà quasi di colpo con un conseguente bagno di sangue e lotte feroci fra città e campagna, c’è anche Maurizio Pallante. Negli Stati Uniti ci sono due correnti di pensiero, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, che parlano, detto in estrema sintesi, di una decrescita “limitata, graduale e ragionata che passa per il recupero della terra e il ridimensionamento inevitabile dell’apparato industriale e finanziario” (per dare a ciascuno il suo il primo a porre la questione, sia pur in termini non così chiari, fu agli inizi degli anni Sessanta André Gorz, cofondatore con Jean Daniel de Le Nouvel Observateur).
I firmatari di Le Monde affermano che non ci si può aspettare nulla dalla politica. E si capisce il perché, l’’uomo nuovo’ da loro preconizzato significherebbe un capovolgimento radicale dell’attuale modello di sviluppo. Infatti noi oggi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre, per sostenere l’apparato produttivo. Se l’appello degli scienziati francesi fosse accolto e tutti smettessimo di consumare il ‘superfluo’ l’intero sistema collasserebbe su se stesso (anche se poi ci sarebbe da intendersi su che cosa si ritiene realmente ‘necessario’, per me magari sono i libri, per il mio vicino è un’altra cosa, è il quesito che mi pose tanti anni fa il grande storico italiano Carlo Maria Cipolla).
Io temo che non se ne farà nulla. Ci siamo messi la corda al collo da soli avendo avuto, a partire dall’Illuminismo, troppa fiducia in uno Sviluppo materiale e tecnologico che ha poco a che fare col Progresso, come scrisse, inascoltato come siamo stati tutti inascoltati, anche Joseph Ratzinger quando era cardinale: “Lo sviluppo non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2020