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Ripubblico un mio pezzo su L’Indipendente del 17 dicembre 1992, intitolato “Vi racconto il lato buono di Bettino”, quando il leader socialista, travolto dalle ineccepibili inchieste dei magistrati di Mani Pulite, era caduto definitivamente nel fango. Non mi è mai piaciuto maramaldeggiare sugli sconfitti, non corro in soccorso del vincitore, abitudine molto italiana e forse umana, ma semmai dei perdenti. Nonostante negli anni del potere, anzi dello strapotere, di Craxi, che si estendeva come sempre anche ai media, io avessi avuto, pur in un’incalcolabile diversità del rapporto di forze, violentissime polemiche col leader socialista che ebbe la graziosità di appiopparmi, addirittura da New York, l’appellativo di “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili”, non mi sentii di partecipare al massacro mediatico, in cui si distingueva proprio il direttore de L’Indipendente Vittorio Feltri, sulla balena ferita a morte  che vedeva fra i primi fiocinatori proprio i suoi compagni di partito, a cominciare dal “delfino” Claudio Martelli (“restituiremo l’onore al Partito socialista”). Da qui questo pezzo che di fronte ai tratti “deformati, sfigurati, sconciati, malati” di quel Craxi voleva ricordare che c’era stato anche un altro Craxi. Allora Bettino, secondo una prassi storica che riguarda le classi dirigenti italiane, non era ancora scappato ad Hammamet sfuggendo alle proprie responsabilità. Ma questo venne dopo la pubblicazione del mio articolo e io non lo potevo sapere e nemmeno immaginare. Ma allo stesso modo, in un gioco di controspecchi, non posso nemmeno tollerare oggi la beatificazione di chi ha rubato, a suo uso e consumo, anche del tutto personale, i soldi ai cittadini, ai lavoratori italiani, a quegli “umiliati e offesi” di cui proprio i socialisti avrebbero dovuto essere i primi difensori.

Ho incontrato per la prima volta Bettino Craxi alla fine del 1973. Lui era di ritorno dal drammatico Cile di allora: da pochi mesi il socialista Salvador Allende, circondato dai carri armati del generale Pinochet nel palazzo presidenziale, si era suicidato e negli occhi e nella mente di tutti c’erano ancora le terribili immagini dello stadio di Santiago riempito di oppositori dove a un pianista erano state mozzate le mani. Craxi, che allora era solo il capo di una microcorrente del partito socialista, quella autonomista, era andato in Cile con una delegazione italiana. E io dovevo intervistarlo, per L’Europeo, su quell’esperienza.

Nonostante avessi lavorato per due anni, il ’71 e il ’72, all’Avanti! di Milano, diretto allora dal già fedelissimo Ugo Intini, non avevo mai incontrato Craxi, che al giornale non si faceva mai vedere fidandosi ciecamente di Ugo, lo avevo intravisto una volta in un locale di Brera, L’Angolo, a un tavolo con Natali, Gangi, Tognoli e Pini. Mi colpì quando me lo trovai davanti per quell’intervista, l’altezza dell’uomo enfatizzata da un paio di stretti jeans. Allora Bettino non aveva ancora l’aspetto pesante, quasi caricaturale, che avrebbe assunto in seguito, soprattutto negli ultimi anni, complice anche una grave forma di diabete. Era robusto, ma sufficientemente asciutto. Da dietro le lenti degli occhiali mi guardavano due occhi sospettosi, ma molto belli, vellutati, che son poi gli occhi, con l’aggiunta di un leggerissimo strabismo di Venere, della figlia Stefania che è quella che in famiglia più gli assomiglia, fisicamente e per carattere. Timido lui, timido io, giovane giornalista quasi alle prime armi, ci scrutammo a lungo, imbarazzati. Ne venne fuori un’intervista, credo, molto bella, non per merito mio ma perché Craxi parlava con molto pathos e partecipazione di ciò che aveva visto in Cile, di quella Santiago feroce, divisa, incarognita dove, mi disse, “tutti erano pallidi, pallidi di paura e di odio”.

Devo dire che, dal punto di vista personale, non ho ricordi spiacevoli di Bettino Craxi. Tutt’altro. Pur nella assoluta casualità e rarefazione dei nostri rapporti mi ha dimostrato a lungo, anche quando io ero diventato estremamente critico nei confronti suoi e del Partito socialista, una certa simpatia con una sfumatura, oserei dire, di affetto.

Nel 1980 mi trovai a una festa di Stefania Craxi che compiva i fatidici diciotto anni. A Stefania io che ero in totale crisi con il mio matrimonio, facevo un po’ di filo e lei, da quell’amabile civettina che era allora, non mi diceva né di no né di sì. Di Stefania mi piaceva il miscuglio di orgoglio, di testardaggine e di affettuosità e tenerezza che è poi la stessa pasta, anche se oggi pare incredibile affermarlo, di cui è fatto Bettino Craxi. L’avevo accompagnata al cinema a vedere Excalibur e lei, nonostante l’assoluta improbabilità di quel polpettone, aveva trovato modo di farsi due o tre piantini. Ma a quella festa, a parte Stefania, non conoscevo nessuno e me ne stavo, solo, in un angolo da cui però potevo osservare la tavolata centrale dove Bettino troneggiava fra i suoi amici. Allora erano amici veri, amici degli anni difficili, e non la grottesca corte di “nani e ballerine”, come l’ha definita Rino Formica, di rosei architetti dalla faccia di culo, alla Portoghesi, di favorite di regime, di cantanti alla moda, di stilisti e di profittatori di tutte le risme, come sarebbe stato poi. A un certo punto Craxi si alzò dalla tavola e, fra lo stupore generale, e soprattutto mio, venne a sedersi accanto a me. Parlammo subito del partito e di politica. Io, che ero di umore come sempre melanconico, gli dissi che vedevo molta corruzione in giro, nella classe politica. Lui si dichiarò d’accordo, ma aggiunse subito: “Noi però non centriamo”. “No, la cosa riguarda anche noi, soprattutto noi” replicai. Ma lui da quell’orecchio non ci voleva sentire. Rimanemmo in silenzio. Io, per rompere in qualche modo l’imbarazzo, gli dissi: “Ho conosciuto tua figlia. E’ molto simpatica”. Lui ebbe un riflesso da padre geloso e possessivo, qual è, e troncò subito il discorso. Rimanemmo seduti a lungo, uno a fianco all’altro, senza sapere cosa dirci. Finché Bettino si alzò e raggiunse i suoi amici.

Io uscii, poco dopo, dal Partito socialista per entrare nella terra, allora di nessuno, dei contestatori della partitocrazia. Incrociai Craxi qualche volta, a Roma, al ristorante L’Augustea o all’hotel Raphael che aveva eletto a sua residenza nella capitale anche se non abbandonò mai il punto fermo della casa di Milano, in via Foppa 5, dove vivevano la moglie Anna e i figli Bobo e Stefania. Rincontrai Craxi nel 1983 (mi pare fosse l’83) al Circolo della Stampa di Milano dove i socialisti commemoravano Walter Tobagi. A quell’epoca l’Avanti! conduceva una campagna forsennata contro i giudici milanesi che si erano occupati dell’omicidio Tobagi. Craxi infatti si era messo in testa che i magistrati non avessero voluto andare fino in fondo alla questione, che non avessero ricercato i mandanti, che lui si era convinto andassero individuati fra i giornalisti filocomunisti del Corriere della Sera. Io, sul Giorno, avevo contestato duramente questa campagna, sia perché mi pareva priva di qualsiasi fondamento logico (in regime di legislazione premiale gli assassini di Tobagi, Barbone e Morandini, avevano tutto l’interesse a denunciare i mandanti, se ci fossero stati), sia perché conoscevo di persona l’intera vicenda essendo stato vicinissimo a Tobagi negli ultimi anni e mesi della sua vita. Conoscevo l’odio che alcuni giornalisti del Corriere, i Fiengo, i Pantucci, i Morganti, marxisti-leninisti d’accatto, portavano al socialista e riformista Tobagi (lo conoscevo molto bene perché anch’io, sia pur in misura minore,  ne ero stato oggetto), ma sapevo anche che erano troppo miserabili e vili per solo concepire un delitto. Ma che i socialisti non avessero nessuna carta in mano nella loro campagna contro i giudici milanesi me lo aveva confermato, del tutto involontariamente, Ugo Intini che avevo incontrato casualmente, qualche tempo prima, all’hotel Plaza di Roma. Vedendomi Ugo, che dirigeva l’Avanti! e che obbediva, come sempre, ai diktat di Bettino pur non essendone intimamente convinto, mi aveva chiesto: “Che cosa ne pensi della nostra campagna?”. “Penso che state prendendo un granchio colossale” risposi. Chiesi comunque a Intini quali fossero le basi delle loro accuse. Ne ebbi una risposta molto fumosa. Alla fine di quella cerimonia al Circolo della Stampa, mentre la folla defluiva e si imbottigliava sulla porta, mi trovai, insieme a mio figlio Matteo, che aveva allora cinque anni, proprio accanto a Craxi. Che mi disse subito: “Sbagli a scrivere quello che scrivi”. “No, sei tu che sbagli” risposi. Ci fermammo a parlare nel cortile d’ingresso. La pletora dei cortigiani se ne stava, rispettosa, a una decina di metri di distanza. Bettino mi spiegò le sue ragioni. Che non c’erano: si basavano su una vaghissima confidenza che gli aveva fatto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Intanto Matteo, che ci girava intorno, era riuscito a colpire Craxi in piena fronte con un aereoplanino di carta che gli avevo costruito. Ma Bettino non si scompose e fu carino e affettuoso col bambino, togliendomi dall’imbarazzo. Quando lasciai Craxi e passai davanti ai cortigiani successe una cosa curiosa. Socialisti che non mi salutavano da anni si fecero festosi intorno a me: il fatto che Craxi si fosse fermato a parlarmi gli aveva fatto pensare, nella loro testa di servi, che fossi tornato nelle grazie del Capo. Da allora non ho più incontrato Craxi se non a San Siro, in tribuna d’onore, durante qualche Milan-Torino. Nonostante Bettino mi avesse già definito “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili£, ha sempre trovato modo di fare qualche battuta affettuosa e scherzosa con Matteo che, plagiato da me, è tifoso del Toro.

La notoria aggressività di Craxi è un riflesso della sua chiusa e sospettosa timidezza. Può essere un uomo estremamente sgradevole, ma anche, perlomeno con gli amici, molto generoso. Generoso è stato sicuramente il suo rapporto con Claudio Martelli. Per Bettino è stata un’amicizia vera, profonda, gratuita, per un ragazzo di cui intuiva il talento. Craxi era troppo intelligente per non sapere che, a un certo punto, Martelli l’avrebbe pugnalato alla schiena. Il tradimento, oltre che nei geni di Martelli, era una conseguenza inevitabile, oggettiva del loro rapporto e delle loro età. Perché quando Martelli aveva trent’anni e Craxi quaranta il rapporto padre-figlio era possibile, ma tutti sapevano che, col tempo, la differenza di età fra i due si sarebbe accorciata e che per il Martelli cinquantenne sarebbe stato necessario uccidere un padre diventato ormai un ingombrante quasi-coetaneo. Eppure Bettino ha continuato per anni a proteggere e coccolare Claudio, consentendogli di fare una carriera al riparo del fango di cui lui, nel frattempo, abbondantemente si imbrattava, pur conoscendo benissimo quale sarebbe stata la fine della storia. Rapporto di potere, si dirà, in fondo Martelli, con la sua laurea in filosofia, serviva a Craxi di cui tutto si può dire tranne che sia un uomo colto. Ma non si tratta solo di questo. A Milano vive Rino Vaghetti, pittore senza qualità ma poeta della vita. Vaghetti era stato cronista dell’Avanti! sul finire degli anni Settanta, ma dovette lasciare il lavoro per problemi nervosi. Per anni Craxi non solo ha finanziato sotterraneamente il Vaghetti ma, nonostante fosse diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, e l’altro un barbone, gli ha dedicato parte del suo tempo, senza respingerlo, mai, anche quando Vaghetti era impresentabile.

L’errore fatale di Craxi è stato quello di circondarsi, da un certo momento in poi, solo di yesman. Di non voler comprendere ciò che sua figlia Stefania, logorandosi d’angoscia, capiva benissimo: e cioè che l’ossequio di cui era circondato era, nella stragrande maggioranza dei casi, falso, ipocrita, opportunista. Sempre più omaggiato, e perciò isolato, Craxi si è avvoltolato nella pericolosa convinzione, tipica di ogni dittatore, di aver sempre e comunque ragione, ha perso man mano il contatto con la realtà e, con esso, quell’intuito politico che era stato per anni la sua forza. Da qui gli errori a ripetizione, politici e psicologici, che hanno caratterizzato gli ultimi, atroci, mesi dell’agonia craxiana.

Adesso che sulla balena ferita a morte e che sanguina da tutte le parti infieriscono, improvvisi fiocinatori, anche i protetti di un tempo, non solo i Martelli ma anche uomini senza qualità come i Di Donato e i La Ganga che a Craxi devono tutto, noi, che, socialisti libertari da sempre, a Craxi non dobbiamo nulla se non un’illusione finita nel peggiore dei modi, nel fango e nell’ignominia, non ce la sentiamo di partecipare allo scempio. Abbiamo sempre aborrito i piazzali Loreto. Sappiamo che è difficile individuare nei tratti deformati, sfigurati, sconciati, malati del Craxi di oggi i lineamenti del Craxi di un tempo, quello che tornava, vibrante di indignazione, dal Cile. Ma è a quel Craxi, che da qualche parte deve pur vivere ancora, che noi oggi diciamo, nonostante tutto, con simpatia e nostalgia: coraggio, Bettino.

Massimo Fini

L’Indipendente, 17 dicembre 1992

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Per la nostra generazione, che segue da vicino la sua, Giampaolo Pansa, insieme ad Andrea Barbato (“i due cavalli di razza”) è stato un maestro. Di professionalità innanzitutto. Un esempio per la fatica e la diligenza che metteva nel suo lavoro e l’impegno, così difficile quando non si è dei talenti naturali come Montanelli, a dare ai suoi articoli una adeguata qualità di scrittura. Fra i tanti mi ricordo un ritratto, splendido, dell’armatore Costa che iniziava così: “C’è un Dio che invecchia in cima a un grattacielo”.

Se un qualche fatto era avvenuto, poniamo, alle sette del mattino, il giorno dopo per raccontarlo lui si recava alla stessa ora sul posto per vedere come batteva il sole su una certa casa e la luce in cui si era svolto. Era un maniaco del dettaglio come deve essere ogni vero professionista. Da buon piemontese era ligio al servizio, un soldatino di piombo, un doverista. Mi sento di dire che al mestiere, soprattutto nei suoi anni migliori, ha sacrificato tutto o quasi. Una volta mi raccontò che quando suo figlio divenne grande chiedeva a sua moglie “ma come era Alessandro da piccolo?”. In pratica non lo aveva visto mai travolto dalle esigenze del mestiere, da quei servizi scritti uno dopo l’altro seguendo l’inesorabile  martellamento della cronaca. Del resto fra di noi si dice che “il giornalista nasce orfano e muore vedovo” (ma parliamo naturalmente di un altro giornalismo, di un giornalismo di altri tempi, che ha poco o nulla a che fare con quello pressapochista di oggi). Il suo mondo, almeno nella prima parte della carriera, appartiene alla cronaca, alla grande cronaca. Non era un opinionista, era un giornalista. E infatti il Corriere della Sera, quando esistevano ancora certe regole, con suo grande disappunto non gli ha mai concesso il “fondo”, l’editoriale di prima pagina.

La sua prosa era nitida, limpida, direi quasi semplice, lontana dall’espressionismo di un altro notevole giornalista che per età lo segue da vicino, Paolo Guzzanti, ma altrettanto efficace.

Poiché gli mancava qualsiasi esperienza internazionale –ed è questo uno dei suoi grandi limiti- finì per dedicarsi invece che ai fatti e alle tragedie della vita al mondo della politica. E’ questa la fase, a mio avviso, meno convincente della sua carriera. Ha creduto di nobilitare il modestissimo materiale con cui aveva a che fare con i soprannomi e le maiuscole: “la Balena Bianca, l’Elefante Rosso, il Bisciobalena”. Insomma si era chiuso in un mondo dall’orizzonte ristrettissimo e a furia di fissare per anni il mostro ne aveva preso il linguaggio, i tic, l’opportunismo. Detestava Giorgio Bocca intuendo probabilmente che era di un’altra categoria e quando morì non fu né elegante né generoso affermando: “Non ci mancherà”.

Il grande successo lo ottenne con la pubblicazione de Il sangue dei vinti che dava conto delle violenze ad opera dei vincitori comunisti sui fascisti o presunti tali (le nefandezze del famoso “triangolo rosso”). Un atto di coraggio perché Pansa veniva comunque dal mondo di sinistra anche se non era mai stato un ottuso estremista (mi ricordo che quando seguivamo le “piste nere”, in una sorta di pool che si era specializzato in quest’ambito, cercava di tamponarne gli eccessi antifascisti). Ma anche questo suo ripensamento sulla Resistenza ha dei limiti. Pansa ha preso a piene mani dalla documentatissima e ineccepibile  Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò. Ma siccome Pisanò era un fascista, o direi piuttosto, avendolo conosciuto molto bene, un ‘mussoliniano’ che a questa sua passione romantica ha sacrificato quella che poteva essere una grande carriera, nessuno, Pansa compreso, a quel tempo gli diede alcun credito. Inoltre, com’è ovvio, era molto più facile scrivere quelle cose in un’Italia che si era spostata a destra, che in un’Italia in cui dominava l’egemonia di sinistra, cioè nei tempi in cui le scriveva Pisanò.

A Pansa è sempre mancato qualcosa. Per fare un paragone calcistico Lukaku, il centravanti dell’Inter, non diverrà mai Robert Lewandowski. A Gianpaolo Pansa è mancato quell’x factor per diventare Montanelli o Bocca. Però ci mancherà. E’ un’altra parte della nostra vita che se ne va.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2020

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Ha fatto scalpore nei giorni scorsi la notizia che Sharon Stone, 60 anni, si sia rivolta alla piattaforma Bumble, un sito d’incontri, per trovare un compagno. La cosa è parsa talmente incredibile che la Bumble ha chiuso il profilo dell’attrice ritenendo la sua richiesta un falso. Invece era vera. Sulla scia di questa notizia è saltato fuori che altri vip, come Ben Affleck, Lily Allen, Cara Delevingne, Amy Schumer, Katy Perry, Zac Efron, si sono rivolti a questi siti d’incontri che sono una sorta di declinazione moderna dei vecchi “annunci matrimoniali”. Mark Gaisford, importante manager inglese di 50 anni, ha confessato di non avere un solo amico. E questi sono tutti soggetti giovani e nel pieno dell’età, famosi, che non dovrebbero avere difficoltà a incontrare chi vogliono. Il fatto è che quello occidentale è un mondo di solitudini. E se la solitudine colpisce giovani e famosi, si può facilmente immaginare quale sia la situazione dei vecchi. Non è così in mondi molto più disastrati del nostro. In Africa il vecchio vive circondato da figli e nipoti (in Europa solo il 5,3 % si trova in questa situazione), resta il capo della famiglia, conserva un ruolo e la sua vita un senso. Da noi accade esattamente l’opposto. Terribile, veramente terribile, è la situazione del vecchio nelle società sviluppate. Il micidiale istituto della pensione, una crudeltà che solo la modernità poteva inventarsi, una volta raggiuntala ti taglia fuori. Da un giorno all’altro perdi il posto, per quanto modesto, che avevi avuto nella vita sociale. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo (qualcuno ricorderà, forse, il film Fantozzi va in pensione). Scriveva lo storico Carlo Maria Cipolla nel 1980 in Storia economica dell’Europa preindustriale: “Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza. L’uomo industriale (per non parlare di quello che vive nell’attuale mondo digitale, ndr) è sottoposto ad un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2020