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Donald Trump ha sbandierato con toni trionfalistici l’accordo raggiunto con i Talebani a Doha. E, dal suo punto di vista, non ha tutti i torti: da buon imprenditore riteneva inutile spendere 40 miliardi l’anno per una guerra che tutti dallo stesso Pentagono ai suoi consiglieri militari agli opinionisti americani consideravano persa (“la guerra che non si può vincere”). Inoltre i morti Usa, nonostante l’uso pressoché esclusivo di aviazione e droni,  cominciavano a essere troppi e un certo malcontento serpeggiava anche nella popolazione.

Ma i veri vincitori di questo accordo sono i Talebani che hanno ottenuto tutto ciò che volevano. Il ritiro sia pur graduale (entro 14 mesi) di tutte le truppe occidentali, basi comprese. E questo lo volevano ormai non solo i Talebani, ma anche i non Talebani e gli anti Talebani, stufi degli occupanti e di una guerra che si trascinava inutilmente da 19 anni. Tanto più ingiusta e pretestuosa perché è stato chiarito al di là di ogni dubbio che “la dirigenza talebana dell’epoca (cioè il Mullah Omar e i suoi) era ignara degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono”. Inoltre, mentre l’11 settembre tutte le folle arabe scendevano in piazza festanti, il governo talebano-afgano mandava agli Stati Uniti un telegramma di condoglianze che suonava così:  «Nel nome di Allah, della giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia». Invitava anche l’America a essere prudente nelle sue reazioni. Ma gli Stati Uniti furono tutt’altro che prudenti perché, come riveleranno poi il Washington Post e il New York Times, era da mesi che stavano preparando un attacco all’Afghanistan.

La condizione posta dagli americani agli eredi del Mullah Omar perché i Talebani si impegnino a sbarazzare l’Afghanistan dai terroristi internazionali, in particolare dell’Isis, per i Talebani non è una condizione è un fatto già in essere. E’ da quando Isis è penetrato in Afghanistan che lo combattono. Decisiva, per chi abbia orecchie per intendere, è ‘la lettera aperta’ del 16 giugno 2015 che il Mullah Omar, in quello che fu il suo ultimo atto, inviò ad Al Baghdadi (e che solo noi del Fatto, almeno in Italia, abbiamo pubblicato) intimandogli di non cercare di penetrare in Afghanistan perché la guerra di indipendenza afgana era un fatto interno e non aveva nulla a che vedere con i deliri geopolitici del Califfo. E aggiungeva: “Tu stai dividendo pericolosamente il mondo musulmano”. Del resto negli ultimi anni era molto facile distinguere gli attentati talebani da quelli attribuibili all’Isis. I Talebani colpivano esclusivamente obiettivi militari e politici anche se inevitabilmente c’erano degli “effetti collaterali” perché non avevano alcun  interesse a colpire i civili inimicandosi la popolazione il cui sostegno rendeva possibile la loro resistenza. I kamikaze dell’Isis si facevano saltare in aria ovunque, in mezzo alla popolazione, preferibilmente nelle moschee sciite. Stretti fra gli occupanti occidentali e i guerriglieri di Al Baghdadi i Talebani, pur avendo l’egemonia nella vastissima area rurale del Paese, avevano dovuto cedere molte posizioni permettendo agli uomini del Califfo di arrivare fino a Kabul.  Se non devono più combattere anche gli occidentali per i Talebani sarà ora molto più facile cacciare l’Isis, perché conoscono il territorio che è il loro territorio (Putin questo l’aveva capito prima di tutti riconoscendo ai Talebani lo status di “gruppo politico non terrorista”, temendo che Isis penetrasse nei Paesi centroasiatici e si avvicinasse pericolosamente a Mosca).

Adesso il vero problema è quello del governo di Ashfar Ghani, escluso dalle trattative perché i Talebani lo hanno sempre considerato un fantoccio Usa, e della corrottissima cerchia governativa (Amministrazione, polizia, e anche magistratura, tanto che da tempo gli afgani preferivano rivolgersi alla giustizia talebana, più spiccia ma meno corrotta). E’ il problema dei “collaborazionisti”, molto simile a quello che si pose in Italia con i fascisti dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale. Se ci fosse ancora il Mullah Omar, con la sua sagacia, sarei ottimista. Il giorno dopo aver preso Kabul concesse un’amnistia generale e la rispettò per tutti i sei anni del suo governo. Oggi, con i nuovi talebani, incarogniti da 19 anni di una guerra sanguinosa, non so.

Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2020

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Nella mia ormai lunga esperienza, di cittadino e di giornalista, diciamo nell’arco, all’incirca, degli ultimi trent’anni, solo in un altro caso mi è capitato di assistere a un fuoco concentrico come quello a cui oggi è sottoposto il Movimento Cinque Stelle, per cui basta che al suo interno si scompigli anche un solo pelo per darlo per morto e finito.
Il caso cui mi riferisco è quello della prima Lega di Umberto Bossi. L’Umberto, come allora familiarmente lo si chiamava, e che io considero l’unico, vero, uomo politico italiano dell’ultimo quarto di secolo, aveva in testa un’idea che allora parve dirompente e blasfema ma che se la guardiamo con gli occhi di oggi (“la Storia è il passato visto con gli occhi del presente” diceva Benedetto Croce) è diventata molto attuale. Secondo quella Lega l’Italia andava divisa, perlomeno da un punto di vista amministrativo, ma anche legislativo, in tre parti, Nord, Centro, Sud, perché rappresentavano tre diverse realtà, economiche, sociali, culturali e anche climatiche. L’idea di Bossi andava poi oltre i confini nazionali. Pensando a un’Europa politicamente unita il Senatùr riteneva che i punti di riferimento periferici di quest’Europa non sarebbero stati più gli Stati nazionali, ma aree coese dal punto di vista sociale, economico, culturale che avrebbero oltrepassato i confini tradizionali. L’unità politica europea non si è poi, almeno per ora, realizzata, ma l’idea bossiana rimane valida e spendibile per il futuro. Di questo vasto programma, che aveva alle sue spalle anche un giurista del peso di Gianfranco Miglio, l’Italia partitocratica di allora non capì il valore, o forse lo capì fin troppo bene (è ovvio che in un’Europa unita i partiti nazionali avrebbero perso, come alla fine finiranno per perdere, il loro peso). La Lega bossiana fu quindi attaccata da ogni parte (“le tre repubblichette”), da tutti i tradizionali partiti nazionali che avrebbero perso il loro potere e dai poteri sovranazionali, finanziari ed economici, che in un’Europa unita e confederata, alla maniera degli Stati Uniti d’America, vedevano un pericoloso concorrente. Umberto Bossi sovracaricato di reati di opinione (tipo “vilipendio alla bandiera” e simili) finì per impaurirsi e soccombere alleandosi con quello che in Italia era il suo nemico naturale, alias Silvio Berlusconi, globalizzatore, filoamericano e quindi assolutamente all’opposto di un ‘localismo’ intelligente. Io che allora avevo ottimi rapporti con l’Umberto, uomo del popolo e che del popolo capiva le esigenze, avevo un bel dirgli: “Guarda che i tuoi sono reati di opinione che nulla hanno a che vedere con quelli di Berlusconi. Fate una battaglia, sacrosanta, contro i reati di opinione, eredità del Codice fascista di Alfredo Rocco”. E per la verità Umberto Bossi questo lo aveva ben capito. Nel discorso del 21 dicembre 1994 in cui fece cadere il governo Berlusconi, un discorso perfetto anche nello stile, alla faccia di chi lo considerava, come Di Pietro, un personaggio rozzo, pose le premesse per un’Italia diversa e nuova. Ma non ci fu niente da fare. Le forze, nazionali e internazionali, che si opponevano a questo cambiamento ebbero la meglio. Complice anche una malattia, che solo chi è animato da una vera passione può essere colpito, il mio caro e vecchio amico Umberto perse la testa, si rialleò con Berlusconi e questa fu la fine sua e del suo Movimento.
Perché ho fatto questa lunga premessa che sembra non c’entrare niente con l’Italia di oggi? Perché i Cinque Stelle, che hanno un programma molto meno ambizioso di quello della Lega delle origini, ne subiscono la stessa sorte. Qual è il programma dei Cinque Stelle? Nella sostanza è un ripristino dell’onestà (come loro la chiamano ma io avrei preferito il termine “legalità”, perché l’onestà è qualcosa di più profondo che può appartenere anche a un malavitoso, è una coerenza etica) e un tentativo di ridare un ragionevole equilibrio sociale e anche meritocratico in un Paese dove, come in tutto l’Occidente, le disuguaglianze hanno assunto livelli insopportabili che umiliano quella che, senza rendersi conto dell’implicito disprezzo che c’è in questa denominazione, viene chiamata “gente comune”. Insomma il programma dei Cinque Stelle, senza assumere quella visionaria di Umberto Bossi, è assolutamente basico. Ma è sufficiente per scatenare contro “los grillinos”, come li chiamano in Spagna, tutte le forze pro sistema, non solo i partiti tradizionali che vedono messo in pericolo il loro strapotere, ma anche le lobby della finanza internazionale. Molti nemici molto onore, si dice. Ma don Chisciotte è destinato storicamente a perdere. Ma noi, pur consapevoli, preferiamo essere dalla sua parte che da quella dei vincitori di giornata. Anche perché la Storia cambia e, con la velocità a cui van le cose attualmente, i perdenti di oggi potrebbero anche essere i vincitori di domani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2020

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Nel 1966 i Dik Dik cantavano “ti sogno California e un giorno io verrò”. Nonostante si fosse in piena guerra del Vietnam l’America, col suo Stato più famoso e significativo, rimaneva un mito, come lo era stata già dai primi del Novecento per i nostri emigranti.

Oggi la California è ritenuta la quinta economia mondiale, ma negli ultimi anni, seguendo un processo di disintegrazione del ceto medio che riguarda tutto il mondo occidentale e che nemmeno Trump è riuscito a fermare, i poveri si sono quadruplicati. In California, su una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, 4 milioni e 100 mila persone non hanno avuto da mangiare per tutto l’anno. Solo grazie al Calfresh, che non sono altro che dei bollini federali per andarsi a comprare da mangiare, queste persone hanno potuto sopravvivere. Nella contea di Sacramento, capitale della California, ogni giovedì c’è la distribuzione del cibo. Non ci vanno solo i barboni ma famiglie con bambini che hanno i genitori che lavorano ma a malapena riescono a campare. Nelle scuole il governo della California ha dovuto intervenire per pagare ai bambini poveri il lunch, altrimenti ci si sarebbe trovati che i bambini ricchi mangiavano e gli altri stavano a guardare (dati del 2017 del Dipartimento di Stato della California). In intere zone degli Stati del sud l’analfabetismo è al 38%. In California dove è nata l’avanzatissima e ricchissima, ma solo per alcuni, Silicon Valley, tutti i giorni ad ogni incrocio ci sono persone che espongono cartelli “Just hungry, please help”. A Palo Alto, una delle città più ricche degli Stati Uniti, gli ingegneri informatici pur guadagnando più di 100 mila dollari sono costretti a vivere in macchina.

Questa è oggi la mitica California. Tutto ciò non ha impedito a Donald Trump al convegno di Davos (World Economic Forum) di affermare che “l’economia americana è diventata un geyser ruggente di opportunità”. Può darsi. Trump è stato eletto nel 2017, ma tagliando le tasse ai ricchi non si vede dove possa mai aver trovato i soldi per aiutare i poveri. Evidentemente anche nell’America di Trump la forbice fra le classi sociali si sta allargando. Alcuni, pochi, entrano a far parte dei ceti benestanti, altri sono costretti a stare agli angoli delle strade chiedendo l’elemosina. Del resto in quasi tutte le grandi città americane gli homeless, d’inverno, dormono per strada approfittando del superplus di calore che viene dalle grate dei grandi alberghi o delle case ricche. L’America è fatta così. Peraltro da un Paese dove uno dei prossimi candidati alle Presidenziali, Michael Bloomberg, dispone di un patrimonio di 50 miliardi di dollari che è disposto ad investire pur di essere eletto, c’è da aspettarsi di tutto. Il peggio. 

E allora non lamentiamoci troppo del modello europeo dove esiste un welfare piuttosto efficiente e nemmeno dell’Italia che a questa visione sociale aderisce. E non spariamo a zero, come fa la destra, sui provvedimenti che l’attuale governo ha preso e sta prendendo per cercare di attenuare, pur avendo la palla al piede dell’enorme debito pubblico che è stato accumulato soprattutto negli anni Ottanta ad opera del famoso CAF, e che oggi si sta cercando di glorificare nella persona di Bettino Craxi, le grandi disparità fra ricchi e poveri che esistono anche da noi e forse soprattutto da noi più che in altri Paesi europei. Help.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2020