Sul Corriere del 15.10 Antonio Scurati, Premio Strega di quest’anno, affronta il problema della denatalità in Italia: nella classifica del tasso di fertilità, 1,3 per donna, siamo il penultimo Paese al mondo, al 192° posto, seguiti solo dal Giappone. Di conseguenza siamo, proprio come il Giappone, uno dei Paesi più vecchi. Il problema non è nuovo e riguarda l’intero Occidente. Nei Paesi mediorientali il tasso di fertilità è mediamente del 2,5 per donna, nell’Africa Nera del 5 e anche oltre.
Scurati affronta questo complesso problema restringendolo alla sua generazione, cioè degli individui che hanno fra i 40 e i 60 anni, la cosiddetta “generazione X”, e cerca di darsi delle risposte. Lo scrittore nega che le origini di questo fenomeno siano materiali ma le individua in ragioni culturali e spirituali, soprattutto nell’edonismo e nell’individualismo. Su Libero di mercoledì Vittorio Feltri liquida la questione con la brutalità e la superficialità che gli sono da tempo consuete: “Ma chi se ne frega se la società invecchia e se gli asili sono meno affollati rispetto ai tempi andati. Dov’è il dramma?”. E’ vero che oggi i giovani, ma non solo loro, non sono più disposti a sacrificarsi per i figli e il loro futuro. Ma Feltri non sembra rendersi conto che questa abissale differenza di fertilità, in Italia e in Occidente rispetto alle popolazioni mediorientali e africane, condurrà fatalmente a un’invasione e alla perdita di quell’identità, italiana, europea, occidentale, per la difesa della quale lo stesso Feltri, e ovviamente non solo lui, si è in altri momenti schierato.
Non si può ridurre tutto alla materia e al Dio Quattrino dal quale Feltri sembra ossessionato. Scurati ha ragione quando, come il Papa (si veda il suo libro Nostra Madre Terra), vede nell’individualismo una delle tare principali, se non addirittura la principale, della nostra società.
L’individualismo nasce dall’Illuminismo che nel giro di un paio di secoli ha finito per distruggere il senso della comunità e, al suo interno, la famiglia che da che mondo è mondo è il nucleo centrale e primigenio di ogni società. E’ una perdita affettiva decisiva che ha portato, fra le altre cose, grandi difficoltà nel rapporto fra i sessi (ce lo dice l’aumento vertiginoso dell’omosessualità maschile e, più nascosta, come più nascosto è il loro sesso, femminile, mentre i figli, a parte qualche marginale marchingegno tecnologico, si han da fare come si sono sempre fatti) e ha un’altrettale aumento dei suicidi dei giovani nel mondo occidentale e nei Paesi che hanno adottato il suo modello. Il suicidio, nel mondo, è la seconda causa di morte tra giovani e giovanissimi (età 15-29 anni). Mentre, fenomeno nuovo, assistiamo anche al suicidio dei vecchi, quasi sempre abbandonati a se stessi. In Cina, da quando in quel Paese è iniziato il boom economico, il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. Il Giappone ha il poco invidiabile record mondiale. In quel Paese si sono dovute transennare non solo le stazioni ma molti chilometri di ferrovia perché il modo più facile per togliersi la vita è gettarsi sotto un treno. Anna Karenina non è più quindi solo un fatto letterario partorito dalla fantasia di Tolstoj ma un fenomeno sociale.
C’è del marcio nel regno di Danimarca. E sono proprio il materialismo e il razionalismo laico ammantato di pragmatismo ad averci infettato. Tutti.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2019
Nel momento in cui Recep Tayyip Erdogan scatena una guerra che coinvolge cinque Stati, fra grandi e medie potenze (Stati Uniti, Russia, Turchia, Siria, Iran) oltre all’Isis e, ovviamente, alle eterne vittime della regione, i curdi, i soli che avrebbero il diritto di avervi uno Stato dato che quella regione si chiama Kurdistan ed è invece divisa fra Turchia, Siria, Iraq, Iran, vittime da sempre, e non solo da quando al potere nello Stato della Mezzaluna c’è il satrapo di Ankara (qualcuno ricorderà, forse, la strage di Halabja perpetrata da Saddam Hussein in combutta con i turchi nella generale indifferenza della cosiddetta comunità internazionale) credo che una domanda, non marginale, si imponga: che ci fa la Turchia nella Nato, acronimo di North Atlantic Treaty Organization? Anzi, perché vi è entrata quasi fin da subito (1952) in un’alleanza che doveva riguardare, almeno nelle intenzioni iniziali, i soli Paesi occidentali al di là e al di qua dell’Atlantico? Si dirà che la Turchia laica fondata da Ataturk è ben diversa da quella islamica di Erdogan. Che sul piano dei diritti civili sia stata tanto diversa da quella attuale c’è da dubitarne. Qualcuno ricorderà, forse, il film Fuga di mezzanotte, del 1978, che rivelava, in modo plastico, che cosa fossero le prigioni turche quando di Erdogan non si era mai nemmeno sentito parlare. Io stesso sono stato testimone di quanto accadeva in una piazzetta dietro la mitica Moschea Blu: dei ragazzini sui dieci anni erano schierati davanti a un muretto, arrivava un adulto, slacciava loro i pantaloncini, contrattava en plein air col magnaccia eppoi se li prendeva riportandoli qualche ora dopo. Questa era la civilissima Turchia laica.
Ma per gli Stati Uniti la Turchia, grazie anche alla sua posizione strategica e alla sua conformazione orografica, una grande piattaforma naturale, è stata sempre l’alleato transatlantico più importante, molto più dell’Europa occidentale. Non è certamente un caso che in Turchia gli americani mantengano la loro più grande base aerea, a Incirlik (quella in Kosovo, Bondsteel, ha funzioni più terrestri, in tutti i sensi: di detenzione di prigionieri islamici alla maniera di Guantanamo). E’ quindi comprensibile che l’America, non solo quella di Trump come ipocritamente si dice, sia sempre stata molto malleabile con la Turchia e che quindi oggi, col ritiro o il riposizionamento dei propri soldati, si voglia tener fuori dal grande e sanguinoso guazzabuglio creato dalla guerra di Erdogan. Insomma se ne lavi pilatescamente le mani.
La presenza della Turchia nella Nato crea situazioni paradossali. Oggi, in virtù di questo accordo, 130 soldati italiani e 25 mezzi terrestri sono schierati ai confini siriani della Turchia, a sua difesa. Cioè, nella sostanza, noi, nonostante tutte le parole vuote del nostro governo, sosteniamo i turchi contro i curdi. Ma lasciando perdere l’Italia sarebbe fuorviante e ingeneroso incolpare l’Unione europea per le sue ambiguità e le sue debolezze in questo scontro turco-curdo, con tutti i suoi annessi e connessi. L’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale è succube degli Stati Uniti e ne segue pedissequamente gli interessi anche quando sono in netto contrasto con i suoi. Nessuna Potenza può essere tale, in senso politico ed economico, se non ha un’adeguata forza militare. E l’Europa questa forza non ce l’ha visto che resiste ancora, a 75 anni dalla fine della guerra, l’anacronistico divieto alla Germania democratica di avere armi nucleari come le hanno, oltre a Stati Uniti, Russia, Cina, anche l’India, il Pakistan, il Sudafrica e l’intoccabile Israele. Una volta che avessimo conquistato, anzi riconquistato, questa forza militare potremmo finalmente uscire dalla storica sudditanza agli americani, essere liberi. E rimandare la Nato a quel paese, cioè agli Stati Uniti che oggi totalmente la controllano.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2019
Da un bell’articolo di Silvia Truzzi sul Fatto (10.10) apprendiamo che in Italia il 7% dei diplomati conclude il ciclo di studi “con un livello di competenze così basso che è come se non avessero mai messo piede in classe”. Ma le cose non vanno meglio, anzi peggio, per gli adulti, da una rilevazione Ocse si ricava che “il 70% degli adulti italiani risulta non in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e complessi”.
La storia viene da lontano. In quasi nessun Paese in cui sono stato ho visto la scuola trattata o meglio bistrattata come in Italia. Prendiamo a titolo di esempio la Tunisia. Sotto il regime di Ben Ali i giornali impegnavano pagine e pagine in dibattiti sull’istruzione soprattutto delle prime classi: sui tempi di attenzione dei ragazzi, sulla scansione degli intervalli, sui metodi di insegnamento, sul comportamento dei docenti, sulla disciplina, sul rigore degli esami. Anche i regimi dittatoriali hanno sempre dato, e danno, una grande importanza all’istruzione se non altro per educare i cittadini alla propria visione politica. Il Fascismo, almeno nelle grandi città, costruì per i maestri elementari, cioè per il livello più basso della classe dei docenti, case che oggi fanno gola ai benestanti. I docenti dovevano godere di una considerazione sociale elevata che poi si rifletteva sul loro prestigio in aula.
Nell’Italia repubblicana, per decenni, durante tutta l’era democristiana e oltre, il ministero dell’Istruzione andava come premio di consolazione al più sfigato dei politici o a quello che stava in ‘standby’. Sono stati ministri dell’Istruzione Giuseppe Bettiol, Egidio Tosato, Giuseppe Medici, Giacinto Bosco, Fiorentino Sullo, Riccardo Misasi, Mario Pedini, Adolfo Sarti, Guido Bodrato, Franca Falcucci, Giovanni Galloni, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi, Rosa Russo Iervolino, Francesco D’Onofrio, Giuseppe Fioroni. E fermiamoci qui per carità di patria.
Per decenni la scuola è stata concepita come una sorta di ‘riserva indiana’ per semioccupati od occupati malpagati e frustrati, senza nessuna considerazione per il merito e la passione per il proprio lavoro (gli scatti erano solo per anzianità). Molti dei ‘babypensionati’ vengono dalla scuola e spesso erano i migliori, con una vocazione autentica per la loro delicatissima professione. Si tenga presente che il lavoro dell’insegnante scrupoloso non si esaurisce in aula ma, soprattutto per alcune materie, lettere e filosofia in particolare, continua a casa con la correzione dei compiti e la preparazione della lezione del giorno successivo. I migliori, alla lunga, hanno pensato che non ne valesse la pena e sono andati a spendere il loro talento altrove, gli altri che talento non avevano sono rimasti a scaldare i banchi.
A tutt’oggi ogni nuovo ministro della Pubblica Istruzione elabora un suo piano di studi puntualmente sconfessato dal suo successore. Non funziona così, non può funzionare così. Anche se oggi tutto va a gran velocità (che, sia detto di passata, è uno dei drammi della vita moderna) un piano di studi va pensato con vista lungimirante, per almeno due o tre generazioni. Se il mitico ‘classico’ di Gentile ha potuto resistere decenni è perché Gentile aveva guardato avanti e soprattutto aveva ben in testa che la scuola ti deve dare, oltre alle nozioni, gli strumenti per capire la realtà. Perché capire è più importante di sapere.
Tutti i recenti tentativi di riforma hanno cercato di adeguare la scuola alle nuove realtà. E’ inevitabile, ma si è troppo forzato sull’attualità. La scuola si deve occupare soprattutto dell’inattuale, Eraclito, Platone, Bacone se non li incontri a scuola poi non li incontri più. L’attualità ci entra ed esce da tutte le orecchie.
Ma la distruzione o la semidistruzione definitiva di ogni capacità di comprensione e del far propria una vera cultura, e questo riguarda l’intera popolazione, giovanile e adulta come rileva l’Ocse, viene dalla tecnologia digitale. Su internet puoi trovare tutto, subito. Incameriamo una serie infinita di nozioni, ma è un generico sapere sul sapere. Paradossalmente da questo punto di vista le cose andavano meglio in era preindustriale. Scrive Johan Huizinga ne La crisi della civiltà che è del 1935: “L’uomo comune diventa sempre meno dipendente dalle proprie facoltà di pensiero e di espressione. Il contadino, il marinaio, l’artigiano di una volta, nel tesoro delle sue conoscenze pratiche trovava anche lo schema spirituale con cui misurare la vita ed il mondo. Anche dove l’individuo sia animato da un sincero impulso verso il sapere e la bellezza, dato l’ossessivo sviluppo dei mezzi di diffusione meccanica dello scibile, difficilmente potrà sottrarsi alla noia di ricevere, bell’e confezionati o strombazzati, giudizi e nozioni”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2019