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Nel 1959 Elémire Zolla, personaggio outsider difficilmente inquadrabile in qualche scuola di pensiero, scrisse il suo libro più famoso: Eclissi dell’intellettuale. L’intellettuale è una figura proteiforme, sfuggente, omnicomprensiva, ed è difficile darne una definizione. Per restringere il campo prendiamo a prestito quella che ne dà lo scrittore Antonio Scurati: “Un professionista della parola meditata, ragionata, raffinata e sapiente”. Quindi il possessore di un’idea forte capace di influenzare e addirittura, a volte, di dar forma a una società. Per molto tempo gli intellettuali per eccellenza, capaci di imporre il loro pensiero, sono stati i filosofi. Aristotele, nato nel 384 a.C., ha condizionato e plasmato l’intera cultura europea del Medioevo. Ipse dixit. Morto il pensiero aristotelico è stato sostituito da quello illuminista di cui Kant e Hegel sono i principali esponenti, pensiero sul quale si sostiene l’attuale modello di sviluppo. Ma dalla metà dell’Ottocento in poi hanno avuto molta influenza anche pensatori che non possiamo definire in senso stretto filosofi, ma piuttosto sociologi o storici o economisti o tutte e tre le cose insieme: Max Weber, Werner Sombart, Georg Simmel e in Italia Giuseppe Prezzolini e Benedetto Croce. E’ chiaro che siamo costretti ad usare l’accetta perché non vogliamo, né siamo in grado, di fare una storia del pensiero occidentale dalle sue origini a oggi. Speriamo che il lettore ci perdoni. Ma anche nella prima parte della seconda metà del Novecento abbiamo avuto autori, in genere artisti ma persino giornalisti (pensiamo in particolare a Pasolini e a Montanelli) capaci di avere una forte presa sulla società. Oggi, sia pur in modo graduale, come aveva intuito Elémire Zolla, l’intellettuale è scomparso dalla scena. E’ stato sostituito dagli influencer, cioè persone in grado al più di fare tendenza sul piano del costume o di essere essi stessi tendenza, continuamente superati dalla velocità cosmica che hanno preso le comunicazioni. Costoro non indicano, né possono farlo per la “condradizion che nol consente”, una direzione duratura. Da costoro puoi sapere come ti devi vestire o come ti devi atteggiare se vuoi essere à la page. Tutto qui. Della stessa stoffa sono i conduttori di talk.

Non ci sono più gli intellettuali.  Ecchisenefrega potrebbe dire il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fin qui. Ma il problema non è questo. E’ che oggi manca un pensiero che pensi se stesso, che ci dica cioè o almeno ci indichi dove stiamo andando (alle famose domande cosmogoniche “chi siamo”, “da dove veniamo”, la filosofia, consapevole della sua impotenza, ha da tempo rinunciato a rispondere). L’ultimo filosofo propriamente detto, attivo negli anni Trenta, è stato Martin Heidegger che ha posto, in modo laico, il fondamentale problema della tecnica e della sua ambivalenza sulla quale noi contemporanei continuiamo a navigare senza però più porci, a differenza di Heidegger, nessuna domanda. Viaggiamo su un treno tecnologicamente avanzatissimo, che per sua coerenza interna deve aumentare di continuo la velocità, sballottati di qua e di là da questa stessa velocità che ci provoca stress, angoscia, depressione, nevrosi, ma ottusamente inconsapevoli che in tal modo stiamo accorciando il nostro futuro. Una fine ingloriosa che ci saremo ampliamente meritati.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2019

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Mike Pompeo, segretario di Stato americano, ha dichiarato: “Non consideriamo più gli insediamenti israeliani contrari alla legalità internazionale”. Una dichiarazione in aperto contrasto con la Quarta Convenzione di Ginevra che impedisce “a una potenza occupante di trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio occupato e non riconosce il diritto della potenza occupante ad estendere alle colonie il proprio diritto interno e l’apparato amministrativo”. Questa dichiarazione ha sollevato le flebili proteste degli Stati europei e degli analisti e intellettuali al loro servizio che, a loro dire, “continueranno a considerare illegali le colonie costruite sulle terre arabe catturate nella guerra del 1967”. Di che cosa stiamo parlando? E’ dalla fine della Seconda guerra mondiale che non esiste più un diritto internazionale. Non esiste come ‘Ius belli’, tanto che oggi il nemico non è più considerato schmittianamente, almeno dalle democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, uno ‘Ius ostis’ ma sempre e comunque un terrorista (Guantanamo docet). Durante la Seconda guerra mondiale tutti, Germania nazista compresa, consideravano i soldati nemici catturati dei “prigionieri di guerra”. Poi li trattavano come li trattavano (pensiamo solo alla nostra Armir nei campi di prigionia staliniani) ma il loro “status” rimaneva quello. Nessuno, nemmeno Adolf Hitler, durante la Seconda guerra mondiale osò utilizzare armi chimiche, non solo perché si avevano ben presenti le conseguenze devastanti dell’utilizzo di queste armi durante la Prima guerra mondiale, ma anche perché la Società delle Nazioni, ideata dal presidente statunitense Woodrow Wilson, le proibiva. Ma furono proprio gli americani, a guerra ormai conclusa, a gettare la Bomba atomica su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki. Fu il primo segnale della rottura di uno ‘Ius belli’ fino ad allora unanimemente accettato. Ma, cosa ancora più grave, il diritto internazionale, che dovrebbe essere garantito dall’Onu, è stato spazzato via anche al di fuori dalle pur drammatiche convulsioni di una guerra, diciamo così, tradizionale. Il diritto internazionale è stato spazzato via anche, e forse soprattutto, oggi, in tempi che noi consideriamo di pace. L’Onu, che ne dovrebbe essere il garante, non conta più nulla. L’aggressione americana alla Serbia del 1999 fu fatta contro la volontà dell’Onu. L’aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein fu fatta contro la volontà dell’Onu. L’aggressione franco-statunitense-italiana alla Libia di Muammar Gheddafi fu fatta contro la volontà dell’Onu.

E allora smettiamola con queste odiose ipocrisie. Un diritto internazionale, nonostante tutte le solenni proclamazioni in contrario, non esiste più. La forza del diritto, sia pur il flebile diritto internazionale, è stata sostituita dal diritto della forza. Quindi accucciamoci devotamente e razionalmente alle affermazioni apertamente illegali di Mike Pompeo, che con assoluta e tranquilla coscienza marcia, realisticamente, sulle macerie di un diritto internazionale che non esiste più. Israele “uber alles”. Ma poi smettiamola di parlare spregiativamente dei “tagliagole” dell’Isis. A mio modo di vedere, sbaglierò, sono i soli eticamente puliti in questo merdaio che chiamiamo ancora con un’ipocrisia che dà il vomito, diritto internazionale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2019

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In questi giorni tutti i media, televisioni e giornali, hanno gridato all’allarme rosso per l’”emergenza tempo”. Scegliamo random alcuni titoli di prima pagina. “Acqua e neve paralizzano l’Italia” La Stampa, “La grande paura” Il Gazzettino, “L’Italia fa acqua” Il Resto del Carlino, “Povera Italia indifesa” La Repubblica, “Arno e Reno fanno paura. Scuole chiuse per maltempo” Il Corriere della Sera.

A me pare che in Italia siamo in preda a vari terrorismi. Uno è il terrorismo internazionale di cui abbiamo parlato recentemente dopo il ferimento di cinque soldati italiani a Kirkuk, altri sono terrorismi, per così dire, ‘interni’ che nascono da un eccesso di paura e dall’ossessione, tutta moderna, che si possa controllare tutto. C’è il terrorismo diagnostico per cui le persone, anche giovani, dovrebbero fare sei controlli medici l’anno per prevenire future e del tutto ipotetiche patologie. Insomma dovremmo vivere da vecchi fin da giovani. Poi c’è il terrorismo meteorologico che si divide in terrorismo estivo e terrorismo dell’autunno-inverno. D’estate i media si esercitano e martellano sulle temperature, normalissime data la stagione, e non contenti si accaniscono sulla cosiddetta “temperatura percepita” mettendo in allarme soprattutto gli anziani. Emilio Fede era specializzato nel dare il numero degli anziani che, a suo dire, erano morti per il caldo. Così uno che se ne stava tranquillo sopportando temperature che aveva sempre affrontato, sapendo che la massima non era, poniamo, di 36 gradi, ma “percepita” saliva a 45, si allarma sul serio e muore non per il caldo, ma di spavento. Nell’autunno-inverno succede il contrario. Scegliamo anche qui, sempre random, alcune notizie di questi giorni: “Toscana, molte scuole non apriranno i portoni”, “in diverse regioni le scuole resteranno chiuse a causa delle piogge e del rischio idrogeologico”, “ad Abano Laziale è caduto un albero ferendo in modo serio un automobilista”, “a Pisa in alcune chiese si è pregato sino a notte San Ranieri, il patrono della città” (non so quanto il buon San Ranieri abbia potuto intercedere perché a Pisa, la città del mi babbo, si dice di lui che “a parte il viziaccio di rubare era un gran Santo”), al Brennero pare che sia caduta la neve.

A parte il picco di acqua alta a Venezia nella notte tra martedì e mercoledì, 187 cm (ma i veneziani sono attrezzati per queste situazioni, in fondo vivono su una laguna e casomai se c’è qualcosa da dire e da accusare è il mitico Mose che non è servito a nulla) tutti gli altri sono eventi abituali che conosciamo benissimo. Da che mondo è mondo, o almeno da quando io sono al mondo, cioè da parecchio, si sa che novembre è la stagione delle piogge. Ma basta un temporale, come ne abbiamo vissuti mille volte, perché sia classificato “bomba d’acqua”. Basta che il vento sibili un po’ forte ed è subito una “tromba d’aria”. Basta che un fiume superi non gli argini ma qualche soglia gialla, verde, arancione e, dio non voglia, rossa e la raccomandazione accorata delle Autorità ai cittadini è di starsene chiusi in casa (se è domenica naturalmente, sennò tutti a lavorare, non scherziamo). Le scuole restano chiuse per giorni. A me, lo confesso, piacerebbe molto essere uno studente oggi, perché a noi ci cacciavano fuori di casa a pedate qualsiasi tempo facesse. Ai nostri giorni, almeno in Italia, si ha paura di tutto, già uno spiffero ci manda in catalessi, e “chi non terrorizza si ammala di terrore” come canta De André.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019