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Ieri Marco Travaglio sottolineava le cose che non funzionano nel governo gialloverde focalizzandole soprattutto sulla Lega e sulla ubiqua e martellante presenza di Salvini. Bene. Ma qualcosa che non funziona c’è anche nei 5stelle. Non in politica interna dove col loro programma sociale hanno il difficilissimo compito di rimontare una situazione che si è creata nei decenni. Ma in politica estera. Una persona perbene come Luigi Di Maio non va a trovare, tutto soave, attuzzi e moine, un tagliagole come il generale Abdel Fatah Al Sisi, per discutere, fra le altre cose, del ‘caso Regeni’. Non tanto perché è inutile. Dubito molto che Al Sisi si presenti spontaneamente al Procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone per farsi arrestare, dato che è evidente che l’ordine di assassinare Regeni se non direttamente da Al Sisi dipende dalla filiera dei servizi segreti da lui controllati. Il ’caso Regeni’ non è che un pulviscolo delle infamie che sono state perpetrate in Egitto negli ultimi anni. Ricapitoliamole perché tutti, in Italia e nel liberale e democratico Occidente, sembrano essersene dimenticati. Nel 2012, nell’ambito delle cosiddette ‘primavere arabe’, in Egitto era stato deposto il dittatore Hosni Mubarak e proclamate le prime elezioni libere in quel paese vinte dall’avvocato Mohamed Morsi leader dei Fratelli Musulmani. Una vittoria che oltre ad avere tutti i crismi della legalità era giustificata dal fatto che i Fratelli erano stati per anni gli unici veri avversari della dittatura di Mubarak, pagando prezzi altissimi (carcerazioni, assassinii), mentre i cosiddetti ‘laici’ che tanto piacciono al democratico e liberale Occidente se ne erano stati ben al coperto. Dopo un anno e mezzo il legittimo governo di Morsi fu rovesciato con un colpo di stato militare guidato proprio da Al Sisi, con l’appoggio del sempre democratico e liberale Occidente (all’epoca l’allora presidente del consiglio italiano Matteo Renzi, che come Salvini non sa tenere un cecio in bocca, si spinse ad affermare che Al Sisi era “un grande uomo di Stato”). La deposizione violenta di Morsi fu giustificata con una motivazione a dir poco grottesca: l’inefficienza del governo dei Fratelli. A parte il fatto che essendo stati alla macchia o in galera per decenni i Fratelli non potevano avere maturato una cultura di governo (così come non l’hanno maturata, ma per motivi meno sanguinosi, i 5stelle in Italia), se si dovesse legittimare un colpo di stato per l’inefficienza di un governo, e solo dopo un anno e mezzo dal suo insediamento, in Italia i colpi di Stato avrebbero dovuto essere almeno, dai primi anni Ottanta in poi, una trentina. La beffa delle beffe era che Al Sisi era stato il braccio militare di Mubarak: a una dittatura se ne sostituiva un’altra ancora più feroce. Al Sisi fece mettere in galera Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli e col pretesto di una manifestazione a favore di Morsi, dove era stato ucciso un poliziotto, dico uno, fece assassinare 2500 Fratelli cui seguirono circa 2500 desaparecidos fra cui c’è anche Giulio Regeni, trovato in seguito cadavere e con segni di tortura (perché i servizi segreti egiziani non hanno nemmeno l’abilità della Mafia che fa sparire la gente in qualche pilone di autostrada). In ogni caso, se vogliamo essere schietti, e noi lo vogliamo, qualche ragione in quell’occasione i servizi egiziani ce l’avevano: non si va in quell’Egitto a fare un’improbabile inchiesta sui ‘sindacati indipendenti’ (una responsabilità grave ce l’ha anche l’università di Cambridge: non si manda in quell’Egitto un ragazzo quantomeno sprovveduto). Dopo di che Al Sisi ha abolito tutte le libertà civili che tanto piacciono al liberale e democratico Occidente e per le quali lo stesso Occidente, quando gli fa comodo, è disposto a muover guerra a destra e a manca (Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011). Il risultato di questa bella operazione nel regno dei Faraoni è che 10000 egiziani sono andati a fare i foreign fighters per lo Stato Islamico e che il Sinai è oggi in mano all’Isis.

Dopo l’incontro col tagliagole, Luigi Di Maio ha sostenuto che le relazioni tra Roma e Il Cairo vanno rinsaldate lodando la presenza di Eni che è rimasta, “anche nel periodo più difficile”, diventando una realtà importantissima. Faccio notare l’ipocrisia di quell’inciso “anche nel periodo più difficile”, cioè quando si massacravano e si incarceravano gli oppositori. Insomma siamo alle solite: non olet.

Intanto siamo sempre presenti in Afghanistan. Di ciò che succede in Afghanistan nel liberale e democratico Occidente nessuno parla. Per forza: lì gli occupanti siamo noi. Il 13 agosto i Talebani con un attacco militare, e non con kamikaze disposti a farsi saltare in aria in mezzo alla gente, questo lo fa l’Isis, erano riusciti a conquistare l’importante città di Ghazni, 150 kilometri da Kabul. Per ristabilire la situazione sono intervenuti gli americani con 23 raid di bombardieri e droni. Loro i “boots on the ground” non ce li mettono, a lasciarci la pelle sono i soldati del cosiddetto ‘esercito regolare’ afghano, dei poveri ragazzi che in questa guerra civile, da noi provocata e che ha ulteriormente impoverito un paese già poverissimo, non hanno scelta: per guadagnarsi il pane quotidiano o vanno a combattere, senza alcuna convinzione, per il governo fantoccio di Ashraf Ghani o si arruolano, un po’ più motivati, con i talebani, altri fuggono verso l’Europa. Il 21 agosto, primo giorno della ‘festa del Sacrificio’, Eid al Adha, l’Isis ha attaccato in Kabul con razzi e bombe di mortaio (Ma chi glieli dà? I Talebani non dispongono nemmeno di uno stinger). Il numero dei morti non è stato precisato. Ma come l’Isis, che in genere si fa saltare in aria in mezzo ai civili, soprattutto sciiti, non è considerato il più grave pericolo per l’Occidente? Sì, quando colpisce in Europa, se lo fa in Afghanistan chissenefrega. A combattere l’Isis in Afghanistan lasciamo i Talebani che, stretti fra i guerriglieri di Al Baghdadi e gli occupanti occidentali, perdono terreno a favore appunto dei terroristi islamici. Una strategia molto intelligente quella Occidentale: guerra ai resistenti afghani, laissez faire con i terroristi islamici.

Alla Versiliana dell’anno scorso Alessandro Di Battista, da me incalzato, promise che se i 5stelle fossero andati al governo avrebbero ritirato il contingente italiano a Herat che, fra le altre cose, ci costa 1,3 milioni di euro al giorno, vale a dire 474 milioni l’anno. Se il governo gialloverde non rispetterà l’impegno preso da Di Battista, non crederò più a una sola parola né di Di Battista, né di Di Maio, né di Davide Casaleggio, né degli altri bravi ragazzi dei 5stelle. Compagni addio.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2018

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Secondo uno studio dell’università di Edimburgo 50 milioni di tonnellate di cibo vengono scartate perché non corrispondono a criteri estetici. Con una quantità del genere si sfamerebbe un intero paese africano. Queste tonnellate vanno ad aggiungersi a 1,6 miliardi di tonnellate di cibo che per altri motivi, ugualmente idioti, non arrivano sul mercato “alla faccia di un terzo della popolazione mondiale che è costantemente sottoalimentato” come nota il professor Reay della stessa università di Edimburgo. Un’esaltazione, un trionfo dello Spreco su cui vive il mondo ricco, prevalentemente occidentale ma ormai non solo.

Quando ero ragazzo negli anni Cinquanta mangiavamo delle pesche con forme che certamente avrebbero fatto inorridire gli esteti del cibo e gli stronzi della ‘nouvelle cousine’. Ma erano buonissime. Oggi mangiamo pesche con forme così perfette, rotonde, che potrebbero essere esposte in una qualche galleria d’Arte. Ma della pesca hanno solo l’aspetto, il sapore è quello del ricordo di una pesca. Qualche anno fa mi fermai in una trattoria piazzata all’inizio della Gola del Furlo dove si fermava a mangiare Mussolini quando, guidando da solo e senza scorta, da Roma voleva raggiungere la sua Romagna (c’è ancora la stanza, intatta, dove si metteva a riposare un poco). Mi portarono un pollo. E d’improvviso, come Proust quando assaggia la famosa madeleine, mi si riaffacciò il ricordo di che cos’era un pollo quando i polli erano ancora tali e non degli animali stabulati, ingrassati a forza, malati. Quel pollo, servito su un tavolaccio di legno coperto da una carta colorata, era lo stesso che mangiavamo negli anni Cinquanta. Certo allora di polli ne mangiavamo pochi, di solito nel giorno di festa, la domenica. Oggi possiamo prenderne uno al giorno, se vogliamo, nei supermarket. Il totem dello spreco non aveva ancora raggiunto noi italiani che a quei tempi eravamo, nella stragrande maggioranza, poveri.

Ma tutta la storia recente dell’alimentazione mondiale è così colma di paradossi infami ai danni della povera gente che si fa fatica a resistere alla tentazione di arruolarsi nell’Isis. Quando sono stati inventati gli ogm li si è giustificati con il fatto che avrebbero tolto la fame sulla terra. Non c’è bisogno del professor Reay per saper che non è andata così e che la fame nel mondo continua ad aumentare, a dispetto e disdoro delle dichiarazioni ufficiali delle Organizzazioni mondiali. L’80% dei migranti dall’Africa subsahariana (quelli che non godono del diritto d’asilo) è migrante per fame. E non c’è da sorprendersi: le quattro o cinque multinazionali che producono ogm, con in testa l’americana Monsanto, non vendono le loro sementi ai poveri. Perché il cibo non va là dove ce n’è bisogno, ma dove c’è chi è in grado di comprarlo. Prima che il nostro modello omicida entrasse in quei mondi, cioè intorno al 1960, quella che una volta era l’Africa Nera era alimentarmente autosufficiente con la sua ‘economia di sussistenza’, autoproduzione e autoconsumo. L’aggressione all’Africa data dal 1960 in poi perché prima era giudicata un mercato troppo povero per essere interessante, ma da allora lo è diventata perché i nostri mercati, non solo di cibo naturalmente, sono saturi. Eppure in questo stesso periodo la produzione mondiale dei cereali di base, riso, grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50% e una crescita, sia pur modesta, della produzione di tali alimenti c’è stata anche in Africa. Ma gli africani, come tanta altra gente del terzo mondo, muoiono di fame lo stesso. Perché in un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo, come dicevamo, non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, più in generale, al bestiame dei paesi industrializzati se è vero che il 66% della produzione mondiale dei cereali è destinato all’alimentazione degli animali dei paesi ricchi. I poveri del Terzo Mondo sono così costretti a vendere alle bestie occidentali, intese come animali e come uomini, il cibo che potrebbe sfamarli. E’ la legge del mercato e del denaro, bellezza.

Io credo che dovremmo riacquistare un’estetica, ma molto diversa da quella segnalata dall’università di Edimburgo: un’estetica della dignità, nostra e altrui.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2018

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L’animalismo è la malattia infantile dell’ecologismo. La deputata di Forza Italia Michela Vittoria Brambilla ha depositato un progetto di legge perché la macellazione rituale di mucche e agnelli tipica della “Festa islamica del Sacrificio”, Eid Al Adha, che si è celebrata proprio in questi giorni anche in Italia si svolga in modo meno cruento. Prima del taglio rituale della trachea le bestie dovrebbero essere narcotizzate in modo che non soffrano. Il progetto ha avuto l’approvazione delle ‘anime belle’ di tutti i partiti, Forza Italia, Lega, 5stelle, Pd, FdI, Leu, Svp.

Non ne faccio qui una questione religiosa anche se rituali più o meno sanguinosi, che non riguardano gli animali ma gli esseri umani, come quello dei ‘flagellanti’ praticato soprattutto nel nostro Sud o quell’altro di salire ginocchioni al Santuario di Santiago di Compostela sono presenti pure nella confessione cristiana. Il progetto di Brambilla è all’apparenza ragionevole ma si inserisce nella concezione illuminista di eliminare completamente l’aggressività dalla nostra esistenza. Ma l’aggressività è una componente essenziale della vitalità. Lo sapevano bene tutte le culture che hanno preceduto la nostra, che non hanno cercato di eliminare completamente l’aggressività ma di canalizzarla in modo da mantenerla entro limiti accettabili. Facciamo alcuni esempi random. “Presso gli aborigeni australiani quasi tutte le guerre si fanno attraverso una serie di duelli uomo contro uomo: ciascuno a turno sferra un colpo, finché uno dei due, troppo stanco per continuare, si dichiara vinto, oppure finisce con lo scudo spezzato per cui è dichiarato fuori combattimento…  I Murgin, altri australiani, combattono dopo aver tolto dalle loro zagaglie la punta di pietra, mentre i Tsembaga, della Nuova Guinea, usano frecce sprovviste di penne direzionali in modo che il tiro non sia troppo preciso… Fra gli eschimesi se una delle parti è esausta issa su una pertica una giacca di pelliccia. Fra gli Hadzapi la guerra inizia con un duello tra combattenti armati con verghe di legno, solo se nessuno ha la meglio la mischia diventa generale e ci si dà battaglia a colpi di freccia e di zagaglia” (Massimo Fini, Elogio della guerra). Ma veniamo a tempi più recenti. Fra i Bambara, vasta tribù del Mali, era uso fare una guerra finta chiamata rotana, quella vera (diembi) era molto più rara. E’ un fatto che prima che intervenissimo noi con le nostre buone intenzioni la guerra in Africa Nera fu un fatto abbastanza eccezionale. “Fra le mille etnie che la compongono o la componevano prevaleva la composizione pacifica dei potenziali conflitti” (Africa, John Reader, 1997). Nel 1970 partecipai a Nairobi a una grande Convention sulla guerra in Africa e ciò che ne veniva fuori è che, pur con le inevitabili eccezioni di una storia millenaria, l’Africa era stata sostanzialmente pacifica. Mi ricordo che a un certo punto intervenne il capo di una piccola tribù di cui purtroppo non ricordo il nome. Raccontò: “Anche da noi una volta c’è stata una guerra, una cosa veramente terribile, tremenda. Poi, un pomeriggio, vicino a un pozzo ci scappò il morto. E tutto finì”. E’ un esempio estremo ma che la dice lunga. Oggi l’Africa, da noi ‘civilizzata’, è attraversata da guerre sanguinarie che sono, insieme alla fame, alle origini di quelle migrazioni che tanto ci spaventano.

Canalizzare l’aggressività senza volerla eliminare del tutto, ecco ciò di cui dovremmo occuparci. Se di fronte agli immigrati, neri, mediorientali, ma anche balcanici, che l’aggressività l’hanno conservata, sia in senso negativo ma anche positivo, siamo così tremebondi è perché abbiamo perso la nostra vitalità naturale. Qualche mese fa passeggiavo per Corso Buenos Aires. Incontro veniva una coppia di giovani italiani, sulla trentina. Un immigrato, mi pare un albanese, guardò la ragazza in modo così insistente e fastidioso da risultare oggettivamente offensivo (diciamo una ‘molestia sessuale’ en plein air). Il ragazzo italiano si risentì e disse qualcosa all’albanese. Costui gli diede un gran ceffone. E l’italiano: “Ma no, parliamone”. Parliamone? Dargli un sacco di botte, ecco quello che avrebbe dovuto fare.

Questo discorso sull’aggressività/vitalità si lega, singolarmente, al gioco infantile. Gli scienziati dell’ American Academy of Pediatrics hanno scoperto, genialmente, che i bambini hanno bisogno di giocare. Ma guarda un po’. Il gioco è un’occasione per sfogarsi e non solo. Scriveva il notissimo psichiatra infantile Bruno Bettelheim: “La vita rurale prima che la coltivazione fosse meccanizzata offriva ai bambini almeno una possibilità di scarica alternativa alla violenza. Nel mio paese natale, in Austria, macellare il maiale era una grande occasione nella vita dei bimbi contadini… E permetteva almeno una scarica socialmente utile”. Questo discorso sui bambini vale anche per gli adulti. Certamente i contadini non si facevano il problema di anestetizzare e narcotizzare il maiale.

Gli animalisti alla Michela Vittoria Brambilla dovrebbero piuttosto occuparsi di più di come alleviamo gli animali necessari alla nostra nutrizione, in particolare mucche, polli e galline: stabulati, sotto i riflettori 24 ore su 24, perché crescano più rapidamente, sviluppano malattie tipicamente umane, depressione, nevrosi, disturbi cardiovascolari, infarto, ictus, diabete. Ma su questo la Brambilla, e tutte le Brambille, tacciono perché disturberebbe il manovratore, cioè la Produzione, grande totem, insieme al consumo, del nostro mondo. Sgozzare gli animali non ‘istà bene', torturarli invece sì.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2018