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Ho letto l’articolo di Massimo Fini, intitolato “Rai mission impossible” che, in buona sostanza, sentenzia che la Rai è irriformabile, anche se sei al governo, e che è utopia sottrarla alla spartizione a cui l’hanno condannata i partiti politici. Questa affermazione è vera, se si intende riformare la Rai con le regole attuali, ma se si dà un’altra impostazione al problema, incominciando a parlare di una azienda costruita con soldi pubblici e quindi di proprietà dei cittadini, mantenuta in vita dal canone a carico dei cittadini, trasformata da “servizio pubblico” a “servizio ai partiti politici”, ecco che si pone un problema che può essere facilmente risolto: si trasforma l’azienda in “public company” dove i cittadini che pagano il canone sono effettivamente azionisti ed eleggono il Presidente, con tutti i poteri, in regolari elezioni (da abbinare a politiche o amministrative) tra personaggi indipendenti da politica, economia e religioni. Ci si preoccupa sempre della poca partecipazione alla vita sociale e politica, bene, è il momento di dare ai cittadini un potere di autogestione e di cancellare una occupazione abusiva che rende la democrazia una burletta.

Caro Massimo Fini, non scoraggiare fatalisticamente il cambiamento e, per favore, non parlare più di utopia quando si parla di problemi politici facilmente risolvibili se li si discute con le grandi masse popolari, che vanno avvicinate alla partecipazione e all’autogestione su obiettivi giusti, fattibili, democratici, e ti ricordo che queste persone esistono (e sono il 60% degli elettori) come forse Matteo Renzi ricorda bene. Autogestione e referendum propositivi sono gli strumenti attraverso cui si può vedere ridimensionato il ruolo dei partiti e del Parlamento.

Paolo De Gregorio


"Personaggi indipendenti da politica, economia e religioni"? Bisognerebbe cercarli col lanternino, magari in Germania. Non sono contro il 'cambiamento', ho appoggiato il movimento cinquestelle nei limiti in cui questo è consentito a un giornalista che non deve mai perdere la distanza critica dall'oggetto del suo interesse e trattare amici e nemici in ugual modo. Ma un'effettiva riforma della Rai ha come presupposto lo scardinamento totale necessario e inevitabile del sistema dei partiti che ha incrostazioni che risalgono al Cln. Come ho scritto mi pare un'impresa superiore alle forze dei 5stelle e di qualsiasi altro, a meno che non si nomini un dittatore 'pro tempore' come facevano i Romani (quelli antichi, intendo) in casi di emergenza. In ogni caso, gentile Paolo De Gregorio, io non vado preso alla lettera perché sono leopardianamente un cantore del "pessimismo cosmico" e Giacomo Leopardi, che non è stato proprio l'ultimo della pista, ironizzava molto sulle "sorti meravigliose e progressive". Un cordiale saluto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2018

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E’ molto difficile, anche per me che lo conoscevo da moltissimi anni, da quando avevo pubblicato con lui, con la sua casa editrice, la Marsilio, Denaro. “Sterco del demonio”, parlare e descrivere una personalità complessa e, all’apparenza non facile come quella di Cesare De Michelis. E’ difficile anche perché mi viene un po’ di groppo in gola: era uno degli ultimi amici della mia generazione che mi erano rimasti e con cui potevo parlare. Naturalmente sapevo che era malato da tempo, una malattia cui cercava di resistere con tutte le sue forze e il suo coraggio. Gli avevo telefonato pochi giorni fa e l’avevo sentito con la voce ancora forte. C’eravamo lasciati con l’eterna promessa di riverderci a Milano e fare le solite chiacchiere in cui non eravamo d’accordo quasi su nulla. Lui era un pragmatico, un realista, e mi prendeva garbatamente in giro per le mie certezze. Ora non ci rivedremo più, né a Milano né in qualsiasi altro luogo, perché siamo entrambi dei ‘non credenti’, io, almeno, l’ho sempre interpretato così, anche se scavare nell’animo più profondo di un essere umano non è possibile a nessuno.

L’avevo conosciuto moltissimi anni fa nell’ambito del ‘Premio Berto opera prima’ di cui eravamo entrambi giurati. Per la verità in quella giuria c’ero capitato per puro caso. Lo aveva fortemente voluto la moglie di Berto perché pensava, non so quanto a ragione, che in un’intervista fatta a Berto sulla terrazza della loro casa romana, in uno splendido pomeriggio di giugno, avessi in qualche modo ridato fiato e un po’ di vita al marito, ammalato di quel cancro di cui morirà pochi mesi dopo. All’epoca del Premio Berto io pubblicavo con Mondadori. De Michelis mi faceva un discreto filo ma io lo ignoravo. Quando Mondadori fu presa da Berlusconi per non sentirmi fare la solita accusa che attaccavo il rais di Arcore ma poi prendevo soldi da lui (altri sono stati più disinvolti) accettai l’offerta di Cesare. Ed entrai in un altro mondo, editorialmente e umanamente. Per De Michelis, per quanto fosse un editore abile e accorto come in cinquant’anni di professione ha dimostrato, il libro non era un ‘prodotto’ ma qualcosa di diverso e di più. Come i suoi autori e collaboratori non erano semplicemente dei numeri. C’era in Marsilio un’atmosfera quasi familiare. Lui era un finto burbero che cercava di mascherare in questo modo una chiusa timidezza.

Era un uomo di una cultura sterminata, bastava entrare nella sua casa con una libreria mi pare di 80mila volumi, letti comunque consultati, per capirlo, ma non per questo noioso e pedante. Conosceva l’ironia e l’autoironia. Al suo livello culturale, nella ormai mia lunga esperienza, ho incontrato solo Pier Paolo Pasolini e Giovanni Spadolini (solo che Spadolini, buonanima, era pedante e noioso).

Con la Marsilio siamo andati sempre benissimo e in crescendo. Ma quando con l’intuizione di pubblicare i giallisti svedesi, Mankell e Larsson, che portarono la Marsilio in una dimensione economica diversa e io divenni un autore, diciamo così, di seconda fascia, il suo atteggiamento nei miei confronti non mutò. Al contrario. Nel 2016, intuendo che era alla fine, mi fece il regalo (perché di regalo si tratta, non so quanto ci abbia guadagnato) di pubblicare con La modernità di un antimoderno una parte della mia ‘opera omnia’, replicando poi due anni dopo, nel maggio del ’18, con Confesso che ho vissuto, quando lui, come capiva benissimo, era agli sgoccioli. Per alleviare un po’ le cose negli ultimi tempi gli dicevo scherzando: “tu non mi puoi premorire perché la morte di un editore non fa aumentare le copie, quella dell’autore sì”. Invece è toccata a lui.

Di Cesare, fra i tanti, mi piace ricordare due aneddoti minori. Due anni fa tenne a Mogliano Veneto una ‘lectio magistralis’ su Berto così affascinante che anche la mia segretaria, Nadia, ne fu presa e quasi se ne innamorò. Io dovevo intervenire subito dopo e, pur conoscendo bene Berto, non sapevo come avrei potuto reggere il confronto. Me la cavai con i soliti trucchetti da giornalista. De Michelis, come quasi tutti i veri editori, non ha mai scritto niente di suo. Era un regista, non gli piaceva comparire e questo stava perfettamente nella sua natura sostanzialmente schiva. Ci sono però un paio di eccezioni. Libri brevissimi scritti in un italiano straordinario, difficile da trovare oggi. Uno riguarda la storia della sua famiglia, l’altro, Gazzetta. Storia di una parola, l’ho letto proprio quest’estate. Ne viene fuori, oltre a una cultura minuziosa espressione però di un atteggiamento mentale più vasto, che, in origine, in qualsiasi lingua i ‘gazzettieri’, i ‘novellatores’ godevano fra il pubblico di una pessima fama, del tutto meritata. Allora il popolo, a differenza di oggi, non si faceva infinocchiare facilmente. Non so se questo disprezzo per i giornalisti appartenesse anche a De Michelis. Non direi perché, con la misura che gli era consueta, in quel libretto cerca anche di salvarci. Ma racconto questo per dire, senza false modestie, che fra me ‘gazzettiere’ di professione e un uomo come De Michelis correva culturalmente un abisso.

Una sera Cesare invitò me e mio figlio a casa sua, a Venezia. La sua seconda moglie, che credo sia stata determinante per la sua vita e anche per la sua salute proibendogli in modo drastico di continuare a fumare, non c’era. Fece tutto lui e assecondò anche mio figlio che per una qualche sua bizza voleva un succo di pomodoro diverso da quello che lui aveva preparato. Insomma era un uomo dai modi semplici, anche se non semplice.

Ci mancherai, mi mancherai, Cesare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2018

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Sono almeno vent’anni che l’Italia si fa uccellare dai suoi alleati, americani in testa ma anche francesi. Nel 1999 gli Stati Uniti attaccarono la Serbia per la questione del Kosovo. C’erano due ragioni sul terreno: quella degli indipendentisti albanesi che nel tempo erano diventati la maggioranza, che facevano uso del terrorismo come inevitabile per ogni resistenza che si scontri con un esercito regolare (terrorismo incoraggiato e foraggiato dagli americani) e quella della Serbia a mantenere l’integrità dei propri confini, in particolare per una regione, il Kosovo, che era considerato storicamente “la culla della patria serba” (un po’ come per noi il Piemonte). Avrebbero dovuto vedersela fra loro. Invece gli americani decisero che la ragione stava solo dalla parte dei kosovari, il torto dalla parte della Serbia di Slobodan Milosevic e bombardarono per 72 giorni una grande e colta capitale europea come Belgrado. Noi italiani (governo D’Alema) partecipammo a quell’aggressione nella poco onorevole parte del ‘palo’ (gli aerei yankee partivano da Aviano). Ora, noi con la Serbia non avevamo nessun contenzioso, ma anzi ottimi rapporti che risalivano storicamente ai primi del ‘900 quando i serbi vedevano nell’unità d’Italia, da poco conquistata, un modello per la loro (a Belgrado si pubblicava un quotidiano titolato “Piemonte”). Ruggini storiche le avevamo casomai con i fascisti croati che, travestiti da comunisti durante la dittatura di Tito, avevano ‘infoibato’ migliaia di italiani durante le convulsioni della fine della seconda guerra mondiale. Non avevamo nessuna ragione per partecipare a quell’aggressione. Neanche l’alleanza nella Nato ci costringeva, tant’è che la piccola Grecia si rifiutò. Quando a una trasmissione di Floris cui era presente Massimo D’Alema gli dissi che la guerra alla Serbia oltre che illegittima (perché l’Onu non solo non aveva dato il suo assenso ma si era detta contraria) era stata anche “cogliona” l’allora leader della sinistra non fiatò.

Il progetto americano aveva un suo senso: creare un cuneo di islamismo ‘moderato’ (Albania+Bosnia+Kosovo) nei Balcani ad uso di quello che era allora il loro grande alleato nella regione, la Turchia. Peccato che nel frattempo la Turchia quasi laica di Hataturque sia stata sostituita da quella di Erdogan che, oltre ad essere un famigerato tagliagole, laico non è affatto. In quanto a noi italiani le conseguenze sono state disastrose. Per due motivi entrambi legati al fatto che Milosevic, checché se ne sia sempre scritto in contrario, era una sorta di ‘gendarme’ stabilizzatore nei Balcani. Adesso nei Balcani, in particolare in Bosnia e Kosovo, ci sono cellule Isis poco lontane dai nostri confini, inoltre sono concresciute grandi organizzazioni criminali (droga, traffico d’armi) che vanno a concludere i loro primi affari nel Paese occidentale più vicino, l’Italia.

Nel 2011 i francesi, con l’appoggio degli americani, attaccarono la Libia di Muammar Gheddafi che finirono con un linciaggio che avrebbe fatto orrore persino ai ‘tagliagole’ dell’Isis. L’obiettivo dei francesi era chiaro: sostituire l’Italia nella posizione economica privilegiata che avevamo con la Libia del Colonnello. Sono arcinoti gli ottimi rapporti che il presidente del Consiglio italiano di allora, Silvio Berlusconi, aveva con Gheddafi. Eppure, sempre sotto la presidenza di Berlusconi, doppiamente coglione perché a quell’aggressione non voleva partecipare e invece vi partecipò, contribuimmo all’eliminazione di Gheddafi. Le conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti: la Libia è in mano a formazioni di guerriglieri, fra cui l’Isis, e di trafficanti di uomini che scaricano i migranti innanzitutto sulle coste italiane e greche.

Adesso Donald Trump ha deciso di ritirare gli Stati Uniti dal patto che, con Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina più la Germania (il noto 5 più 1) era stato concluso nel 2015 con l’Iran: gli Ayatollah rinunciavano a portare avanti il loro programma nucleare in cambio dell’eliminazione delle sanzioni economiche che da trent’anni gli erano state comminate, del tutto arbitrariamente perché l’Iran aveva firmato da tempo il Trattato di non proliferazione nucleare e aveva accettato le ispezioni dell’Aiea che avevano sempre accertato che l’arricchimento dell’uranio iraniano non aveva mai superato il 20%, aveva cioè scopi unicamente civili e medici (per arrivare all’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%).

Dal 6 agosto Trump ha proibito alle imprese americane di avere qualsiasi commercio con l’Iran. E fin qui sta nel suo. Ma ha anche minacciato le imprese di altri paesi: “Chi concluderà affari con l’Iran, non ne farà più con gli Stati Uniti. O il mercato iraniano o quello statunitense, cinquanta volte più grande”. La misura è diretta in realtà contro l’Europa, perché è molto dubbio che possa essere applicata alla Cina con cui gli Stati Uniti sono indebitatissimi. Le aziende italiane hanno in sospeso circa 20 miliardi di euro in investimenti diretti con l’Iran: ci sono le Ferrovie dello Stato, Enel, Saipem, Danieli, Fincantieri, Pessina, Italtel, Belleli, Marcegaglia, Fata spa e Sistema Moda Italia. Non si vede perché l’Italia dovrebbe stare a questo diktat imperiale. O meglio lo si vede benissimo: perché l’Italia da sola non può nulla contro un colosso come gli Stati Uniti. Solo un’Europa compatta (con buona pace del ‘sovranista’ Salvini) può rispondere, bloccando le importazioni americane nel Vecchio Continente che ha una popolazione di 500 milioni di abitanti (gli americani sono 325 milioni) in maggior parte forti consumatori. Un’operazione molto difficile perché è dalla fine della seconda guerra mondiale che gli americani tengono in stato di minorità l’Europa, militarmente (in Germania ci sono 80 basi militari Usa, molte nucleari, in Italia 60, alcune nucleari), politicamente, economicamente e alla fine anche culturalmente con i loro film del cazzo. Possiamo solo contare su Angela Merkel, l’unico uomo di Stato europeo in grado di tener testa a Donald Trump e alla prepotenza americana. Forza Angela!

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2018