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La mattina delle elezioni mi ha telefonato Beppe Grillo, preoccupatissimo: “ Il Sì vincerà col 70 percento”. Credo che il vecchio marpione, e belinone, parlasse per scaramanzia e anche per scaricare una comprensibile tensione su qualcuno che è suo amico e che vede con favore l’ascesa dei Cinque Stelle ma non appartiene a nessun partito e quindi nemmeno al suo (sul Fatto del 17 novembre avevo scritto un pezzo in cui, benché astensionista cronico, mi dichiaravo per il No. Ma a parte questo endorsement, per quel che vale, a votare non ci sono andato perché la mia religione non me lo consente. Non voglio quindi appropriarmi di una vittoria che è mia solo a metà).

Certo che la sconfitta di Matteo Renzi, in quelle proporzioni, ha dello sbalorditivo. Il premier aveva usato e abusato del suo potere. Già il quesito referendario era suggestivo. Se il cittadino vede scritto sulla scheda che il Sì porta alla “riduzione dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” non è facile che capisca quello che ha poi invece capito: e cioè che si trattava di trabocchetti. Renzi, sdoppiandosi furbescamente ma illecitamente nelle parti di premier e di segretario del Pd, aveva scritto una lettera a ciascuno degli italiani all’estero che conteneva una chiara indicazione per il Sì. Per più di un mese si è calato nelle vene, sue e nostre, un’overdose di apparizioni e partecipazioni su tutte le Tv nazionali, le radio, i più importanti giornali. Sotto elezione ha distribuito mancette a destra e a manca. Ma la maggioranza dei cittadini non c’è cascata.

Credo che Matteo Renzi abbia pagato anche, e in misura rilevante, la sua sbruffoneria, il suo atteggiamento guascone, il delirio di onnipotenza che lo aveva preso dopo l’ubbriacatura delle elezioni europee, insomma, per dirla con i Greci, quell’hybris che provoca la fzonos zeon, l’invidia degli Dei, e l’inevitabile punizione. Ma il No degli italiani, come la vittoria di Donald Trump, si inserisce in una rivolta popolare in Occidente (i cosiddetti ‘populismi’, anche se bisogna fare qualche distinguo) contro gli establishment che fanno il bello e cattivo tempo da decenni.

Ma adesso rendiamo allo sconfitto l’onore delle armi. Aveva detto che in caso della vittoria del No si sarebbe dimesso e lo ha fatto, in un Paese dove non si dimette mai nessuno, neanche per cariche molto meno prestigiose. E’ l’unica delle sue promesse che ha mantenuto, ma è importante. In politica estera si è portato bene. Dopo una prima esibizione muscolare a Erbil ha capito che non era il caso che l’Italia si facesse vedere troppo attiva nel caos mediorientale, seguendo la linea di Angela Merkel, e noi di attentati jihadisti non ne abbiamo avuti. Non credo che abbia agito per viltà ma perché è dovere di un Premier salvaguardare la vita dei suoi cittadini e di non metterli in pericolo se non ce n’è un’assoluta necessità.

Nei mille giorni del suo governo si è speso moltissimo e in soli tre anni è invecchiato di colpo. Quindi, caro Matteo, adesso vai a riposarti per un po’, ma ritorna, con atteggiamento diverso, modesto e meno fanfarone, perché il Paese ha bisogno anche delle tue energie che non sono, e non sono state, solo negative.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2016

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Intervista di Maurizio Caverzan

Dalle finestre della casa di Massimo Fini si ammirano le torri della zona ex Varesine di Milano. «Una bella vista», butto lì accorgendomi subito di aver fatto una gaffe: «Una vista che non mi fa stare tanto tranquillo», è la replica, «con questo grattacielo a banana che ha tutta l’aria di venirmi addosso…». L’antimodernismo di Fini è anche architettonico e urbanistico. E in effetti, vista da qui, l’eccentrica curva della Torre Diamante che si allarga dall’asse delle fondamenta può risultare un tantino incombente. Per recuperare esterno il mio compiacimento di trovarmi lì a intervistare lo scrittore che molti dei direttori per i quali ho lavorato avrebbero voluto tra le firme dei loro giornali. «È vero, Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri e anche Mario Giordano mi hanno chiesto più volte di scrivere, ma ho sempre declinato (per la presunta incombenza dell’editore Silvio Berlusconi ndr). Forse a causa del fatto che sono più individualisti e liberi, i giornali di destra sono più attenti al mio lavoro. Fosse stato per L’Espresso e La Repubblica non sarei esistito. Non tanto per un fatto strettamente ideologico, quanto perché sono delle confraternite, enclavi impenetrabili».

A differenza del Fatto quotidiano per il quale scrivi?

«Al Fatto ho un rapporto più che ottimo con Marco Travaglio, il quale mantiene un atteggiamento di grande riguardo verso di me. Chissà quanti pezzi non condivide tra quelli che gli mando, ma li pubblica ugualmente da vero liberale montanelliano».

E tu condividi tutto del Fatto?

«Travaglio ha gettato tutto il giornale a corpo morto sulla linea del No, mentre io non vado a votare. Ho anche perso la scheda elettorale».

Ma sull’argomento hai scritto.

«Ho scritto che le costituzioni risentono del periodo nel quale vengono fatte. La nostra voleva evitare il ritorno dell’uomo forte. Ora però servono decisioni rapide. Per questa ragione ritengo che il Senato andrebbe abolito del tutto. Ma per farlo serve un dibattito approfondito, non un quesìto referendario secco».

Se avessi votato il tuo sarebbe stato un No?

«Certo. Considerando anche il fatto che prima si doveva riformare la legge elettorale».

Anche se si è sempre rifiutato di scrivere per Il Giornale, dove ho lavorato, Fini lo ha a lungo frequentato per motivi apparentemente più banali, in realtà più sostanziali. Amico e compagno di giochi di carte di Massimo Bertarelli, critico cinematografico e firma degli Spettacoli, veniva in redazione per vedere insieme le partite del Manchester United dove giocava il suo idolo, il campione olandese Ruud van Nilstelrooij. Il fatto me lo rese simpatico, almeno quanto il temperamento di non allineato, insofferente verso tutte le parole d’ordine come documenta la sua produzione saggistica, ora raccolta nell’opera omnia pubblicata da Marsilio sotto l’eloquente titolo La modernità di un antimoderno. Intervistarlo è una soddisfazione perché si racconta con generosità, senza remore e tatticismi.

Un anno e mezzo fa annunciasti che, essendo quasi cieco, avresti smesso di scrivere e di collaborare con i giornali. Ma Travaglio ti ha convinto a continuare. Come c’è riuscito?

«Ha fatto intervenire alcune persone, anche Renzo Arbore che è un mio lettore fin dai tempi dell’Europeo. Ed Ermanno Olmi, pure lui un’ottima conoscenza».

Olmi se ne intende di rinascite produttive. Dopo aver detto che Il villaggio di cartone sarebbe stato il suo ultimo film, per fortuna sua e nostra ha diretto Torneranno i prati. È stanchezza o un modo per farsi pregare?

«Io ho cominciato dal primo libro a dire che era l’ultimo. In La ragione aveva torto?, che è del 1985, mi sembrava di aver detto tutto quello che avevo da dire. Dopo ne ho scritti altri 17. Se è capitato anche a giganti come a Lev Tolstoi o Thomas Mann di pubblicare un libro di troppo, lo si può perdonare anche a noi piccini».

Si decide di smettere, ma poi…

«Nel mio caso la malattia agli occhi mi ha precluso il giornalismo di reportage come me l’aveva insegnato Nino Nutrizio. Si usano i piedi per andare nei posti, poi si ascolta, si annusa, si parla. Non potendo viaggiare nello spazio alla scoperta di qualche dettaglio che riveli il tutto di una storia, ho iniziato a viaggiare nel tempo e con la mente. Scrivo commenti, attingo dal mio istinto speculativo».

Com’è la tua giornata?

«Al mattino, se un argomento m’ispira, scrivo, grazie a una segretaria che mi aiuta. Al pomeriggio spesso vengono a trovarmi dei lettori, colleghi giovani. Qualcuno gentile mi legge dei libri. Ma così sono passato da 100 a sei o sette l’anno. La sera esco con un’amica o altri amici».

Vedo solo macchine per scrivere qui.

«Il computer ce l’ho in studio, ma non ho mai imparato a usarlo. Eravamo in tre, con Montanelli: adesso siamo rimasti solo io e Feltri a scrivere a macchina».

Chi è stato per te Indro Montanelli?

«Un uomo di grande stile non solo nel vestire, ma nel modo di essere. Come le persone che hanno piena coscienza del proprio talento, non te lo faceva cadere dall’alto. Nel Novanta raccolsi i miei scritti polemici in un libro che s’intitolava Il conformista e la Mondadori disse che ci voleva la sua prefazione. Così mi presentai da lui, tremante: “È peggio di quel che pensi, non ti chiedo una recensione ma la prefazione”. Non mi fece nemmeno finire: “Te la devo”, mi disse anche se non mi doveva nulla. In tre giorni ebbi quella prefazione che mi ritraeva alla perfezione e che conservo come una medaglia».

Quali sono le tue consolazioni?

«Che non ho ancora raggiunto la pace dei sensi e quindi ogni tanto mi capita di scopare. Poi seguo il calcio, lo sport della nostra generazione, il tennis era da ricchi, il basket importato dall’America. Da ragazzo giocavo libero, avevo senso della posizione, riflessi, velocità e mi esaltavo nei salvataggi estremi. Dalla volta in cui, mentre giocava il Torino la mia ex moglie entrò in sala e beccamo gol nel derby, oltre a mio figlio qui non entra più nessuno. Dopo van Nilstelrooij, seguo Andrés Iniesta, signore in campo e fuori. In Spagna il calcio si vive in modo più festoso che da noi. Sembra un evento economico, fatto per la tv, mentre è nato per lo stadio».

Che cosa vuol dire essere antimoderni?

«Qualcosa di molto serio. Il centro del sistema occidentale sono l’economia e la tecnologia. L’uomo è un’appendice. La Rivoluzione industriale ha innescato un processo irreversibile che ha trasformato la persona in consumatore. Nel 1988 Bill Clinton disse che “la mondializzazione è un fatto e non una scelta politica”. E Fidel Castro confermò: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. Non abbiamo chance».

Lo dobbiamo all’illuminismo?

«Dall’illuminismo in poi la dea ragione ha preteso di organizzare tutto. Mentre l’uomo ha bisogno del mistero, come fa dire Fëdor Dostoevskij al vecchio cardinale di Siviglia nella Leggenda del Grande Inquisitore. Se stai in una stanza vuota illuminata in tutti i suoi recessi, senza più niente da scoprire, finisce che ti spari. La modernità ha azzerato l’istinto. Ti faccio un esempio: quando c’è stata la tragedia dello Tsunami nelle isole civilizzate sono tutti morti, tranne gli indigeni delle tribù Andemani. Un attimo prima il mare era calmo e piatto, ma loro avevano visto antilopi e bufali agitarsi. Così si sono allontanati dalla costa, salvandosi».

Non vorrai dire che dobbiamo tornare alle tribù?

«Voglio dire che c’è una parte istintuale nell’uomo che non va demonizzata. Illuministi e post illuministi vorrebbero eliminare ogni forma di aggressività e di violenza che invece sono anche un’espressione di vitalità. In alcune società, che noi consideriamo arretrate, sopravvivono sistemi che riescono a canalizzare l’aggressività, come certe rappresentazioni della guerra finta, le feste orgiastiche, il carnevale. Anche lo sport può avere questa facoltà. Da noi è tutto scientifico e programmato, ma poi la cronaca è piena dei “delitti delle villette a schiera”, come li chiama Guido Ceronetti».

Dopo che l’economia ci ha trasformato in consumatori, la tecnologia ci sta trasformando in robot?

«La tecnologia doveva servire per farci lavorare meno, invece ci espelle dal ciclo produttivo costringendoci ad accontentarci di lavori peggiori. Nel frattempo esplode il carrierismo. Ludwig von Mises, economista austricaco, sostiene che il sistema occidentale è fondato sull’invidia. La combinazione economia più tecnologia ha instaurato questo modello paranoico: non produciamo per consumare, ma consumiamo per produrre».

Critichi l’illuminismo, ma il filosofo del Movimento Cinque Stelle per il quale simpatizzi è Jean Jacques Rousseau.

«Rousseau è un illuminista atipico, che aveva anticipato le derive della società dello spettacolo. I grillini hanno il merito di superare categorie come destra e sinistra e liberisti e marxisti, vecchie di due secoli. Poi certo, Grillo è un casinista, ma con la battaglia sul reddito di cittadinanza sta riuscendo a sostituire la centralità del lavoro con quella del tempo. Per bloccare la crescita di un movimento eterogeneo il sistema è pronto a compattarsi. Basta vedere cosa sta accadendo con la giunta di Virginia Raggi accusata di colpe da imputare a chi l’ha preceduta».

Cosa significa che «il successo è oggettivamente conquistabile, ma psicologicamente irraggiungibile»?

«Significa che è importante inseguire dei sogni, pericoloso è raggiungerli. Perché una volta raggiunti ti accorgi che non colmano le tue aspettative. C’è una discrasia tra ciò che ti aspetti e ciò che conquisti. La Costituzione americana si è data come scopo il diritto alla felicità, ma così ha condannato l’uomo all’infelicità».

Eppure tutto il sistema occidentale onora il dio successo.

«Serve per tenere in piedi questo modello paranoico. Il vizio oscuro dell’Occidente è pensare che la propria cultura sia migliore delle altre. In Oriente non hanno il mito del successo. Oltre che dalla cultura giudaico-cristiana, veniamo dalla civiltà greca che postulava il rispetto dell’altro da sé e non voleva imporre la sua tradizione ai persiani. Invece abbiamo perso il senso del limite».

Parlando di occidente e delle altre culture, cosa pensi del fondamentalismo islamico e dell’Isis?

«Più dell’Isis temo la scienza tecnologicamente applicata. L’insensato e progressivo allontanarsi dalla natura che, se elabora e afferma una legge, lo fa attraverso processi secolari e millenari. La scienza e la tecnologia vogliono spingere oltre la frontiera e dominare tutto in poco tempo. Vogliono stabilire i confini dell’anima, con esiti grotteschi come stiamo vedendo, per esempio con la pratica dell’ibernazione. Nella civiltà contadina, grazie alla religione, la morte era metabolizzata in una dimensione metafisica. Oggi si vuole risolverla nella fisica».

È l’uomo che vuole sostituirsi a Dio?

«Nella voce “Galileo” del Ribelle dalla A alla Z, facendo uno sforzo su me stesso, sostengo che Bellarmino aveva ragione quando disse a Galileo: “Fai pure i tuoi studi come ipotesi, ma se la certezza matematica vuole misurare tutto porterà solo guai”. Perciò, alla lunga, pur avendo ragione nel merito, Galileo aveva torto, e Bellarmino, avendo torto, aveva ragione».

Perché in un’altra voce del dizionario del Ribelle assesti una sberla a Dio?

«Dio ha creato una creatura tragica, l’unico essere vivente consapevole della sua fine. Le religioni esistono per lenire l’angoscia della morte. Il rumeno Mircea Eliade, il più grande studioso del sacro, ha scoperto che esiste un solo popolo che non conosce né Dio né culti, fatto che non gli ha impedito di vivere felice: e sono i famosi Andemani di cui ti parlavo prima, dediti a feste e scherzi osceni. Il progressismo obbligatorio ci ha imposto la mitologia del futuro, un tempo che definisco inesistente. Un miraggio che genera una rincorsa affannosa e impotente come quella dei levrieri dei cinodromi che inseguono un’irraggiungibile lepre di stoffa».

Roberto D’Agostino ha messo come distico del suo programma tv una frase del saggio di Star Wars: «Il futuro è». Cioè, il futuro è presente grazie alla tecnologia e al web che stanno generando un nuovo Rinascimento, paragonabile a quello iniziato con la scoperta della stampa dopo il Medioevo.

«Non nego che la tecnologia porti dei vantaggi. Ma porta più danni, il primo dei quali è il distacco dalla propria interiorità. Per dialogare con un tizio che sta in Giappone grazie al web finiamo per non conoscere il vicino di casa. Tutto questo lo dico con umiltà. Pongo dei dubbi, senza avere certezze come gli illuministi che critico».

Il Ribelle ha un porto in cui approdare e trovare riposo?

«Il Ribelle è condannato alla solitudine. Attenzione, non è un rivoluzionario, ma solo uno che vuole tener fede alla promessa fattasi da ragazzo di dipendere solo da se stesso e non dal mondo che lo circonda. C’è un passo della Nascita della tragedia in cui Fredrich Nietzsche parla degli “animali intelligenti che inventarono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia universale”. Ma fu breve perché dopo poco “gli animali intelligenti dovettero morire”. Noi che ci diamo tanta importanza siamo un attimo dell’universo. Detto questo, dobbiamo vivere il nostro attimo nel modo migliore perché, fermandoci a Nietzsche, dovremmo spararci».

La radice esistenziale del Ribelle è l’orgoglio?

«Un orgoglio luciferino. In Paradiso perduto John Milton ha scritto: “Meglio essere primi agli inferi che servi in cielo”. Forse il limite principale del ribelle è la mancanza di duttilità».

Anche questo orgoglio può essere sostituirsi a Dio?

«Con Baudelaire rispondo che l’unica scusante di Dio è di non esistere».

Però se ne parla parecchio. Non è che ti fa obiezione la figura di Gesù Cristo?

«Mi piace molto il Cristo umano, non quello che si crede Figlio di Dio. Per esempio, ho amato molto Jesus Christ Superstar che aveva per protagonista un Cristo dubbioso, culminante nel momento in cui sulla croce si rivolge al Padre chiedendo: “Dio mio perché mi hai abbandonato?”».

Hai avuto don Luigi Giussani come professore, che ricordo ne hai?

«Come di un uomo di grande intelligenza. Eppure lo considero un corruttore: non si può mettere tanta pressione e tanto carisma nel confrontarsi con ragazzi di 15 o 16 anni. La sua figura faceva il paio con il professore di storia, un marxista per il quale la rivolta ungherese era un rigurgito nazifascista».

Almeno avevano qualcosa da proporre ai giovani. Oggi c’è qualcosa o qualcuno che ti dà speranza?

«Me l’ha data per un po’ la nuova destra di Alain de Benoist, Marcello Veneziani, Stenio Solinas. Poi si sono un po’ persi».

Perché in Italia la destra è spesso volgare e impresentabile?

«Una volta Franco Fortini mi disse che quella di destra è una grande cultura. Sono i suoi rappresentanti politici a non averne. Quando li ascolto in tv mi chiedo se qualcuno abbia mai letto una pagina di Nietzsche. Detto ciò, non è che la sinistra sia meglio, come continua a credere. Il suo complesso di superiorità poteva avere qualche motivazione all’epoca di Giorgio Amendola. Non certo con le mezze figure di oggi».

Una consolazione è anche la pubblicazione di La modernità di un antimoderno?

«Se l’antimodernità ha un senso, forse tra qualche anno questo libro potrà diventare un classico. Diciamo che è un messaggio in bottiglia lanciato verso il futuro».

Allora esiste…

 

La Verità, 5 dicembre 2016

 


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“Fidel Castro è un uomo affascinante” mi disse una volta Susanna Agnelli, certamente non sospettabile di filocomunismo, che lo aveva incontrato a Cuba quando era ministro degli Esteri. E che lo fosse, affascinante, nessuno, nemmeno i suoi più irriducibili detrattori, può negarlo. Naturalmente questo non può assolverlo dalle sue colpe e dai suoi crimini durante i quasi cinquant’anni della dittatura e puntualmente documentati da quel grande inviato che è Fausto Biloslavo, molto filoamericano, forse troppo, che si rifà ai dati forniti dal Cuba Archive Project: 9.240 le “morti politiche”, 5.600 i cubani giustiziati, 1.200 quelli eliminati nelle esecuzioni extragiudiziarie, 8.616 i casi di detenzione arbitraria documentati nel 2015 e 2.500 nei primi due mesi di quest’anno. Poi c’è la repressione delle libertà individuali e in particolare di quella di espressione di cui hanno fatto le spese molti intellettuali cubani. Tutti i giornali della destra, nei giorni della morte di Fidel, hanno focalizzato l’obbiettivo su questi dati incontrovertibili. Peraltro non molto lontani dagli stessi crimini commessi dal generale egiziano Abd al-Fattah al-Sisi in soli tre anni e mezzo da quando prese il potere nel luglio del 2013 con un golpe militare (e un golpe si differenzia da una rivoluzione, perché questa ha bisogno dell’appoggio della popolazione o di buona parte di essa). Ma sui crimini di al-Sisi la destra e anche la sinistra (ricorderete la dichiarazione di Matteo Renzi che lo definiva “un grande statista”) non ha mai alzato un laio se non per il caso di Giulio Regeni che è solo uno dei circa 2.500 desaparecidos nell’era al-Sisi. Ma, si sa, l’Egitto è un alleato degli americani, come americano fu il sostegno al dittatore Pinochet e ai tanti altri dittatori sudamericani che gli tornavan comodi.

E’ stata poi pudicamente sottaciuta la situazione di Cuba prima che la Revoluciòn spazzasse via il regime di Fulgencio Batista che non era meno sanguinario di quanto lo sarà poi quello di Castro e che aveva fatto di Cuba un bordello e un Grande Casinò ad uso dei ricchi statunitensi. E allora si capisce facilmente perché poche centinaia di castristi siano riusciti a rovesciare in poco tempo il regime di Batista per ridare all’isola e ai suoi abitanti la propria identità.

Pochissimo invece si è parlato in questi giorni di Ernesto Che Guevara, il ‘numero due’ della rivoluzione cubana e il primo sul campo di battaglia. Di questo medico argentino, malato di asma che andò a Cuba per combattere per una causa non sua e poi, dopo pochissimi anni di potere come ministro dell’Industria e dell’Economia, vista l’aria che tirava nonostante qualche primo successo sul piano sociale che poi Castro rafforzerà con grande fatica a causa dell’embargo americano imposto all’isola ma grazie anche all’appoggio dell’Unione Sovietica, andrà a combattere in Bolivia per un’altra causa non sua e vi troverà, nel 1967, la morte in battaglia.

Il mito di Guevara è stato negli anni altalenante. Per quel che mi riguarda la prima volta che seppi di Guevara fu nel ’57 o nel ’58, non ricordo bene. A quell’epoca Guevara non era ancora un mito della sinistra tanto che il mio ‘incontro’ con il “Che” avvenne sulle pagine di Gente, il settimanale di Edilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un’immagine di Guevara a torso nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell’uomo. Nelle didascalie si rifaceva la storia di questo rivoluzionario che combatteva per l’ideale marxista dell’internazionalismo proletario. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell’ideale” in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora completamente integrato, ‘globale’, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra. Inoltre la contestazione giovanile era di là da venire.

Il ’68 cambiò completamente la prospettiva. Guevara, che nel frattempo era andato a morire in Bolivia, divenne il simbolo stesso della rivoluzione. Più di Lenin, più di Mao, più di Stalin, Ernesto Guevara, diventato definitivamente il “Che”, fu il mito del Sessantotto, almeno nella sua componente libertaria. Guevara invece piaceva molto meno ai comunisti ortodossi di casa nostra. I comunisti rimproveravano a Guevara una certa vaghezza ideologica (mi ricordo in proposito degli sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola) e, soprattutto, il fatto che avesse abbandonato un potere che aveva appena conquistato. Al positivismo marxista la romantica rinuncia di Guevara pareva inconcepibile, blasfema, un segno di debolezza di carattere. Senza contare poi che Guevara, con il suo passare da una rivoluzione all’altra (ne aveva tentata una anche in Guatemala) sembrava incarnare troppo da vicino quella “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzky. E Trotzky allora era tabù per i comunisti che, nonostante il rapporto Cruscev del ’56, rimanevano profondamente, intimamente stalinisti.

Nel tempo il mito di Guevara si è andato perdendo a sinistra. I comunisti hanno continuato a guardarlo, e non a torto dal loro punto di vista, con diffidenza. I contestatori invecchiati, inseritisi nel frattempo nel sistema e diventati manager, imprenditori, direttori di giornali, radical chic, lo hanno relegato fra le loro debolezze giovanili.

Nel ventennale della sua morte Guevara fu oggetto di un inaspettato revival da parte della destra o, per meglio dire, della ‘nuova destra’. Inaspettato, ma non ingiustificato. Solo in superficie infatti Guevara è un uomo di sinistra. In realtà, col suo ardore per l’azione, è un dannunziano, un bayroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della rivoluzione. E’ stato l’ultima incarnazione del mito dell’eroe romantico.

Oggi Guevara, a parte le sciocchezze dei gadget, è un uomo quasi dimenticato, tanto che proprio in questi giorni di celebrazioni o demonizzazioni di Castro e della Revoluciòn è stato ricordato solo di sfuggita. Ma per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza, e lo rimaniamo, il “Che” è un mito che non rinneghiamo. Perché fosse di sinistra o di destra, o tutte e due le cose, o nessuna, il “Che” rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal cinismo, dal realismo, dalla forza del denaro, di un uomo che non solo ha combattuto il potere ma lo ha disprezzato al punto tale da abbandonarlo per inseguire, pagando con la vita, nient’altro che un sogno.

Per questo in questi giorni preferiamo ricordare la rivoluzione cubana non nel nome di Castro ma nel nome del “Che”. “Hasta la vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016