Che i musulmani integralisti siano dei sessuofobi, con la loro ossessione per le parti scoperte, anche le più innocenti, del corpo femminile, è fuori discussione. Ma gli americani non sono da meno, la loro sessuofobia è speculare a quella musulmana anche se agita in modo diverso. Tutta, o quasi, la campagna democratica contro Donald Trump è ruotata attorno ad argomenti sessuali. Nel 2005, cioè undici anni fa, in un colloquio su un autobus, registrato, con un personaggio televisivo, Billy Bush, il tycoon si lasciò andare a dichiarazioni sessiste. E quando, per difendersi da questa gravissima accusa, disse che erano “chiacchiere da spogliatoio” si sono indignati i calciatori in difesa dell’onore femminista degli spogliatoi (chiunque sia stato in uno spogliatoio maschile sa che cosa si dice delle donne). Tutta, o quasi, la campagna repubblicana contro Hillary Clinton si è incentrata sulle amanti, vere o presunte, del marito che già andò sotto impeachment perché aveva fornicato con una stagista. Di programmi sia di politica interna che di politica estera, determinanti questi ultimi per il futuro non solo degli Stati Uniti ma dell’intero Occidente (Isis, rapporti col mondo musulmano e con le culture ‘altre’) si è parlato pochissimo e comunque anche quel poco è stato sommerso dalle ‘chiacchiere da spogliatoio’. Trump è stato anche accusato di molestie sessuali (potevano mancare?) nei confronti di nove donne scovate al momento opportuno. Si è difeso, suscitando un ulteriore scandalo, dicendo che erano troppo brutte perché gli venisse voglia di insidiarle. E’ da un mese che la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti va avanti su questo tono.
Gli americani sembrano conciati peggio di noi italiani. Premesso che, come dice sarcasticamente Max Weber, “i programmi di governo hanno un significato quasi puramente fraseologico” (Il lavoro intellettuale come professione) da noi prima delle elezioni di programmi si parla e non delle attitudini sessuali di questo o quel candidato (sotto elezioni nemmeno il comportamento decisamente machista di Silvio Berlusconi è stato usato come argomento contro di lui).
Ma a parte tutto questo fa venire i brividi l’antropologia non solo dei candidati ma delle folle urlanti e gridolinanti che si assiepano ai loro comizi fra cui ci sono anche molti personaggi che faranno poi parte del Congresso. Sembra di essere tornati, ammesso che se ne sia mai usciti, alle impressioni che Alexis de Tocqueville, uno dei padri della liberal democrazia, trasse dal suo primo viaggio negli Stati Uniti nel 1831: “Al mio arrivo negli Stati Uniti fui molto sorpreso fino a qual punto il merito…fosse scarso nei governanti… Quando voi entrate nell’aula dei rappresentanti a Washington restate colpiti dall’aspetto volgare di questa grande assemblea. Invano voi cercate un uomo celebre, quasi tutti i suoi membri sono oscuri personaggi il cui nome non vi dice nulla” (La democrazia in America).
Il presidente degli Stati Uniti (non solo quest’ultimo, tutti) finisce regolarmente e ritualmente ogni suo discorso pubblico con la frase “Dio protegga l’America”. E perché non il Burkina Faso? Comunque volendo riprendere questa formula, vagamente blasfema, noi potremmo dire: “Dio protegga l’Europa”. Dagli americani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2016
Nel vecchio Codice di Procedura penale di Alfredo Rocco, che sarà stato anche un fascista ma era un giurista di prim’ordine, riaggiornato nel dopoguerra per adeguarlo alle esigenze di una democrazia, esisteva il segreto istruttorio (e su questo Codice ho studiato laureandomi proprio sul tema che è in discussione in questi giorni con una tesi su “Libertà di stampa e segreto istruttorio”).
Il segreto istruttorio, finché è esistito, prima della sciagurata riforma di Gian Domenico Pisapia del 1988, divenuta legge, aveva due funzioni. 1. Tutelare le indagini da possibili inquinamenti. 2. Tutelare l’onorabilità delle persone coinvolte a qualsiasi titolo in un procedimento penale. Nella fase preliminare e ovviamente incerta delle indagini, quelle che vengono condotte dai Pubblici ministeri, possono infatti incappare soggetti che non verranno poi rinviati a giudizio o addirittura persone che nell’inchiesta figurano solo marginalmente (esemplare è rimasta, almeno nella mia memoria, nella Tangentopoli 2, il cosiddetto ‘scandalo delle Ferrovie’, la storia della figlia di Necci che, a quanto pare, si era offerta a Chicchi Pacini Battaglia, un fatto che con le indagini non c’entrava nulla). Al vaglio del Giudice delle indagini preliminari (Gip o Gup) i Pm portano solo i materiali che ritengono utili al processo qualora il Gip o Gup decida di avviarlo. Il Gip o Gup può archiviare la pratica ritenendo gli indizi raccolti dai Pubblici ministeri non sufficienti o rinviare a giudizio. Solo in questo secondo caso il processo diventa pubblico. Perché in un regime democratico l’istruttoria è segreta, o può esserlo, ma il dibattimento è pubblico. Nei regimi totalitari è segreto anche il dibattimento.
Se questo regime fosse stato in vigore Marino e Cota non sarebbero incorsi nella stritolante gogna mediatica che ne ha stroncato la carriera perché delle indagini non si sarebbe saputo nulla a cominciare dagli interessati (e questo vale, o valeva, per qualsiasi cittadino italiano, non necessariamente per un uomo politico). La debolezza del sistema-Rocco era che le pene pecuniarie erano irrisorie, per cui i giornali, e soprattutto i grandi giornali che se lo potevano permettere, preferivano pagare la multa e pubblicare. Ma il principio era sacrosanto.
Con la riforma Pisapia, un ibrido fra sistema inquisitorio e sistema accusatorio, il segreto è stato di fatto abolito tranne che per casi particolari. I Pm devono depositare gli atti delle loro indagini, che sono messi a disposizione degli avvocati difensori, ma anche di chiunque abbia interesse o solo voglia di consultarli, a cominciare dai giornalisti. E quindi anche i soggetti che non verranno poi rinviati a giudizio vengono massacrati dalla stampa, in misura maggiore o minore a seconda delle posizioni che occupano nelle istituzioni o della parte politica cui sono legati.
I giornalisti, che sono una casta come tante altre, non migliore di tante altre, si sono sempre opposti al ripristino del segreto istruttorio. Questo rende molto più facile il loro lavoro, ma oltre a colpire in modo indelebile cittadini che risulteranno poi estranei ai fatti, toglie loro la voglia di fare inchieste per proprio conto.
I giornali della destra, memori dell’esperienza di Silvio Berlusconi, si sono scatenati contro la Magistratura (emblematico è un titolo de Il Giornale del 9.10: “La malagiustizia show ci costa 15 miliardi. Più di una manovra”). Ma chi ragiona in questo modo non tiene conto che le funzioni del Pm e quella del Giudice sono profondamente diverse. Il Pm indaga in una area di necessaria incertezza, il Giudice vaglia gli elementi da lui raccolti secondo criteri di imparzialità e di ‘terzietà’ fra Pubblica accusa e difesa. Non è responsabilità dei Pm se sono obbligati a depositare per legge atti dell’Istruttoria che, come dicevo, sono necessariamente incerti. Il diniego del Giudice di rinviare a giudizio i soggetti indagati dalla Pubblica accusa fa parte del nostro sistema di garanzie e non vuol dire affatto che i Pubblici ministeri abbiano agito in malafede, “con colpa grave o dolo” (in questo caso devono essere sanzionati). Pm e Gip si trovano in un letto di Procuste: se il Gip accetta la tesi del Pm si dice che si è appiattito sulle sue posizioni, se le rigetta si dice che il Pm è un mascalzone.
Il ripristino del segreto istruttorio, oltre a tutelare l’onorabilità dei soggetti coinvolti e non ancora rinviati a giudizio, toglierebbe ai Pubblici ministeri quel desiderio di farsi pubblicità di cui spesso vengono accusati.
Il sistema è quindi concettualmente semplice: segreto fino alla fase del rinvio a giudizio, dibattimento pubblico se c’è stato un rinvio, giudizio di primo grado, Appello, Cassazione. Ma sono i giornalisti i primi a opporsi. E hanno buon gioco perché da noi le istruttorie possono durare anni e quindi il segreto potrebbe essere una mordacchia inaccettabile alla libertà di stampa. In Gran Bretagna se c’è un imputato detenuto le istruttorie durano, mediamente, dai 28 ai 32 giorni a seconda della composizione del Giurì cioè della gravità del reato. Quindi il detenuto (se c’è un detenuto) si fa un mese di galera che è un’esperienza sicuramente sgradevole, ma se risulta innocente vede ripristinata la propria onorabilità in tempi ragionevoli. Londra è solo a un’ora e mezza di volo ma siamo in un altro mondo e in un’altra cultura, giuridica e mediatica.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2016
In una conferenza all’Umanitaria di qualche giorno fa l’ex ambasciatore Sergio Romano ha dichiarato: “Forse ciò che l’Occidente dovrebbe fare rispetto al Medio Oriente è semplicemente voltarsi dall’altra parte. Lasciare che risolvano i loro problemi da soli. Ma non possiamo. Perché abbiamo educato le nostre opinioni pubbliche a pensare che noi siamo i buoni e che le democrazie hanno il diritto-dovere di esportare se stesse. Non è così”. Siamo lieti che un commentatore così autorevole come Sergio Romano sia giunto, sia pur un po’ faticosamente, alle conclusioni che io avevo tratto già nel 2002 con la pubblicazione de Il vizio oscuro dell’Occidente. Il ‘vizio’ dell’Occidente, quando in buonafede, è quello di credersi il Bene assoluto, di essere una ‘cultura superiore’, e di avere quindi come dice Romano, il “diritto-dovere” di intromettersi in culture diverse dalle nostre portandovi le buone maniere, i nostri valori, le nostre istituzioni. E ciò non vale solo per il Medio Oriente ma per l’intero orbe terracqueo dove siamo presenti, a volte solo con la nostra economia assassina, altre in armi.
Tutti gli interventi occidentali, ma soprattutto americani (e in parte francesi) dell’ultimo quarto di secolo si sono risolti in un massacro delle popolazioni che dicevamo di voler aiutare, senza con ciò risolvere i loro problemi ma anzi aggravandoli. Inoltre si sono rivelati un boomerang.
1. Prima guerra del Golfo del 1990. Il pretesto era l’aggressione di Saddam Hussein al Kuwait, Stato peraltro farlocco inventato nel 1960 ad uso degli interessi petroliferi americani. Risultato: circa 158.000 civili iracheni morti sotto le ‘bombe intelligenti’ e i ‘missili chirurgici’ degli Usa senza con questo togliere di mezzo il dittatore lasciato in sella in funzione antiraniana e anticurda.
2. Aggressione alla Serbia paracomunista ma ortodossa di Slobodan Milosevic per il Kosovo (5.500 morti di cui una parte kosovari). Risultato: aver favorito la componente islamica dei Balcani dove ora sono incistate cellule dell’Isis a due passi da noi.
3. Guerra all’Afghanistan del 2001 che col governo talebano aveva trovato sei anni di pace dopo anni di guerre civili (200.000 morti circa). Risultato: in Afghanistan c’è da quattordici anni una guerra civile fra le truppe ‘regolari’ del governo di Ashraf Ghani sostenuto dagli Stati Uniti e i Talebani. Inoltre nel Paese si è infiltrato l’Isis.
4. Guerra all’Iraq del 2003 per eliminare Saddam Hussein. Risultato, oltre a 650.000 morti, una guerra civile fra sunniti e sciiti che ha creato poi lo spazio per la nascita dell’Isis.
5. Guerra alla Somalia del 2006/2007 dove gli Shebab, a somiglianza di ciò che era avvenuto in Afghanistan, avevano riportato un po’ di pace e di ordine, facendo battere in ritirata i ‘signori della guerra’ locali. Risultato, a parte un numero di morti imprecisato, in Somalia c’è oggi una guerra civile fra gli Shebab e il governo fantoccio di Mogadiscio. Inoltre gli Shebab da indipendentisti nazionali si sono trasformati in jihadisti internazionali legati al Califfato di Al Baghdadi.
6. Guerra alla Libia per eliminare Mohammad Gheddafi. Risultato: quel Paese è completamente nel caos, i morti non si contano e dalle sue coste partono migranti di ogni genere diretti verso l’Europa e in particolare verso l’Italia e la Grecia.
Ma Sergio Romano si riferiva soprattutto alla situazione in Siria che è la più ‘calda’ insieme a quella libica. In Siria cinque anni fa erano iniziate rivolte popolari, trasformatesi in seguito in vere e proprie formazioni combattenti, contro il regime del dittatore Assad. Le ipotesi erano due. O queste rivolte avevano il supporto della maggioranza della popolazione e allora Assad sarebbe caduto perché nessun dittatore può resistere a lungo se la popolazione gli è contraria e i rivoltosi avrebbero vinto la partita. Oppure Assad, come in Libia Gheddafi, non era isolato e sarebbe stato lui a prevalere. La guerra ha una sua ecologia e andarvi a mettere il dito provoca guai peggiori di quelli che si volevano evitare. Insomma i siriani, come dice Romano, avrebbero dovuto vedersela fra di loro. Intervennero invece gli americani con le loro solite ‘linee rosse’ a favore dei rivoltosi. Questo ha permesso alla Russia di intervenire a sua volta sul campo a favore di Assad. Siamo quindi tornati ai tempi della ‘guerra fredda’ dove le due Superpotenze si fanno la guerra per interposta persona e sulla pelle altrui. Da qui i massacri quotidiani su Aleppo e dintorni e le lacrime di coccodrillo degli Stati occidentali e dei loro reggicoda intellettuali. Inutile aggiungere che anche qui si sono inseriti quelli dell’Isis, che non sono cretini, e approfittano della confusione generale. I russi bombardano i rivoltosi senza fare troppe distinzioni, gli americani, con i loro droni, vorrebbero colpire l’esercito di Assad e gli uomini dell’Isis ma bombardando, come sempre, a ‘chi cojo cojo’ finiscono per uccidere centinaia di civili. Di mezzo ci vanno i siriani dell’una o dell’altra parte o di nessuna parte.
C’è poi un particolare che contraddistingue le guerre americane degli ultimi venticinque anni: il boomerang si abbatte regolarmente sugli europei. Siamo noi, e non gli Usa, a dover sopportare le migrazioni che queste guerre provocano o aiutano. Angela Merkel, con una politica intelligente, anche se cinica, ha convinto l’Unione Europea a sborsare tre miliardi di euro al presidente turco Erdogan, uno dei veri e peggiori tagliagole della regione, per arginare il flusso dei profughi siriani. Insomma è l’Europa a pagare regolarmente i costi, non solo economici ma sociali, dell’avventurismo yankee. Quando capiremo che avremmo dovuto sbarazzarci da tempo dell’’amico amerikano’ temo che sarà ormai troppo tardi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2016