La settimana scorsa, in occasione del centenario della nascita di Giuseppe Berto, si è svolta a Mogliano Veneto una 'tre giorni' per commemorare l'opera e la figura dello scrittore che a Mogliano era nato. Cesare De Michelis, docente di Letteratura italiana all'Università di Padova, ha sviscerato in tutte le sue sfumature l'opera di quello che ha definito «uno dei più grandi scrittori italiani del secondo Novecento». A me è toccato il compito, più modesto e più giornalistico, maggiormente adatto alle mie corde, di parlare del Berto polemista. Per la verità Berto è stato polemista sia nelle sue opere che nella vita. In Guerra in camicia nera restituisce dignità e onore ai vinti, di cui peraltro, andato volontario in guerra, aveva fatto parte, nel suo capolavoro, Il male oscuro, disarticola le forme narrative in auge al tempo, nella sua ultima opera, La gloria, scritta pochi mesi prima di morire di cancro, rivaluta la figura di Giuda visto più come una vittima di superiori disegni del destino. Nella vita Berto, e questo me lo fa sentire particolarmente vicino, non si imbandò mai in partiti, congreghe, camarille di sorta. Era un 'chevalier seul'. Per questo ebbe l'ostilità della critica letteraria del tempo e in particolare della cricca raccolta attorno a Moravia, Eco, Siciliano (in cui si era dovuto intruppare, per sopravvivere, anche Pasolini che di sinistra non aveva nulla, era piuttosto un reazionario) che lo bollava come 'qualunquista' se non addirittura 'fascista'. Le solite cose. Da destra lo si considerava un comunista. I fascisti lo ritenevano un traditore. «La critica mi è sempre stata contro» mi disse una volta «mi sono salvato perché i miei libri, nonostante tutto, vendevano».
Al convegno io ho scelto di parlare dell'opera più pamphlettistica di Berto, Modesta proposta per prevenire, che richiama il celeberrimo pamphlet di Jonathan Swift. Nel 1971, in piena orgia di sinistrismo, Berto sbertuccia ferocemente il '68 e i sessantottini. Denuncia l'origine borghese di quei ragazzi pseudorivoluzionari (e in questo ebbe sodale Pasolini che in una famosa poesia difese i poliziotti, i veri proletari), la vocazione, di matrice soreliana, all'azione per l'azione, alla violenza per la violenza e quindi l'affinità col fascismo, l'inquietante connubio catto-comunista. Poi Berto prende di petto la retorica, che già Alberto Savinio in un preveggente libretto del 1945, Sorte dell'Europa,aveva individuato come «una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure» e in particolare la più asfissiante di tutte le retoriche, che ci perseguita ancora adesso, la Retorica della Resistenza, per cui gli italiani fecero finta di aver vinto una guerra che invece avevano perso, evitando così di fare i conti con se stessi. Il che ebbe varie e gravi conseguenze fra cui la nascita del terrorismo rosso. Ma dove quel libro di più di quarant'anni fa diventa di un'attualità stringente è là dove Berto, bypassando la polemica sul Sessantotto, denuncia la responsabilità della classe dirigente dell'epoca, la Dc in testa, che alla contestazione non disse i no che andavano detti ma neppure quei sì che pur andavano detti. Di qui la mancata riforma della scuola, di una burocrazia pletorica e inefficente, del parlamentarismo paralizzante, dei partiti. Sono i temi di oggi. Anche se non si sa se attribuire tutto ciò alla prevegenza di Giuseppe Berto o all'immobilismo della politica italiana per cui i problemi del nostro Paese, come notava Ennio Flaiano in un divertente ma anche malinconico elenco epigrammatico inserito in La solitudine del satiro, rimangono sempre, eternamente, gli stessi.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 28 novembre 2014
Cosa sarebbe successo, in epoca preindustriale, se su un campo dove lavoravano e si mantenevano dieci persone si fossero accorti che otto erano sufficienti a coltivarlo tutto? Avrebbero cacciato i due 'in esubero' a pedate? Nient'affatto, si sarebbero diminuiti proporzionalmente i carichi di lavoro e il tempo così guadagnato se lo sarebbero andati a spendere in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa o a cornificare, fra i cespugli, quella che avevano. Perché per quegli uomini il vero valore era il tempo, che noi abbiamo trasformato nel mostruoso 'tempo libero', un tempo non da vivere ma da consumare altrimenti le imprese vanno a rotoli. Anche l'artigiano lavora per quanto gli basta. Il resto è vita. Se leggiamo gli Statuti artigiani medioevali sbalordiamo: era proibita la concorrenza. Ognuno doveva avere il suo spazio vitale. Dice: ma allora cosa impediva all'artigiano di fornire prodotti scadenti? Gli Statuti che stabilivano minuziosamente gli standard e lo stesso artigiano cui l'orgoglio per proprio mestiere (che è un concetto diverso dal lavoro) gli imponeva di dare il meglio di sè, il capolavoro in senso tecnico. Quel mondo non era basato sulla competizione economica. Non che quella gente snobasse la ricchezza. Come nota sarcasticamente Max Weber «la sete di lucro...si trova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men». La sconvolgente novità che porta il borghese è che il guadagno si fa attraverso il lavoro (robb de matt). E' questa la folgore che cambierà tutti i rapporti economici, sociali, esistenziali e renderà centrale la figura ripugnante del mercante e dell'imprenditore perché è colui che dà lavoro. Sono patetiche le masse di uomini e di donne che oggi premono ai cancelli per poter diventare, o ridiventare, degli 'schiavi salariati'. La competizione chiude poi il cerchio. Per un imprenditore che vince magari usando la tecnologia al posto degli esseri umani ce n'è un altro che perde e deve liberarsi dei suoi dipendenti. A livello globale per un Paese che apparentemente si arricchisce ce n'è un altro che va in default. 'Apparentemente' perché la 'ricchezza delle Nazioni' di smithiana memoria non corrisponde affatto a quella delle loro popolazioni (la Nigeria è il Paese più ricco dell'Africa ma ha il più alto tasso di poveri).
La soluzione? Tutti, da Obama a Camerun, da Renzi a Camusso, la indicano nella crescita. Chiunque parli di crescita è un lestofante. Perché le crescite infinite, su cui è basato un modello di sviluppo ormai planetario, esistono in matematica ma non in natura. E noi abbiamo ormai superato abbondantemente il confine. Può crescere ancora qualche settore come l'informatica ma anche'essa troverà presto il suo limite (dopo aver ridotto l'iPod a 6 millimetri a tre a uno ed essersi inventati qualche ulteriore applicazione, che altro?). Adesso la parola magica è 'banda larga' che significa una maggiore velocizzazione delle comunicazioni, come se uno dei nostri problemi non fosse proprio la velocità cui stiamo andando, che permetterebbe, si dice, una maggior produttività. Ma produrre che cosa e soprattutto per chi, inducendo nuovi bisogni di cui l'uomo non aveva mai sentito il bisogno, caricando il pianeta, già al collasso, di un surplus di fardello?
Non si può più crescere, bisogna, sia pur gradualmente, decrescere. Una soluzione, per quanto circoscritta e limitata, io l'avrei. Si chiama Europa. Ma un'Europa molto diversa da quella attuale: unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Una formula dove la parola chiave è 'autarchica'. Lo chiarirò meglio in un prossimo Battibecco. Se nel frattempo non avrò perso il lavoro.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2014
Prima sono stati gli occidentali e gli islamici, più recentemente i cinesi, adesso ci si mettono anche i principi arabi a distruggere quel che resta dell'Africa Nera. In nome del business, come ormai tutto. Circa 80 mila Masai, un antichissimo popolo di pastori, cacciatori e guerrieri, dalla pelle ambrata, di straordinaria bellezza come tutte le etnie di origine nilotica (Li vidi per la prima volta durante un viaggio giovanile, nel 1969, nei dintorni di un villaggio al confine fra Kenya e Tanzania. Si stavano bagnando al fiume, uomini e donne, nudi tranne un minuscolo perizoma, le zagaglie a riposo, posate sulle rive. Una scena d'Arcadia africana) stanno per essere cacciati dalle terre in cui vivono da sempre. Avviene a Loliondo, in Tanzania. Il governo di Dar Es Salaam sta per concedere i diritti di sfruttamento di quel territorio, 1500 chilometri quadrati, all'agenzia turistica Ortelo Business Corporation legata al governo di Dubai (Emirati Arabi), specializzata nell'organizzare safari di lusso. Ne vuole fare una riserva di caccia per gli sfizi venatori degli Emiri e dei loro ricchi ospiti, europei e americani. I Masai devono quindi sloggiare. In contropartita dello sfratto avranno 500 mila euro o un ancor più sinistro 'progetto di sviluppo'. Ma non è la cifra ridicola che conta (poco più di 5 euro a testa). Il fatto è che con quest'atto di imperio e certamente di corruzione (le tangenti sganciate ai dirigenti del governo di Tanzania) si distrugge una comunità, si cancella una cultura, una tradizione, una storia. «La nostra terra non ha prezzo -ha detto un Masai, Samwel Nangiria- Gli avi dei Masai, le loro madri, le loro nonne sono sepolti qui». Ma poniamo anche che il compenso fosse adeguato che se ne farebbero i Masai di quei soldi? Se ne andrebbero a vivere in città o a Dubai o magari a Miami con le camicie a fiori? La loro vita ha senso là dove sono vissuti per secoli e millenni, in ogni altro luogo lo perderebbe.
Siccome i lestofanti al servizio del denaro non mancano mai, alcuni media sottolineano che la riserva di caccia della Ortelo Business Corporation risparmierebbe molti elefanti. In Africa 100 mila elefanti sono stati uccisi negli ultimi tre anni per venderne le preziose zanne d'avorio ai mercanti asiatici (bei soggetti anche costoro) perché in quelle culture si crede che le zanne abbiano un effetto afrodisiaco. Pur di realizzare la riserva di caccia per i super-ricchi si mette in campo l'ecologia animalista. Ma questa è più importante di quella umana? In realtà si tratta di un problema mal posto. I Masai vivono sostanzialmente di pastorizia e di allevamento del bestiame, cioè di economia di sussistenza (consumo quel che produco e caccio) e poiché non credono all'effetto afrodisiaco delle zanne di elefante ne ucciderebbero quanto gli basta per sfamarsi. Sono gli adescatori che vanno perseguiti, non gli eventuali bracconieri Masai.
La storia Ortelo Business Corporation-Masai di Loliondo è solo un atroce apologo della fine cui sono destinate tutte le comunità tradizionali anche quelle poche rimaste. Quando non le ha letteralmente distrutte o ridotte a 'riserve indiane', il Dio Quattrino, non importa se in salsa occidentale o islamica, le ha mostruosamente ibridate, togliendogli anche il loro profondo senso di comunità. I Masai, animisti, erano rimasti relativamente incontaminati. Ma se si continua a rompergli i coglioni con gli Ortelo Business Corporation o i 'progetti di sviluppo' non è escluso che si mettano anche loro a sequestrar persone e, in un orrendo connubio di modernità e cultura ancestrale, a filmarne le esecuzioni a colpi di zagaglia.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 21 novembre 2014